Si può vivere facendo i musicisti in Italia?

QUANDO LA MUSICA È UN LAVORO

Le luci del festival di Sanremo si sono spente. Le polemiche, così come la noia (tanta), passeranno col tempo. Ciò che resta è quell’impressione di “già sentito” e “già visto”, e la consapevolezza che ci aspettano tempi – musicalmente – duri. Assisteremo inermi alla stessa rotazione musicale in radio, in televisione e, perché no, anche negli altoparlanti delle stazioni, negli spot commerciali, negli ascensori e nelle sale d’attesa; per la gioia di alcuni (i fan ma, soprattutto, i produttori) e la frustrazione di molti. Tra questi anche tutti quei musicisti che, lontani dai riflettori, dalla popolarità e dai cachet milionari, faticano a fare della musica il proprio lavoro, nonostante i molti sacrifici e un’alta professionalità. Sospesi tra incertezza e precarietà, i musicisti oggi, in Italia, non se la passano bene, tra poche tutele e con il miraggio della pensione. Quelli che con Sanremo hanno poco da spartire sono tanti e rappresentano un vero e proprio esercito che lotta ogni giorno per la propria sopravvivenza.

Maurizio ha 28 anni e vive suonando liscio il fine settimana. Diplomato in una scuola d’eccellenza, ora è un professionista. Si esibisce in tutta la Lombardia e si sposta con la sua macchina. Benzina e autostrada a carico suo. Alle sei e mezza di un weekend qualunque ritrova gli altri membri dell’orchestra direttamente alla balera o in discoteca, e comincia a lavorare. Si montano impianto audio, luci, pedane, mixer, spie e strumenti. «Ognuno ha i suoi compiti, io ho quello della corrente e dopo aver scaricato il furgone distribuisco le ciabatte per il palco. Altri si occupano dei cavi, dei microfoni, e così via». Ma non è più come un tempo, quando le orchestre avevano “le quindicine” (quindici giorni nello stesso posto, poi il cambio di locale), gli stipendi erano più alti e le notti più corte. Oggi si suona in modo discontinuo – dalle 7 alle 15 date al mese -, un cachet di 100 euro a serata suonando anche molte ore senza pause. Verso le quattro del mattino, si smonta tutto e si torna a casa, quando va bene a pochi chilometri, altre volte dopo un lungo viaggio. La cosa peggiore? Non suonare nemmeno, ma fare finta. «Oggi è tutta scena. La maggior parte del tempo usiamo il playback. Ai proprietari non interessa se sai suonare o no, e al pubblico importa ballare. A volte è frustrante, ma perlomeno questo lavoro mi dà la possibilità di suonare e studiare il resto della settimana, di avere tempo per me e per la musica». E aggiunge: «Non ho un fisso al mese, riesco a cavarmela perché vivo ancora con mia madre, do lezioni private e insegno musica in un’associazione culturale». Maurizio racconta anche che per guadagnare ha fatto ogni tipo di lavoro, anche le pulizie. «Tornavo la mattina presto con l’orchestra, dormivo due ore, e mi alzavo per lavorare part time in un grande supermercato».

Il doppio lavoro è una necessità per molti, se non per tutti, almeno per i primi anni. Andrea, 27 anni, è polistrumentista e tra un concerto e l’altro trasporta pianoforti per il negozio di suo padre. Con la crisi teatri e comuni non hanno più soldi e di conseguenza anche questa attività si è dimezzata. Vive con suo fratello, anche lui musicista, e anche lui “impiegato” nel negozio. Ha studiato da Tullio De Piscopo e per mantenersi insegna e suona «in qualsiasi posto, con qualsiasi persona, con qualsiasi strumento». Pronto a partire per una tournée in Germania, fa il conto delle spese per tornare quantomeno in pari. Costi di viaggio, benzina, manutenzione e anche l’assicurazione del furgone. Per fortuna la passione non manca. «Sei in mezzo a una strada senza niente in mano, ma allo stesso tempo anche completamente libero proprio perché non possiedi nulla, se non la musica. Non potrei farne a meno. Suoni e vedi città che non avresti altrimenti visto e mi è capitato di mangiare in posti dove non potrei portarci nemmeno la ragazza. E poi c’è l’esibizione, suonare è un bisogno fisico». Della pensione non si preoccupa ma da anni ammette di non fare più snowboard per paura di infortunarsi alle mani. Di tutele non se ne parla, per chi vuole fare della musica un mestiere, parlare di tutele e previdenza sembra folle. «Le ferie? A mio fratello dico sempre che, comunque, non ce le potremmo permettere!».

Di doppi lavori Alessandro, 25 anni, ne ha più di uno: chitarrista, fonico, insegnante ma, soprattutto, imprenditore di se stesso. «Per un musicista il 50% del lavoro è riuscire a essere mediatici: talento e bravura non bastano più. Nell’era dei social network riuscire a vendersi conta almeno quanto le proprie capacità. Ci sarà sempre qualcuno più bravo. L’alto livello tecnico di un musicista deve essere solo il punto di partenza, il resto lo fanno le relazioni. Se non esisti per il pubblico non riuscirai mai a farti un nome». In molti casi essere chitarrista, bassista o cantante non basta più, ma bisogna anche saper insegnare, usare un mixer, registrare, montare foto, video e trattare materiali audio. «Dal punto di vista umano è un disastro: ti svegli alle 6 per mixare progetti di altre band, poi arrivano gli allievi, e nel pomeriggio devi essere al locale per preparare la serata (“fare i suoni”). Entro le 20 devi aver finito e riprendi alle 23, con un gap di 3 ore nel quale non lavori ma nemmeno puoi andartene con gli amici. Mangi quello che c’è e stacchi alle 2 di notte. E magari hai preso solo 50/100 euro». Anche Alessandro è un professionista, è sostenuto da sponsor importanti e scrive già manuali didattici di ritmiche metal per chitarra. Nonostante questo, vive in casa con i suoi e lotta per pagarsi le spese per gli spostamenti e per strumentazioni hardware e software. Dice Alessandro che «il fisso mensile è 350 euro, tutto il resto è un forse». Tutti questi lavori non hanno una cadenza costante: il locale non è aperto 12 mesi l’anno, gli allievi non sono sempre gli stessi e le band hanno pochi soldi per registrare. La difficoltà di avere un fisso e una stabilità è un problema comune.

Per un professionista della musica l’investimento più grande è la sua formazione, in termini di tempo, costi e sacrifici. Alberto è un violinista e già all’età di 14 anni girava l’Italia per studiare e migliorarsi. «Avevo 4 maestri sparsi in quattro regioni diverse. Una volta al mese andavo a Bergamo col violino in spalla da un’insegnante russa, poi a Firenze, a Torino e a Bologna. Avevo come obiettivo quello di diventare un concertista e ho sacrificato tutto per questo. Il conservatorio non mi aveva preparato a sufficienza. Fortunatamente a un concorso un giudice mi disse che avrei dovuto ripartire da zero per modificare i miei difetti, e così ho fatto, con tutto quello che ne ha comportato. Ho studiato due anni in una scuola di Zurigo e viaggiato e suonato per l’Europa, ma alla fine se non fai il grande salto, non hai in mano nessuna garanzia». Un concertista “big” arriva anche a guadagnare 25mila euro per ogni esibizione. Per contro, un giovane nel migliore dei casi guadagna tra i 500 e i 2mila euro suonando però pochissimi concerti l’anno.

Queste sono solo alcune delle storie di tanti concertisti, orchestrali, tournisti, compositori. Ma non solo. Le professioni della musica comprendono anche gli insegnanti, chi si esibisce ai matrimoni, chi gestisce un piano bar. E ancora i tecnici del suono, chi suona musica di altri e chi produce musica originale. C’è (poco) spazio per tutti. Capire quanti sono esattamente è difficile. Per il sindacato dei lavoratori della comunicazione (Slc-Cgil) gli iscritti all’ex Enpals – Ente nazionale previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo – sarebbero tra i 350mila e i 400mila (gli operatori dell’intera industria della cultura sono stimati invece attorno ai 2 milioni). Istituito nel 1947, l’Enpals è stato accorpato all’Inps nel 2012 con la legge n. 214/2011 (cosiddetta salva Italia). Scopo dell’Ente è garantire le medesime prestazioni che l’Inps fornisce alla generalità dei dipendenti subordinati – pensione di vecchiaia, di anzianità – anche ai lavoratori dello spettacolo. Avere autonomia gestionale e organizzativa dovrebbe essere una garanzia della tutela delle specificità della singola categoria volta a dedicare una particolare attenzione ai bisogni e alle esigenze proprie del tipo di vita professionale in questo settore.

Di fatto però, l’Enpals non è mai stato in grado di assicurare tutele omogenee: la disciplina che regola i versamenti contributivi e l’erogazione delle prestazioni prevedeva – come prevede ancora oggi – dei “minimali” molto alti. Perché sia riconosciuto un anno di contribuzione (ne servono almeno 20 per avere la pensione) è necessario che il lavoratore (musicista, ballerino, attore ecc.), oltre a versare il 33% del guadagno lordo, in genere pagato dal committente, abbia effettuato un minimo di 120 giornate di lavoro, ovvero, nel caso dei musicisti, 120 esibizioni dal vivo. Quindi se è giusto che un ballerino possa andare in pensione a 46 anni perché, così come per gli sportivi, il suo lavoro ha caratteristiche profondamente diverse da una mansione “tradizionale”, è anche vero che difficilmente sarà in grado di calcare un palco ogni 3 giorni per vent’anni. Così anche per musicisti e attori. Una vera e propria impresa. È facile intuire come solo una minima percentuale degli iscritti all’Enpals riesca ad arrivare alla pensione.

Nonostante l’entrata in vigore della legge salva Italia, si aspettano ancora i decreti attuativi. Carlo Marino, esponente Slc-Cgil, teme il peggio perché «la riforma Fornero è stata una manovra di urgenza, non di prospettiva. Il governo doveva fare cassa e l’Enpals possedeva un tesoretto di 3 miliardi di euro. Si spera che i decreti attuativi non aggravino una situazione già instabile». Si sente la necessità di ricostruire un welfare ad hoc per il mondo dello spettacolo che tenga conto delle esigenze vere della categoria. «L’avanzo di cassa è di 300 milioni di euro ogni anno. Perché non prendiamo questi soldi e li utilizziamo in forme di sostegno al reddito riconoscendo di fatto tutto quel lavoro che musicisti e persone dello spettacolo fanno ma che non è riconosciuto? Parlo ad esempio dello studio o della composizione artistica. Un musicista non lavora solo quando si esibisce dal vivo! Basterebbe che il committente dichiarasse anche i giorni “di prova” e avremmo già una rivoluzione copernicana». Ma serve anche altro perché «il problema della pensione non è il solo. L’altro grande tema è quello delle tutele. Ferie, malattie, maternità, disoccupazione ecc.»

Già, le tutele. Le associazioni di categoria ci sono (oltre a Cgil, anche Cisl e Uil ma anche associazioni datoriali) ma non sembrano interessare ai musicisti che, il più delle volte, non ne sono nemmeno a conoscenza o non vogliono essere rappresentati. Hanno le loro ragioni. La maggior parte di essi possiede una partita Iva o è pagato (quasi) regolarmente con una ritenuta d’acconto per una prestazione occasionale. Come fare a rappresentare questo tipo di lavoratori è il grande problema della rappresentanza, e non solo nel campo dello spettacolo.

Secondo Luca Garlaschelli, ex presidente Siam – Sindacato italiano artisti della musica, ora dismesso – ma soprattutto jazzista professionista, è difficile rappresentare collettivamente gli interessi dei musicisti perché operano e si esprimono su diversi livelli. «Per raffigurare la situazione attuale con una forma geometrica pensiamo a una piramide. In cima ci sono i super tutelati, gli orchestrali della Scala o al Piccolo per esempio, o l’ambiente lirico di un certo livello, che spesso sono in possesso di un contratto a tempo indeterminato. A metà della piramide troviamo i musicisti con certi tipi di tutele e con contratti a tempo determinato come i tournisti o i concertisti. Ma alla base, che è decisamente più larga rispetto la cima, troviamo solo partite Iva e zero tutele. Non compresi sono poi tutti quelli che operano nel mercato del lavoro nero che, spesso per necessità, nel mondo della musica sono purtroppo una realtà ben radicata».

Per fortuna c’è anche chi prova a essere ottimista. Sandro Mussida, docente al centro professione musica (Cpm) di Milano è fiducioso. «Oggi abbiamo la possibilità di riconquistarci uno spazio, di trovare nuove strade. Penso ad esempio al crowfunding o all’autofinanziamento. Anche grazie a Internet è tornata la voglia, da parte delle persone, di ascoltare nuove cose, di scegliere una propria proposta musicale e scoprire che la radio, così come i talent show, non sono la realtà, ma una piccola parte di essa. Non ho nulla contro di loro, ma la musica non si esaurisce lì, e questo il grande pubblico non lo sa. Così come non sa che è possibile vedere alcuni spettacoli alla Scala a soli dieci euro». Sandro non è il solo a pensare che il problema di fondo sia culturale. È la “battaglia contro il flauto nelle scuole” e della separazione tra investimenti pubblici e privati. Ancora oggi, infatti, lo stato sembra interessarsi quasi esclusivamente al mondo della musica classica – si pensi che fino agli anni Ottanta i conservatori non prevedevano altri “stili” -, lasciando l’intero mondo della musica non scritta (leggera, pop, jazz..) al settore privato e a logiche meramente commerciali. Il quadro che ne emerge è un pubblico poco educato ad ascoltare e capire l’importanza del suono che, da sempre, è fattore di aggregazione. «Bisogna capire che la cultura è un investimento per la società, porta benessere e crea delle possibilità».

Qualcuno che sembra averlo capito c’è. Una speranza arriva dalla Puglia con il progetto (pubblico) Puglia Sounds, il primo in Italia volto allo sviluppo del sistema musicale sul territorio, istituito nel 2010 dalla Regione Puglia, nell’ambito del Programma Operativo Fesr (Fondo europeo sviluppo regionale). Al posto di destinare tutti fondi per le infrastrutture classiche, la Puglia ha deciso di considerare la cultura e il turismo al pari degli altri settori produttivi. Responsabile del progetto è Antonio Princigalli che spiega come «la musica è un lavoro! Non c’è solo chi sale sul palco, ma anche l’ultimo dei facchini, gli organizzatori o chi si occupa del service. E ancora le case di produzione, le “etichette”, la distribuzione».

Princigalli racconta come Puglia Sounds, con un budget di un milione e mezzo di euro all’anno, abbia scelto di puntare su tre obiettivi. In primo luogo sulla musica live, sostenendo lo sviluppo di tutte le attività di spettacoli dal vivo, come i festival estivi, e creando reti. «Prima questi festival si facevano la guerra tra di loro per rubarsi gli artisti o per avere spazio nei cartelloni pubblicitari. Oggi si lavori tutti assieme. Si decide una programmazione musicale condivisa e cosa e come comunicare. Consorziandoci, siamo ora forti anche dal punto di vista giuridico». In secondo luogo Puglia Sounds finanzia, sempre attraverso bandi pubblici internaizonali, produzioni discografiche sostenendo, nell’arco di 3 anni, ben 125 produzioni. «Aiutiamo gli artisti a distribuire in Italia e all’estero, a riviste specializzate e a giornali. Ogni progetto viene poi seguito in tutte le sue fasi fino alla propria conclusione».

In terzo luogo si dà importanza all’export. All’internalizzazione, sostenendo progetti di tour all’estero (250 tour circa in 40 Paesi di ogni continente) e dando la possibilità agli artisti di partecipare a fiere internazionali di settore che hanno solitamente costi molto alti (dai mille euro in su). Certo la realtà pugliese è ancora unica in Italia, Paese nel quale, da sempre, l’istituzione pubblica non ha mai affrontato di petto il problema. «Per migliorare la situazione italiana, lo Stato deve iniziare a parlare con i soggetti rappresentativi del sistema che sanno davvero cosa deve essere fatto. I musicisti stessi. E pensare a soluzioni urgenti come l’istituzione di “music commission regionali” – così come accade per il cinema – raccordate da un tavolo di coordinamento centrale. Ma non solo, così come accade nel resto d’Europa anche l’Italia dovrebbe istituire un “Italian music office” che si occupi dell’internalizzazione della musica. Dal punto di vista strutturale penso poi a una semplificazione delle norme perché è ovvio che se vuoi competere su altri mercati non puoi sottostare a regole degli anni Sessanta, quando esistevano in Italia solo la musica lirica e quella concertistica. Oggi il tour del grande artista, negli altri Paesi europei, deve sottostare a regole di montaggio e sicurezza del tutto diverse dalle nostre. Noi siamo ancora fermi. Mancano anche veri e propri luoghi dove suonare. Un’edilizia della cultura che pensi anche alla musica e non solo al teatro».

Tante sono le testimonianze. Tra passione, problemi, la voglia di vivere di musica e la dura realtà di tutti i giorni su una cosa però tutti concordano. Fare il musicista vuol dire “fare i chilometri”. Ieri come oggi. Essere disposti a suonare ovunque; a salire su una macchina e partire. Che sia per portare il proprio cd a un locale malfamato, o sia per suonare davanti a centinaia di persone. Il mondo dei professionisti della musica, per la maggior parte, è un popolo nomade, solitario e sensibile. Pronto a tutto, anche a lavorare nell’ombra, guardando il festival di Sanremo dal divano di casa. Apprezzando o criticando chi, per merito o per scelte più commerciali, si prende poi tutti gli applausi.

Con il brano “Ti porto a cena con me” sul palco dell’Ariston, anche quest’anno, era presente anche Giusy Ferreri, la cassiera più famosa d’Italia, un tempo conosciuta come Gaetana. Lei è la prova che tutto è possibile. Che sfondare con la musica si può fare. Sì, ma a quale prezzo?

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