Sorpresa: sul lavoro la vera discriminazione è l’età

I dati di Unar

In un momento di crisi, il lavoro non piove certo dal cielo. Se poi, oltre alla crisi, un candidato viene anche discriminato perché è troppo giovane o troppo anziano, o perché è omosessuale, la frittata è fatta. Secondo i dati raccolti dall’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, seppure in diminuzione rispetto al 2012, nel 2013 la percentuale di discriminazioni in un contesto lavorativo rimane comunque alta (16%), al terzo posto dopo mass media (26,2%) e vita pubblica (21,1%). E avviene soprattutto per via dell’età.

«Dalle notizie che arrivano dal nostro contact center», dice Marco Buemi, referente dell’Unar, «il mondo del lavoro è sempre stato un ambito di forte discriminazione». Eppure, rispetto allo scorso anno, c’è stato un dimezzamento delle denunce, dal 35 al 16 per cento sul totale. Il perché lo spiega Buemi: «Il 2012 è stato un anno nero, e questo si può spiegare con l’aumento delle denunce nel mondo pubblico, essendo in vigore ancora regi decreti del 1935 che vietano alle persone straniere la possibilità di partecipare ad alcuni concorsi nell’ambito dei trasporti pubblici o del settore infermieristico. C’è stata una forte propensione a denunciare, che ha portato a raddoppiare il numero delle denunce totali nel mondo del lavoro rispetto al 2011. Ma la diminuzione di quest’anno si può spiegare anche con il lavoro di numerose associazioni e organizzazioni che sul territorio si sono fatte promotrici di concrete azioni positive di integrazione e sensibilizzazione nel mondo del lavoro». In ogni caso, «si tratta di una questione di pesi e di misure. Diminuisce la percentuale di denunce sul lavoro, aumenta quella sui mass media». Il numero più alto di denunce, oltre il 65%, arriva dal Nord Italia. Questo perché, spiega Buemi, «il mondo del lavoro dell’Italia settentrionale, maggiormente inquadrato nella regolarità, risulta più sensibile. Al Sud invece, in un mercato del lavoro anche più colpito dalla crisi, esistono maggiori irregolarità e le persone denunciano molto meno».

La discriminazione avviene soprattutto al momento dell’accesso al lavoro (71,9% dei casi), ma si ripercuote pure sulle condizioni lavorative, le condizioni di licenziamento e il rapporto con i colleghi. La maggior parte delle denunce per discriminazione avviene per motivi legati all’età (47,8%) e alla provenienza (37,7%). Essere straniero non aiuta, insomma. Ma neanche se sei donna o disabile.

«Per molti disabili dopo l’università non c’è una normale entrata nel mondo del lavoro», racconta Vittorio Schiavi, responsabile per la Fondazione Sodalitas di Diversitalavoro, il progetto che dal 2007 cerca di offrire pari opportunità di lavoro a persone affette da disabilità, straniere e transgender. «È una scoperta continua di talenti che neanche immaginavamo. Nel 2013 siamo riusciti a inserire nel mondo lavorativo il 6% delle persone che hanno partecipato. Non sono risultati grandi? No, ma almeno sono risultati».

Soprattutto se, come spiega Claudio Soldà, segretario generale della Fondazione Adecco per le pari opportunità, «dal 2008, con l’inizio della crisi, le persone con disabilità corrono sei volte in più il rischio di restare disoccupati rispetto a una persone senza disabilità. Per questo noi diciamo alle aziende: “Discriminate. Ma discriminate sulla base delle competenze”».

Anche perché, nonostante le aziende siano obbligate per legge ad assumere le persone appartenenti alle cosiddette “categorie protette”, «quando un disabile si iscrive alle liste speciali degli uffici di collocamento vengono offerti posti di lavoro che spesso non corrispondono con i loro corsi di studio», aggiunge Paolo Valerio, direttore del centro SinAPSI dell’Università Federico II di Napoli, dove si terrà uno dei quattro Career Forum di Diversitalavoro. «A questo vanno aggiunte le difficoltà di spostamento nel raggiungimento del posto di lavoro». E i dati Istat sull’inserimento lavorativo lo dicono chiaramente: nella fascia d’età 25-44 il 32% dei disabili laureati ha un lavoro, rispetto al 70% del resto della popolazione. Ma, ribadisce, «noi diciamo alle famiglie dei ragazzi disabili non scegliere un corso di studio facilitato per i propri figli, ma uno che possa permettergli di seguire le proprie aspirazioni, come tutti gli altri». 

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