Forse scuola e università sono gli ultimi luoghi in cui ragazzi e ragazze nel nostro Paese vengono valutati, promossi e premiati in base al merito e all’impegno. Poi, improvvisamente, il percorso si fa impari. Le donne corrono una corsa ostacoli, gli uomini no. Le donne si portano una zavorra pesante, gli uomini camminano più o meno leggeri. Un gruppo di ricercatrici ha anche dato un nome a questa impresa sportiva, “chilometro rosa”, calcolando che quando l’avversario uomo ha già tagliato il traguardo, le donne dovranno ancora percorrere 300 metri. E alla fine il risultato è che in poche arrivano sul “podio”, nei ruoli dirigenziali del settore pubblico o nei consigli di amministrazione delle aziende. Quello che viene fuori è l’incapacità di valorizzare le donne, e a preoccupare non sono solo i fatti di cronaca, ma anche i dati e le statistiche che dimostrano l’intensità di quest’arretratezza. Eppure, quote rosa a parte, al tema femminile il nostro Paese non ha saputo dedicare mai uno spazio sufficiente (del ruolo delle donne nelle aziende si è parlato lunedì 31 marzo a Firenze nella tavola rotonda “Donne capitano d’impresa”, organizzata da Kevin Tempestini&Partners, con Gina Giani, ceo Società Aeroporto Toscano, e Raffaella Leone, ceo Leone Film Group).
1. Settore pubblico
Partiamo dal settore pubblico. Dal governo Letta in poi, i volti femminili si sono finalmente affermati al governo. Le ministre, prima della staffetta con Matteo Renzi, erano sette. Ora sono otto, lo stesso numero dei colleghi uomini. Parità di genere? In tanti, dopo le foto del presidente del consiglio tra le ministre, si sono chiesti se non si trattasse solo di pinkwashing, cioè una lavata di “rosa” per apparire più belli. Tant’è che quando è arrivato il momento di nominare i sottosegretari, le donne erano una riserva indiana: solo nove contro una corazzata di trentacinque uomini.
Ma non è solo una questione di governo. La Rete Armida, Rete delle alte professionalità femminili della pubblica amministrazione, ha redatto anche quest’anno un documento sulla presenza delle donne ai vertici del settore pubblico. La fotografia è deprimente:le donne conquistano anche più della metà dei posti in palio nei concorsi pubblici, ma poi a comandare nella pubblica amministrazione ci vanno gli uomini. Tra i 32 nuovi magistrati referendari dei Tar vincitori di concorso, ad esempio, 19 sono donne. Anche tra gli ultimi test di selezione della magistratura contabile quasi la metà dei vincitori è donna: dieci su 21. Ma nessuna donna in Italia è Procuratore generale in una Corte d’appello e nessuna è presidente di un Tar.
Molto scarsa anche la presenza femminile ai vertici della carriera diplomatica: su 923, le donne sono solo 178 e, tra queste, le donne ambasciatore sono solo due. Nel direttorio della Banca d’Italia, la presenza femminile si attesta al 20 per cento, mentre nelle Authority su 37 membri le donne sono solo sette. La situazione peggiora nel mondo universitario, con una struttura a piramide: in punta le donne rettore, che sono solo 5 su 78; seguono le donne ordinario (14,6%), poi le associate (27,1%) e alla base troviamo le ricercatrici (58,3%).
2. Le donne nelle aziende e l’imprenditoria femminile
Ma se il pubblico è pubblico e spesso va più lento del privato, la situazione non è più rosea (nel senso letterale del termine) nelle grandi aziende: le donne in posizione di leader sono il 34,7%, quelle nei consigli di amministrazione delle più importanti società per azioni si riducono al 4 per cento (dati Eurostat). Numeri ancora più bassi nei cda delle imprese partecipate dal ministero dell’Economia e delle finanze: la percentuale più alta, 40%, solo per Expo; ma ben 16 di queste società su 28 non hanno neanche una donna nel board.
Diverso è invece il caso delle piccole e medie imprese a guida femminile, che pare resistano alla crisi più di quelle maschili. A fine dicembre 2013, facendo un bilancio, le imprese rosa hanno trovato comunque le risorse e le energie per crescere di 3.415 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Meno del passato, certo, «ma con il coraggio, l’ostinazione e la creatività che tante donne hanno saputo dimostrare nel tempo», scrivono da Unioncamere.
Le donne capo d’azienda in Italia sono 1,5 milioni. Poche, il 23,5%, se confrontate con le imprese a guida maschile: meno di un’impresa su quattro. E il più delle volte si tratta di imprese piccole, con dimensioni e fatturato minori rispetto a quelle a conduzione maschile. In diverse realtà provinciali, come Avellino e Benevento, o regionali, come il Molise, l’esercito delle donne che fa impresa sale al 30 per cento. E in alcuni settori, come la sanità e i servizi alla persona, le manager sono quasi la metà.
«Nel fare impresa le donne mostrano un’alta dose di concretezza, avendo scelto nel tempo ambiti che, per tradizione ma anche perché probabilmente si avvicinano di più alla sensibilità femminile», spiegano da Unioncamere. Parliamo del commercio, dell’agricoltura e del turismo. Ma è nei servizi alla persona e nella sanità che la componente femminile arriva a sfiorare il 50 per cento.
Se nel 2013 il settore che registra l’aumento più consistente è quello turistico, nel tempo si irrobustisce la presenza di imprese rosa anche in ambiti tradizionalmente maschili: attività finanziarie e assicurative, noleggio, agenzie di viaggio e servizi di supporto alle imprese. Addirittura le costruzioni mettono a segno un incremento di 991 imprese a guida femminile. Sul fronte opposto, invece, l’agricoltura registra una perdita di oltre 10mila unità.
Nonostante siano piccole e strutturalmente deboli, le imprese femminili sembrano però proiettate verso un’organizzazione più moderna: nel 2013 sono ben 9.548 le società di capitali in più rispetto all’anno precedente, con un incremento del 4,37 per cento. Consistente anche il saldo attivo delle cooperative (+823 pari al +2,77%). Quelle più colpite dalla crisi, invece, sono soprattutto le ditte individuali, che cedono quest’anno 6.246 posizioni, e le società di persone, ridotte di 1.066 unità.
3. Dati e statistiche: l’arretratezza sociale e culturale italiana
Quello che resta, al di là dei piccoli segnali positivi, sono però alcuni indicatori che costringono ancora le donne italiane a correre con fatica quel famoso “chilometro rosa”. Soprattutto nel mondo del lavoro. La discriminazione spesso si registra già nell’accesso alla professione, e durante tutto il percorso della vita lavorativa le donne sono più sottoutilizzate degli uomini, specialmente se laureate.
Una volta superato lo scoglio dell’accesso, quello che salta subito all’occhio è che le donne vengono pagate meno dei colleghi uomini. È il cosiddetto gender pay gap, la differenza salariale tra uomini e donne. Rispetto alla media europea, del 16% (che significa che una donna dovrebbe lavorare due mesi all’anno in più per eguagliare i colleghi uomini), con il 5,5% l’Italia risulta tra i Paesi virtuosi dell’Europa. Ma non è così, visto che questo dato va letto alla luce del fatto che nel nostro Paese la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è tra le più basse d’Europa e diminuisce con l’arrivo dei figli, mentre il tasso di inattività femminile è quasi quattro volte quello europeo.
A parità di posizione, le donne italiane presentano una retribuzione mensile netta inferiore di circa il 20% a quella degli uomini (fonte Istat). Il gap, come si legge in uno studio del Consiglio nazionale economia e lavoro (Cnel), risulta elevato soprattutto tra le donne meno scolarizzate, raggiungendo quasi il 20%, e si mantiene oltre il 15% per chi ha la licenza media. Ne soffrono sia le giovanissime (8,3% di penalizzazione rispetto ai coetanei) sia le lavoratrici adulte (12,1%), mentre è più contenuto nella fascia di età compresa tra 30 e 39 anni (3,2%). Per quanto riguarda i settori, si registra una forte differenza nelle retribuzioni medie orarie di uomini e donne occupati nei servizi finanziari e nelle imprese (rispettivamente 22,4% e 26,1%), nell’istruzione e nella sanità (21,6%), e nella manifattura (18,4%).
Questi dati vanno poi contestualizzati in una realtà sociale, come quella italiana, in cui il “lavoro domestico” è ancora quasi tutto a carico delle donne. Nelle coppie di occupati con donna tra 25 e 44 anni, in un giorno medio settimanale la donna lavora in totale (lavoro retribuito e familiare) 53 minuti in più del suo partner (9h08’ delle donne contro le 8h15’ degli uomini). Il divario cresce di oltre un’ora alla presenza di figli.
L’asimmetria dei ruoli è elevata: il 71,9% delle ore dedicate al lavoro familiare (lavoro domestico, di cura e di acquisti di beni e servizi) dalle coppie di occupati è a carico delle donne. Nel tempo la percentuale è diminuita ma rimane ancora alta: in 20 anni tra le coppie di occupati con figli si è passati dall’80,6% del lavoro familiare a carico della donna del 1988-89 al 72% del 2008-09 (-12 punti percentuali), perché le madri hanno tagliato 37 minuti di lavoro familiare, mentre i padri lavorano 26 minuti in più. La diminuzione alla fine c’è stata più per i tagli operati dalle madri che per l’incremento dei padri (1 minuto l’anno!).
Anche se, in generale, le condizioni delle lavoratrici restano peggiori di quelle dei lavoratori per salario percepito, sottoccupazione e sovraistruzione, negli anni della crisi il divario tra generi si sta riducendo. Mentre il tasso di occupazione maschile è passato dal 70% del 2007 all’attuale 64%, quello femminile si è mantenuto quasi stabile dal 46,6% pre crisi, al 46,2 per cento. Ma solo perché con l’allungamento dell’età pensionabile più donne restano nel mercato del lavoro, e perché la condizione maschile peggiora di più di quella femminile. Con il marito disoccupato o cassintegrato, più donne entrano nel mondo del lavoro, anche a condizioni contrattuali e lavorative inaccettabili. La riduzione del divario tra generi non significa quindi un miglioramento della condizione di vita delle donne. Anzi, di fronte ad aziende sempre meno inclini a spendere e a politiche sociali sempre meno propense a spendere per il welfare familiare, il rischio è l’aggravarsi della crisi sociale.
Rispetto ai colleghi uomini, le donne firmano ancora un numero maggiore di contratti di lavoro atipici (dipendenti a termine e collaboratori) e spesso svolgono un lavoro che richiede un titolo di studio meno elevato di quello posseduto (sovraistruzione). Cresce, soprattutto nel commercio e nella ristorazione, il part time involontario, cioè quello di chi accetta un lavoro a tempo parziale ma sarebbe disposto a lavorare a tempo pieno. Anche a costo di sacrificare se stesse, visto che il 71,9% delle ore dedicate al lavoro familiare in Italia è ancora a carico delle donne. E la spesa sociale per le famiglie, nonostante i proclami dei politici, si ferma all’1,5% del pil, ben al di sotto della media europea.
Scrive The Economist: «In paesi come il Giappone, la Germania e l’Italia, che sono tutti in difficoltà demografica, lavorano molte meno donne che in America, per non parlare della Svezia. Se la forza lavoro femminile arrivasse ai livelli americani, darebbe un potente spinta alla crescita economica di questi paesi». In effetti, forse non tutti sanno che se la percentuale di lavoratrici donne raggiungesse gli obiettivi del Trattato europeo di Lisbona (il 60%), il pil crescerebbe del sette per cento. Fonte: Banca d’Italia. La stessa Banca centrale in cui tra i ruoli apicali le donne si fermano solo all’11 per cento.