Di solito i cantanti si associano alle melodie, ai ritornelli, agli accordi che ti trovi a fischiettare sovrappensiero e che si trasformano nel sottofondo dei rumori della vita quotidiana. Noi, Tracy Chapman, la associamo al silenzio. Il silenzio che, il 10 dicembre 2005, regnava al Teatro Smeraldo mentre cantava Behind The Wall, una delle sue più belle canzoni di sempre. Un silenzio riverente che accoglieva parole pesanti come macigni e permetteva di ascoltare una voce potentissima, arrabbiata e dolce, allo stesso tempo. Un silenzio imposto anche dalle prime file, quando le ultime si azzardavano a cantare, seguendo l’artista. Spesso ricolleghiamo i cantanti e le loro canzoni ai sentimenti che ci trasmettono: a volte è la gioia, la spensieratezza, altre la tristezza o la nostalgia. Tracy Chapman, noi, la accostiamo al “rispetto”.
Il 30 marzo compie 50 anni un’icona della musica folk americana. Una delle voce più oneste, sincere e credibili del panorama musicale degli ultimi decenni. Stiamo parlando delle qualità tra le più importanti per definire un cantautore e che hanno reso Tracy Chapman autorevole, per quello che diceva e per come lo diceva, come se ogni parola che uscisse dalla sua bocca fosse vera. E forse era davvero così.
La vita per una ragazza di colore nell’America degli anni ’70 non è facile. Nasce e vive a Cleveland, nell’Ohio, e fin da bambina impara a suonare ukulele e chitarra, strumento dal quale non si separerà più. Dopo essersi diplomata, si avvicina alla cultura africana laureandosi in antropologia alla Tufts University (Boston) suonando la sera nei pub della zona per guadagnare qualche soldo ma soprattutto per parlare alla gente, lei che si sta trasformando piano piano in un attivista per le cause sociali.
Sono gli anni ’80, gli anni di Madonna, delle paillettes e dei capelli cotonati: Tracy, cantautrice in erba, è una voce fuori dal coro. Ad accorgersene è primo fra tutti un suo compagno di università che decide di presentarla al padre, Charles Koppelman, gestore della SBK Publishing – etichetta di proprietà di Universal Music Group – che aiuta Tracy Chapman a firmare per la Elektra Records (la stessa dei Doors), unica etichetta con la quale lavorerà la cantautrice.
Pochi strumenti – una chitarra, un basso, una batteria, un hammond ma, soprattutto, una voce calda e profonda riconoscibile tra mille altre – per accompagnare un’intera carriera fatta di molti alti e pochi bassi. Il 1988 è l’anno del suo album, omonimo, di debutto. È il disco con cui ancora oggi identifichiamo la cantante. 36 minuti di musica folk/blues scarna, essenziale, in cui però si trova tutto quello che c’è da sapere: su di lei, sulla vita, forse anche su noi stessi. Semplici accordi per raccontare e dare voce ai più deboli e alla parte più intima di ciascuno di noi. Da una parte la denuncia sociale: disoccupazione e povertà (Talkin’ ‘bout a revolution, Why?), disagio familiare (Fast Car – al 167 posto nella classifica Rolling Stones), violenza sulle donne (Behind The Wall); dall’altra il romanticismo (Baby can I hold you, For my lover) e la speranza di un futuro migliore (She’s got her ticket). Conosciuto dal grande pubblico a seguito dell’apparizione della cantante al concerto per i settant’anni di Nelson Mandela, l’album fu subito un successo con oltre 10 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Questo album le farà guadagnare ben tre Grammy Awards (New Artist, Best Female Pop Vocal Performance, Best Contemporary Folk Recording) e tredici nomination a premi internazionali.
“Poor people gonna rise up
And get their share
Poor people gonna rise up
And take what’s theirs” (Talkin’ ‘bout a revolution)
L’anno successivo, il 1989, è l’anno della riconferma, nonostante “Crossroads” non abbia raggiunto i volumi di vendita del primo album. Stesso stile, stessa forza e stessi temi: dalla rabbia di “Subcity” alla delicatezza di “All that you have is your soul” e “Be Carefull of my Heart”.
Da qui in poi, nessun altro album raggiungerà i livelli dei primi due. Complice anche il carattere della cantante, schivo e riservato, e il suo spirito anticommerciale, Tracy Chapman non manterrà a lungo la fama ed il successo che avrebbe meritato. Gli album successivi saranno ricordati solo per qualche (splendida) canzone: Bang, bang, bang (Matters of the heart – 1992), Smoke and Ashes, The Promise (New Beginning – 1995), Telling Stories, Wedding Song, Speak the world (Telling Stories – 2000), Say Hallelujah (Let it rain – 2002), America (Where you live – 2005), Sing for you (Our bright future – 2008). Ma soprattutto la “blueseggiante” Give me one reason, con la quale vince un altro grammy come migliore best rock song e si inserisce al terzo posto nella classifica Billboards delle 100 migliori canzoni dell’anno.
Nel corso della sua carriera si contano collaborazioni con i più grandi di sempre: da Eric Clapton a BB King, da Flea dei RHCP finanche a Pavarotti. Tanti anche i “concertissimi”, quelli dove ogni cantante “impegnato” spera di arrivare. Tra questi il Tour Human Rights di Amnesty International e il già citato Nelson Mandela Freedomfest, oltre che il One Love Bob Marley All Star Tribute e il Pavarotti and Friends for Cambodia and Tibet.
Sono passati ventisei anni dal primo album, la cantante invecchia e compie cinquant’anni e il teatro Smeraldo, chiuso dal 2011, si trasforma, proprio in questi giorni, in un locale “Eataly”. Ma, per come la vediamo noi, le parole di Tracy Chapman, tutt’oggi femminista convinta e attivista contro le ingiustizie, restano più che mai attuali e vere. Vere, come lei.
La nostra TOP TEN
1. Talkin’ ‘bout a revolution
2. Fast car
3. Behind the wall
4. Give me one reason
5. For my lover
6. Subcity
7. Say Hallelujah
8. Wedding song
9. Baby can i hold you
10. Bang Bang Bang