Il primo Aprile uscirà il suo nuovo disco, Ho una galassia nell’armadio, lui è Nicolò Carnesi, un timido e talentuoso giovane cantautore palermitano. L’abbiamo incontrato per voi in un pomeriggio di primavera e seduti su una terrazza abbiamo parlato di fisica quantistica, di Einstein, di amore e di vita e di come tutti questi elementi possono finire dentro le canzoni.
Il tuo nuovo disco s’intitola «Ho una galassia nell’armadio». Mi parli di questa galassia e perché hai deciso di metterla in un posto così piccolo e personale come un armadio?
L’idea del disco parte dal titolo dell’album, tutto quello che è venuto dopo è arrivato perché avevo in testa questo titolo che è diventato il concetto di base. Il tutto è nato leggendo un libro di Stephen Hawking che tratta delle leggi fisiche che regnano nel macrocosmo, ad esempio delle relatività diEinstein. Sono leggi che ci dicono che ad esempio questo accendino funziona esattamente come i pianeti e così noi e qualsiasi cosa sia tangibile. In contrapposizione a questo c’è invece la fisica scoperta agli inizi del ‘900, la fisica quantistica, governata da altre leggi, completamente diverse e in contrapposizione con quelle precedenti. Hawking quindi ipotizza che trovare un’equazione o qualcosa che determini un collegamento fra il macroscopico e il microscopico potesse portare a una conoscenza dell’universo enorme quasi da poterla chiamare equazione di Dio. Sono stato affascinato dall’intero concetto ma in particolare da questo dualismo tra il grande e il piccolo.
Tra un armadio e una galassia?
Esatto. Se cerchiamo di riportarlo a delle canzoni, a dei testi o a dei concetti che poi fanno parte della vita possiamo pensare che noi facciamo parte di un’entità piccola che però si contrappone sempre a qualcosa di gigantesco, come un terremoto o anche solo il semplice rapportarsi con l’universo. Ho cominciato a meditare su questo concetto macro vs micro e ho anche pensato che in queste canzoni c’era molto di più di me, il mio vissuto, la mia esperienza. Ho unito semplicemente le due cose con questo titolo: «Ho una galassia nell’armadio». In qualcosa di molto piccolo, ci si può comunque trovare a confronto con qualcosa di enorme.
Anche Vasco Brondi ha chiamato Costellazioniil suo album, vi eravate messi d’accordo?
No, non lo sapevamo, l’abbiamo scoperto dopo, quando avevamo già deciso i titoli, e solo in quel momento ne ho parlato con lui. Premesso che il suo titolo si riferisce di più al lato astrologico ed il mio invece parla del lato fisico, io sono stato incuriosito dal fatto che in un determinato periodo storico si senta l’esigenza di cercare un significato più alto. La mia teoria è che siamo talmente stufi di quello che accade sulla terra, siamo così bombardati dalle notizie al punto che non ci sfugge più nulla. Siamo sempre connessi, non possiamo perderci qualcosa, abbiamo i cellulari, abbiamo internet, la televisione ed è per questo che cerchiamo di guardare più lontano. Una delle cose che non conosciamo, su cui non abbiamo risposte è l’infinità del cosmo, tutto quello che non conosciamo è lì.
Come mai la fisica quantistica? Hai fatto studi di questo tipo?
No, in realtà ho fatto l’accademia delle belle arti. Vorrei dire che io non mi sento assolutamente un fisico, non capisco molto la matematica e non mi pongo in maniera arrogante. Ne sono molto affascinato ma da straniero, da neofita, è qualcosa che m’incuriosisce e che è stato divertente riportare in un album.
Come hai inserito la fisica quantistica nei testi delle canzoni?
In maniera molto leggera. Considera che questo disco ha sempre, in tutte le canzoni, un dualismo di fondo. Disegno, seconda traccia del disco, parla di due modi di affrontare una storia: il primo propositivo in cui il protagonista cerca di disegnare all’altra persona quello che le manca, quello che vorrebbe avere mettendoci tutto il buono possibile, il secondo, che riguarda il post storia, in cui si cancella tutto quello che si è fatto perché ci si accorge che, nonostante gli sforzi, è stato fatto male. In Numeri, la quinta canzone del disco, si analizzano due prospettive totalmente opposte «Io, vedo solo cieli grigi. Tu, ti abbronzi con le nuvole»oppure«Equazioni non ne ho». Ho cercato di raccontare una storia descrivendo due modi diversi di vedere le cose.
Uno più razionale e uno più romantico?
Sì, ma anche uno più pessimista e uno più positivo. La conclusione è che non si possono definire i rapporti umani con semplici equazioni, perché ci sono troppe dinamiche e troppe variabili e la cosa migliore da fare diventa viversi semplicemente le cose «Equazioni non ne ho, spero che tu capirai che i conti non tornano mai e che i risultati non hanno a che fare con noi».
Hai lavorato a questo disco con Tommaso Coliva e hai voluto suonare tutto tu.
Ho registrato tutto io tranne alcune cose che hanno suonato degli ospiti. La sezione ritmica dei Selton ha suonato batteria e basso in tre pezzi, Antonio Di Martino ha suonato il basso in Numeri, Angelo Trabace ha suonato dei pianoforti, Rodrigo D’Erasmo gli archi e Roberto Angelini la slide guitar.
La mia idea era quella di realizzare un sogno e di suonare io il più possibile. Il motivo è che sono polistrumentista, ho cominciato a suonare la batteria, poi ho imparato la chitarra, il piano, il basso. Se guardo al primo disco posso dire che sono contento del risultato ma non del suono, non mi rappresentava per vari motivi: perché era il primo, perché è stato fatto a frammenti, aveva perso corposità a livello di suono. In questo caso, invece, avevo le idee molto chiare, avevo suonato tutto io a casa, i provini erano abbastanza definiti, avevano degli arrangiamenti precisi e quindi mi sembrava inutile andare a spiegare a qualcun altro come suonare le tracce, ho scelto di fare tutto io, di divertirmi a farlo e di levarmi uno sfizio. Il primo disco l’avevo registrato nella campagna tra la provincia di Catania e Palermo, con questo mi sono confrontato con una realtà più grossa, quella Milanese e devo dire che è stata una bella esperienza. Sono stato tre mesi qui per registrare il disco, mi è piaciuta la città e ho capito che poteva essere un luogo dove poter avere nuovi stimoli e questi, ultimamente, a Palermo mi sono mancati, non perché non sia una bella città o perché non mi ci trovi bene ma perché credo di avere assorbito abbastanza. In Milano ho trovato un posto che mi piace.
Sei stato anche a New York quest’anno?
Sì, sono stato un mese a New York e devo dire che è stato fondamentale per il disco. Lì ho scritto il singolo, La Rotazione.
Primo pezzo che uscito ma ultimo brano dell’album?
Sì, è stata una mia scelta. Quel pezzo racchiude un po’ la conclusione dell’album. Questo disco ti pone davanti a moltissime domande ed io stesso mi pongo un sacco di domande. Il disco inizia con una discesa verso la terra, nel primo pezzo immagino questi personaggi che cadono chissà dove con paracaduti di piombo. Una volta atterrati iniziano a porsi le domande perché sono ritornati nel nostro piccolo mondo, nell’armadio. Nell’ultimo pezzo mi piace immaginare che riescano a tornare un po’ più in alto, a vedere la terra nella sua interezza, a vederla ruotare e che si rendano conto che non hanno delle risposte ma hanno trovato molto nel viaggio fatto, nella ricerca. È una consapevolezza malinconica,capiscono che non si possono trovare le risposte ma che è bello cercarle e che l’unica cosa che si può fare è continuare a cercarle.
C’è qualcos’altro che unisce le storie di quest’armadio oltre la fisica ed è l’amore. Le storie del disco però finiscono male. Credi ci sia poco coraggio e poca voglia di lottare nelle relazioni?
Nel mio caso sì, almeno fino ad ora. Ho sempre cancellato quello che ho creato. Quello che vedo intorno a me ha due facce, ci sono persone che ci credono e che lo fanno anche bene e chi no. Dipende anche da come ti senti in un determinato momento della tua vita.
Anche L’ultima fermata ha un senso d’inadeguatezza. Scrivi: «L’ultimo ballo di quel film ti ha sempre confusa, ti ha sempre commossa come io non saprò fare mai»
Molte cose personali e intime sono finite all’interno di questo disco. Alcune storie, che risalgono al periodo in cui lo stavo scrivendo, sono finite male, anche per colpa mia. La sensazione diventa quella di quando ti accorgi che non riesci a portare aventi le cose, la paura di non essere adatto.
Parliamo dei sound, questodisco pur mantenendo un approccio cantautoriale ha dentro dei suoni diversi, più Phoenix, c’è quasi un French touch anni 80.
Esatto, i Phoenixsono proprio uno dei riferimenti base del disco. Ero un po’ stufo del cantautori con la chitarra. Sia chiaro, mi piacciono, mi piace chi lo riesce a fare però io non mi ritrovo più dentro quella dimensione. Mi capita di suonare chitarra e voce e di spogliare la canzoni dei loro vestiti però nel disco hai la possibilità di arricchirle. Anche se esci con il tuo nome e cognome questo non vuol dire che sei automaticamente costretto a fare il cantautore con il chitarrino acustico, puoi provare a proporre anche altro.
Il mio mondo e la mia appartenenza musicale sono esterofili, mi piacciono i Phoenixma mi piacciono e hanno ispirato il disco anche altri gruppi anni 80 come ad esempio i New Order, i Cure, i Joy Division. Anche su quest’aspetto ho cercato di trovare un compromesso a questo dualismo, sono partito dai pezzi originali, che avevano la forma classica delle canzoni d’autore, e ho cercato di vestirli con tutt’altro arrangiamento o vestito cercando di far coesistere al meglio le due cose.
Anche nei testi sembri avere uno sguardo più generale, sempre molto critico ma più ampio.
Sicuramente il mio punto di vista si è allontanato, ho smesso di concentrarmi sui piccoli particolari di una micro società ma ho provato a parlare di temi un po’ più universali però filtrati sempre da me. Ho messo molto di me ma, ho cercato di trovare una quadratura universale, sempre grazie a quel concetto di grande e piccolo. La realtà in fondo è il modo che hai tu di percepirla e non puoi sfuggire da te stesso quando fai qualcosa, è impossibile. Ho cercato di offrire una visione generale di qualcosa che è soltanto mio.
La grande fuga di Albertosiriferisce ad Albert Einstein, ma forse anche la copertina del disco. Mi parli di questo personaggio e del perché ti ha ispirato?
Sì, la copertina è un misto tra i miei capelli, un buco nero ed Einstein. Lui è stato un personaggio onnipresente, in tutte le letture, in tutti i libri che leggevo durante le registrazioni. È stato lui che ha cambiato la fisica ma oltre questo lo vedo anche come un personaggio artistico. Per arrivare a inventare qualcosa che non c’è e che sta solo nella tua mente come ad esempio un quadro, un film o altro devi partire da un’idea e anche un teorema prima di diventare qualsiasi cosa è solo una folle idea nella testa di qualcuno. Ho voluto immaginare un Einstein dei nostri giorni e ambientare quella canzone nella sua testa.L’ho chiamataLa grande fuga perché la creatività comporta una sorta di fuga totale dalla realtà, quando devi spiegare qualcosa devi anche fuggirla perché ti devi immaginare quello che nella realtà non esiste. Ci sono i dati di fatto, come quello che un accendino cade a causa della forza di gravità ma ti devi immaginare questo fenomeno, te lo devi chiedere il perché, ed è qui che sta la fuga. Tuttavia quando scappi da quello che è vero e reale diventi una sorta di folle. Citando il primo disco In manicomio ci sono i geni.
In Illuminati dici «Innamoriamoci senza toccarci, innamoriamoci senza parlarci», parli del fenomeno degli amori su facebook?
La galassia può essere intesa come un insieme di pianeti, di stelle, ma anche di persone: la galassia di facebook. Volevo descrivere in Illuminatifacebook e i social network perché il modo di muoversi di queste comunità mi ha sempre affascinato ma anche lasciato interdetto e perché, anche se esistono da poco tempo, chi è della mia generazione ci cresciuto e ne fa completamente parte. Mi sono concentrato sul modo in cui ho visto nascere delle relazioni d’amicizia ma anche d’amore semplicemente davanti ad uno schermo, senza toccarsi o vedersi realmente. Anche chi si scriveva le lettere, nel passato, poteva innamorarsi senza contatto ma in questo caso la dimensione è molto più concreta, quasi reale pur essendo totalmente finta. Un’altra cosa che non ho ancora realmente capito, e se mi piace, è la possibilità che ognuno ha di crearsi una nuova personalità e a volte riuscire anche ad apparire o a sembrare meglio di quello che si è.
Sei stato due anni in tour con il tuo primo disco, hai girato tutta l’Italia, come ti ha cambiato questa esperienza? Te lo aspettavi?
No, all’inizio no. Abbiamo fatto così tanti concerti e l’Italia è così piccola che finivamo per tornare negli stessi posti e ogni volta che tornavo in un luogo c’era sempre più gente che cantava i pezzi. Ho visto crescere il disco, quello che ho fatto, il progetto in generale in maniera esponenziale e bella. Ho conosciuto e visto un sacco di luoghi e ho avuto un modo fortunato di capire meglio la nazione in cui vivo. Mi piace, l’ho fatto sempre in maniera gioiosa, conoscere nuove persone e nuovi posti ed è quello che spero succeda con il nuovo tour.
In questi mesi sono usciti numerosi dischi della scena cantautoriale italiana (Dente, Vasco Brondi, Brunori, gli Zen Circus) e stanno anche partendo o sono già partiti i tour. Sembra essere un periodo di grazia per questo genere.
Sì, questa è una cosa positiva. C’è tanta offerta e i concerti stanno dimostrando che c’è anche un seguito. C’è tanta gente che va a sentire i live e che vuole vedere questi artisti. Credo che le persone abbiano bisogno di canzoni, perché quello che facciamo è questo, scriviamo canzoni.
Vorrei chiudere citando il titolo del vecchio album che però è anche il titolo di un pezzo del nuovo e vorrei chiederti perché«gli eroi non escono il sabato»?
Perché il sabato a Palermo escono tutti, è vissuto come un piccolo capodanno, un ferragosto e allora mi è piaciuto inventare questi personaggi e immaginare che restassero in casa per diventare degli eroi, per sfuggire alla confusione e all’obbligo dell’uscita a tutti i costi. A Milano invece il sabato non esce nessuno, forse perché si esce troppo durante la settimana.