Alla Vucciria, nel cuore antico di Palermo, a inizio febbraio un edificio di tre piani è venuto giù come un castello di sabbia. È solo l’ultimo di una serie di crolli, in una città deturpata dalla speculazione edilizia. Solo nel centro storico, il Comune ha censito 1.300 edifici instabili, di cui 228 a rischio crollo. A Matera, neanche un mese prima, una donna era morta sotto le macerie di una palazzina in una delle strade principali della cittadina.
Altro che “Grande Bellezza”. L’Italia cade a pezzi. Crepe, davanzali che cedono, scale che scricchiolano: i palazzi sparsi lungo tutta la Penisola sono vecchi, sprecano troppa energia e hanno sempre più bisogno di interventi di manutenzione. Lo dice anche l’ultimo rapporto Cresme sullo stato dell’edilizia italiana: tra gli edifici pubblici, il 49% è stato realizzato prima del 1945; tra quelli scolastici, quasi la metà ha da 31 a 50 anni di età; tra le abitazioni, oltre il 60% ha più di quarant’anni. Fra soli dieci anni, nelle 14 città metropolitane italiane gli appartamenti con oltre 40 anni di vita saranno l’85 per cento. Eppure gli investimenti pubblici per la manutenzione dei centri urbani pesano sul bilancio pubblico poco più del 2 per cento.
Partiamo dallo stock edilizio destinato agli uffici, pubblici e privati, che conta in tutto 65mila strutture, di cui 13.675 pubbliche. Un patrimonio “prevalentemente vecchio”, scrive il Cresme: quasi la metà è stato realizzato prima del 1945 e le nuove costruzioni ogni anno non superano i 25-30 fabbricati. Anche gli interventi di ristrutturazione e manutenzione straordinaria sono pochi e riguardano solo circa 175 edifici all’anno. Ma anche le scuole non se la passano bene, come si sa: più del 40% ha oltre 70 anni e quasi la totalità (97%) ha un impianto di riscaldamento tradizionale che fa consumare che fa consumare (insieme all’elettricità) oltre 1,2 miliardi all’anno. La situazione non migliora per il comparto delle abitazioni: più del 60% degli edifici ha più di 40 anni, e il 30% è stato costruito prima della seconda guerra mondiale.
A Napoli, a inizio marzo, è stata sfiorata la tragedia: un’intera ala di un edificio dell’Ottocento alla Riviera di Chiaia si è sbriciolata su se stessa. Piano terra, primo e secondo piano ridotti in calcinacci. E anche a Milano, le segnalazioni che arrivano ogni anno all’Ufficio stabili pericolanti sono almeno un centinaio, di cui una decina di «elevata pericolosità».
Ma non è solo questione di anzianità degli edifici. L’Italia è anche terra di abusivismo edilizio, con tutto quello che questo comporta in termini di sicurezza. Come spiegano anche da Legambiente, dagli anni Settanta in poi, «in barba alle leggi, venne realizzato un numero impressionante di nuove unità immobiliari. Le seconde case, spesso lasciate vuote o occupate pochi giorni all’anno, invasero la penisola, sorgendo senza ordine né coerenza devastando alcune delle località più belle del Paese». Poi sono venuti i condoni. La legge 47 del 1985 per la prima volta consentì di regolarizzare le posizioni dei proprietari abusivi, seguita a ruota dalle sanatorie del 1994 e del 2003, che avevano come principio di fondo la possibilità di un introito straordinario per lo Stato. In realtà, «hanno invece fatto incassare pochi spiccioli e premiato gli abusivi».
La situazione si fa ancora più preoccupante se si pensa che, come mette nero su bianco la stessa Protezione civile sul suo sito web, «l’Italia è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio e per l’intensità che alcuni di essi hanno raggiunto, determinando un impatto sociale ed economico rilevante». Non solo: va tenuto conto anche del rischio idrogeologico, che «rappresenta per il nostro Paese un problema di notevole rilevanza, visti gli ingenti danni arrecati ai beni e, soprattutto, la perdita di moltissime vite umane».
In un momento di forte crisi del comparto delle costruzioni e del mercato immobiliare – il valore degli investimenti nelle costruzioni tradizionali tra il 2006 e il 2013 si è ridotto del 32% – si potrebbe (forse) smettere di insistere sulla costruzione di nuove strutture e puntare sulla riqualificazione degli edifici esistenti e spesso abbandonati. Anche perché, come ha documentato l’Ispra nel suo ultimo report, ogni giorno nel nostro Paese si consumano 5 ettari di nuovo territorio, e la maggior parte dei Comuni destina al verde pubblico meno del 5 per cento della propria superficie.
D’altronde, negli ultimi sette anni il peso dell’attività di manutenzione e recupero del patrimonio esistente sul valore totale della produzione nelle costruzioni è cresciuto di oltre 11 punti percentuali. Cosa che è dovuta sia alla pesante riduzione degli investimenti per le nuove costruzioni calati da 85 miliardi di euro del 2006 a meno del 51 nel 2013, sia alla crescita del volume dei lavori di manutenzione, passato dai 106,5 miliardi di euro del 2006 ai 115 del 2013, pari al 66,4% dell’intero mercato delle costruzioni.
Il contesto di degrado degli edifici, pubblici e privati, dovrebbe preoccupare in effetti anche per ragioni economiche. Ne è convinto Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori. «Il debito pubblico italiano», schematizza Freyrie, «è garantito dal risparmio privato. Il 50% di questo risparmio privato è ascrivibile a immobili. Se questa voce va male, perché le case perdono valore, l’Italia va incontro al fallimento. È una provocazione, ma che si basa su basi economiche serie».
Un’operazione di rigenerazione del patrimonio esistente, sulla scia di quanto fatto già in Francia e Germania, aggiunge, «sarebbe in grado di dare al Paese due punti aggiuntivi di Pil e di abbassare di molto la disoccupazione. Queste stime sono state fatte da uno studio del Politecnico di Milano e dell’Enel». Stime quindi da prendere con le molle. Il Piano casa del governo Berlusconi del 2009, mette in guardia Freyrie, che permetteva ampliamenti di superfici in deroga ai regolamenti comunali, ha avuto un impatto economico «pari a zero. Negli anni del Piano casa nell’edilizia sono stati persi 600mila posti di lavoro».
Se i privati non hanno voluto o potuto investire, di certo anche il pubblico non ha messo le città in cima alle proprie priorità. «Nella voce “lavori pubblici” del bilancio dello Stato – aggiunge Freyrie – i centri urbani pesano per il 2,5%, di cui l’1% per le metropolitane. Si lascia che i soldi li mettano i comuni, che però sono soggetti al patto di stabilità. La situazione è dunque congelata da anni».
Il budget a disegno di legge di bilancio 2014 parla di 542 milioni di euro stanziati per casa e assetto urbanistico, di cui poco più di 300 per edilizia abitativa e politiche territoriali e la parte restante per politiche abitative, urbane e territoriali. Quasi tutti i costi risultano “dislocati” ad altri enti pubblici.
Come scongelare la situazione? Per il presidente degli architetti non ci sono dubbi: «Ci vuole un cambio radicale del paradigma di governo del territorio: bisogna limitare al massimo il consumo di suolo, che crea rischio idrogeologico e maggiori costi per gli allacciamenti. Si deve investire invece sul riuso delle città».
Perché questo non rimanga solo un buon proposito, aggiunge, sono necessari tre elementi: avere una strategia di progetto, semplificare le regole e fare investimenti. Su quest’ultimo punto, sottolinea, «siamo convinti che il driver della crescita sia il risparmio energetico, perché i ritorni sono rapidi e misurabili, mentre le azioni per ridurre il rischio sismico sono invece vissuti come spesa pura. Gli interventi di risparmio energetico si recuperano in un periodo varibile tra i sette e i vent’anni e il rapporto Cresme ha stimato che se “passivassimo” tutti gli edifici, i consumi annui di energia del patrimonio residenziale italiano passerebbero da oltre 40 a 20 miliardi di euro». “Passivare” gli edifici significa mettere mano a rivestimenti esterni, coperture e impianti, cosa che richiede un progetto sistemico che cambia in modo radicale l’edificio.
La strategia sul “Riuso” (acronimo di Rigenerazione urbana sostenibile), immaginata dagli architetti, assieme ai costruttori dell’Ance e da Legambiente, è complessa. Nella loro visione bisogna cambiare le regole dei condomini, agire sui regolamenti edilizi dei comuni, oggi troppo restrittivi, creare le condizioni perché gli investimenti privati siano a costi ridotti, «per esempio attraverso fondi di garanzia della Cassa depositi e prestiti».
In questo senso ci sono degli esempi di soggetti che si sono già mossi: uno è il “Rebuilding Network”, un gruppo di sei società, da fornitori di impianti a finanziatori, che sta creando un mercato strutturato nel settore della risistemazione dei condomini. Altri soggetti attivi nei condomini, ma anche su una scala di quartiere, sono le “Esco” (energy service company), società che effettuano gli interventi per migliorare l’efficienza energetica, si assumono la gestione dell’energia prodotta e dividono i benefici con i clienti.
Per gli architetti andrebbe anche cambiato l’incentivo del 65% per gli interventi di risparmio energetico (aumentato lo scorso anno rispetto al precedente rimborso del 55%), perché, «non ci sono controlli ex post, come la termo-fotografia. Invece gli incentivi dovrebbero essere proporzionali ai risultati, come avviene in Germania. Secondo uno studio di Legabiente, solo pochissime regioni hanno fatto controlli e solo su un campione del 5% degli edifici».
Se le azioni non fossero più a macchia di leopardo ma diventassero un vero programma nazionale, dice Freyrie, si aprirebbero le porte ai fondi Ue. La direttiva 27/2012, non ancora recepita in Italia, prevede che per accedervi uno Stato debba effettuare un censimento del patrimonio edilizio e mettere a punto un programma nazionale per ridurre i consumi. «Il rapporto Cresme», dice, «è già un censimento. Tocca ora allo Stato».
Vale la pena di vedere quello che è stato fatto finora di buono, in maniera non coordinata e nel mare di disastri già ricordati, nel territorio. Milano, sottolinea l’architetto, ha un regolamento edilizio troppo restrittivo, ma ora concede aumenti di volumetrie nel caso si facciano risistemazioni energetiche.
Ci sono poi i progetti riusciti di riqualificazione di interi quartieri o centri storici. «A Torino, Porta Palazzo era nota come una zona di enorme degrado. Le persone avevano paura, ora è un posto civile. Le istituzioni (gestione Chiamparino, ndr) sono riuscite a creare, assieme alla popolazione locale, condizioni per cui i privati sono intervenuti». Gli esempi negativi quali sono? «Basta prendere quasi tutti gli altri comuni italiani», taglia corto Freyrie.
Nel 2013 nelle grandi città sono state avviate 664 iniziative finalizzate alla riqualificazione urbana, per un importo complessivo di 739 milioni di euro. «L’anno peggiore per il mercato della riqualificazione delle grandi città dal 2005 a oggi in termini di numero di iniziative», dice il rapporto Cresme. Esempi positivi e innovativi arrivano invece dalle cittadine più piccole. A Chieti, ad esempio, è stata avviata una gara di project financing per il recupero di tre immobili. «Si tratta dell’ex caserma Pierantoni, l’ex Conservatorio Santissimo Rosario e l’ex orfanotrofio Santa Maddalena», spiega l’assessore ai Lavori pubblici Mario Colantonio. «Sono edifici che risalgono a un periodo che va dal 1600 al 1800. È un progetto da 24 milioni di euro, che riquaificherà i tre edifici storici». Spazi abbandonati che così potrebbero rinascere.
I centri storici potrebbero essere allora il punto di partenza per gli interventi di risistemazione delle città? «Solo a patto che si superi l’ideologia estremista della tutela», risponde il presidente degli architetti italiani. «Nei centri storici ci sono edifici di valore, che vanno tutelati e sui quali bisogna poter intervenire per risolvere problemi di energia, sicurezza, vivibilità. Ma ci sono anche edifici non di valore, come quelli ricostruiti dopo i bombardamenti, che se sono orrendi vanno abbattuti, nonostante siano in “zona A”».
Per il momento le prossime mosse del governo sono quelle del Piano Casa, che il presidente del Consiglio Renzi ha annunciato per mercoledì 12 marzo. «Da quel che so», dice Freyrie, «dovrebbero essere misure fiscali che riguardano l’affitto con l’abbassamento della cedolare secca, il fondo di garanzia per i mutui per la prima casa, oltre ad alcuni fondi per il social housing. È il piano Lupi, la seconda parte di quanto fatto con il governo Letta. Quello che manca ancora è il piano per le città».
*Infografica di Carlo Manzo