Nelle carceri italiane il 34,4 per cento circa dei detenuti è di origine straniera. Si tratta di circa 21mila persone che vengono sempre più spesso, strumentalmente, additate come principali responsabili del sovraffollamento. E si fa strada la convinzione che il trasferimento o il rimpatrio nel Paese di origine siano la soluzione. Non a caso la legge 10/2014 che il 21 febbraio ha convertito il decreto 146/2013, il cosiddetto “svuota carceri”, ha aumentato i casi in cui si applica l’espulsione come alternativa in caso di pena, anche residua, non superiore ai due anni.
Ma ci sono ragioni giuridiche, e anche etiche, per cui queste strade non sono percorribili.
Trattati internazionali. In caso sia di espulsione sia di trasferimento da carcere a carcere è necessario il consenso, attraverso trattato, dello Stato che dovrebbe ricevere la persona. La Convenzione di Strasburgo del 1983 “sul trasferimento delle persone condannate” di fatto è stata sottoscritta solo da alcuni Paesi, tra cui Albania, Bulgaria, Ungheria Macedonia, Moldova, Romania, Serbia.
Perché riprendermelo? In Albania recentemente è stata fatta un’amnistia per risolvere il problema, diffuso anche lì, del sovraffollamento. Perché dunque lo stesso Paese dovrebbe accettare trasferimenti di connazionali detenuti in Italia e ritrovarsi le carceri piene? In caso di espulsione, invece, la persona è di fatto libera nel proprio Paese, che «il più delle volte non ha interesse a riprendersi persone che sono un costo economico e un rischio sociale», suggerisce Patrizio Gonnella di Antigone.
Quale Paese? Un problema non da poco è l’identificazione: molti detenuti sono senza documenti, per cui è difficile, se non impossibile, appurare con certezza qual è il Paese di origine e quindi procedere all’espulsione.
Burocrazia. Anche in presenza di accordi bilaterali, spesso si frappongono difficoltà burocratiche che impediscono o ritardano pesantemente le procedure. Un esempio è la convalida della condanna: esistono casi in cui il trasferimento, pur richiesto dall’interessato, non è stato possibile perché nel Paese ricevente non c’era un corrispettivo della condanna italiana (più alta). Ostacoli analoghi interessano l’espulsione: la procedura può essere avviata solo allo scadere dei termini, per cui a 24 mesi dal fine pena. I tempi lunghi della procedura fanno sì che, di fatto, l’espulsione sia possibile solo in sostituzione di una minima parte della pena residua. A quel punto viene meno il vantaggio e il detenuto preferisce arrivare alla conclusione della pena in carcere.
Pena definitiva. Qualsiasi procedura prevede che il detenuto abbia ricevuto la condanna definitiva. E questo dimezza il numero dei candidati al rimpatrio.
Poco risparmio. Un aspetto da considerare è quello economico: si pensa che intervenendo pesantemente sul numero dei detenuti stranieri sia possibile abbattere i costi del sistema penitenziario. «Non è così», sottolinea Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. «Se anche uscissero ventimila stranieri, che sono il 30 per cento della popolazione ristretta, i costi del sistema penitenziario non si ridurrebbero del 30 per cento, perché le spese di gestione, quelle strutturali e per il personale non si possono tagliare in proporzione. Quanto ai costi vivi cosa resta? Il vitto? Costa 3,4 euro al giorno e viene trattenuto in busta paga per i detenuti che lavorano o fatto pagare a fine pena».
Oltre alle ragioni giuridiche e pratiche ce ne sono altre, molte, di tipo etico.
Mancato consenso del detenuto. «Le deportazioni in massa non si possono fare», precisa Favero, sottolineando che l’espulsione in sostituzione del carcere deve essere consensuale. «Vorremmo un trattamento analogo per i nostri connazionali reclusi in Germania? Queste leggi sono un obbrobrio». D’accordo anche Gonnella: «Riteniamo sia fondamentale preservare la possibilità di scelta dell’interessato. Questo non è stato previsto dal decreto svuota carceri».
Progetto migratorio in Italia. L’immigrazione in Italia non nasce ieri. Molte persone vivono qui da anni, hanno avviato un progetto migratorio stabile, si sono ricongiunte con la famiglia o ne hanno creata una. Spesso nel Paese di provenienza non hanno più legami. L’espulsione interromperebbe bruscamente un percorso di vita, separando famiglie, e di integrazione sociale.
“Fastidio sociale” e marginalità. Una crudeltà non giustificata dalla pericolosità delle persone interessate: i dati dimostrano che gli stranieri si rendono colpevoli di reati minori, non legati ad atti violenti, dettati perlopiù dalla condizione di esclusione. «Più che di allarme sociale si può parlare di fastidio sociale», commenta Favero. «Conosciamo moltissimi casi di persone con pene anche lunghe, dovute all’accumulo di tanti piccoli reati, soprattutto piccoli furti oppure vendita di prodotti contraffatti – evidenzia Gonnella -. Un ragazzo del Senegal, ad esempio, aveva accumulato 10 anni per 20 condanne di sei mesi l’una». Favero conferma e riferisce la storia di Jimmy, in passato recluso a Padova, con una condanna di 20 anni per accumulo di piccoli reati come furto di un asciugamano in albergo o in un supermercato.
Vittime o carnefici? Capita spesso che una persona da vittima sia trasformata in colpevole. Un esempio è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: «Nel carcere minorile di Catania c’erano tre ragazzini egiziani accusati di essere scafisti», ricorda Gonnella. «Avevano 16/17 anni ed erano stati accusati perché durante il viaggio avevano dato l’acqua ai migranti». Discorso analogo per il favoreggiamento della prostituzione: «Chi è già vittima spesso si trova a dover subire anche questa accusa».