La doccia fredda è arrivata dopo poche ore e ad aprire il rubinetto è stato niente meno che Mario Draghi: non esistono margini di manovra per sostenere le spese annunciate da Matteo Renzi. «Non ci sono progressi tangibili», scrive il bollettino dell’Eurotower. Il deficit pubblico si è chiuso al 3% nel 2013 non al 2,6% che rappresenta una previsione, un impegno, per il 2014. E non può essere ipotecato ex ante. È come decidere una spesa certa garantita da una entrata incerta, una sorta di subprime da finanza pubblica che, per la verità, l’Italia ha praticato a lungo, in tutti i decenni che hanno portato il debito al 130% del PIL.
Dunque Draghi contro Renzi? È presto per dirlo, ma certo prende corpo l’ipotesi che gli eroici furori renziani abbiano subito nei giorni scorsi una netta frenata. Ecco perché dal consiglio dei ministri del cosiddetto super-mercoledì non è uscito nessun provvedimento concreto, ma solo un elenco di impegni, alcuni positivi (bisogna mettere in circolo del denaro e sostenere una domanda interna al collasso), altri ancora troppo fumosi (come la riforma del mercato del lavoro rinviata a una problematica legge delega), altri negativi come il prelievo sulle cosiddette rendite finanziarie o la minaccia di tagliare le pensioni medie, perché tali sono quelle oltre i 2.500 euro.
Ma, al di là delle dietrologie, emerge chiaramente una sfasatura netta, prima ancora che sulle misure concrete, sull’analisi della situazione. Renzi sembra convinto non che bisogna compiere scelte per superare la crisi, ma che la crisi sia finita e quindi possa cominciare una nuova fase. La svolta che egli ha annunciato con quelle pirotecniche slide, è una politica redistributiva, da attuare subito, prima che sia ripartita l’accumulazione.
È vero, ci sono segnali positivi, come l’aumento della produzione industriale, ma siamo appena all’un per cento, una variazione minima per un apparato industriale che ha visto ridursi il prodotto di circa un quarto e che dovrebbe essere a questo punto con i magazzini vuoti. Non solo. Nel sistema bancario è cominciato un terremoto e presto arriverà la vera valanga. La coraggiosa mossa di Unicredit ha dato il là a una profonda ristrutturazione. Per quanto riguarda le finanze pubbliche, le entrate da imposte indirette (quelle più sensibili alla congiuntura) si sono ridotte nel 2013, segno che non ci sono margini a meno di non tagliare in modo sostanzioso e coraggioso la spesa pubblica corrente. I tre miliardi annunciati da Carlo Cottarelli, anche se in ragione d’anno saranno cinque, non bastano e sono pochi pure i sette promessi da Renzi. Come tutte le altre coperture, del resto, sono appese a congetture, ipotesi e speranze. Per ora quella annunciata è una manovra di spesa in disavanzo.
Il deficit spending lo hanno chiesto per anni i neokeynesiani di sinistra e di destra. Adesso c’è un governo che lo realizza. Ma il fatto è che non si può fare il keynesismo in un paese solo. Tanto più quando si fa parte di un’area economica con un’unica moneta. La Bce lo ha subito ricordato. Fa bene Renzi a volere una svolta rispetto agli anni della terribile austerità, ma prima deve tagliare poi spendere, prima bisogna far ripartire la produzione poi distribuirne i frutti. L’albero degli zecchini d’oro non esisteva nemmeno in Pinocchio.