L’Italia viola i diritti delle donne. Dopo un anno e mezzo, il Consiglio d’Europa ha accolto il ricorso, presentato nell’agosto 2012 dall’International Planned Parenthood Federation Network, dando ragione all’organizzazione non governativa: l’Italia non rispetta la legge 194, secondo la quale ogni struttura ospedaliera deve garantire la possibilità di effettuare un’interruzione di gravidanza.
Il diritto all’aborto, in Italia, non è una conquista degli ultimi tempi. A differenza di altri Paesi europei come la Spagna, dove ora si chiede di limitarlo ai casi di stupro e di grave rischio per la salute della donna, non è neanche in pericolo dal punto di vista legislativo. Risale al 1978, a quando il parlamento approva, appunto, la legge 194. Da questo momento, le donne possono scegliere di interrompere la gravidanza, chirurgicamente o con l’assunzione della pillola abortiva, la RU486, entro tre mesi dal concepimento. In caso di pericolo per la salute fisica o psichica della madre, o di malformazione del feto, questo termine viene prorogato. La 194, però, riconosce anche il diritto dei medici all’obiezione di coscienza. Ogni ginecologo può rifiutarsi di praticare l’aborto in qualsiasi momento, tranne nei casi in cui vi sia pericolo per la vita della donna.
Secondo il ministero della Salute, il 69,3 per cento dei ginecologi italiani è obiettore. Le percentuali, però, cambiano notevolmente se dal dato nazionale si passa a quello regionale: 85 per cento per Basilicata e Sicilia, 81 per cento per il Lazio. Dato, questo, che la Laiga, Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194, contesta: «A noi risulta che gli obiettori laziali siano oltre il 91 per cento», spiega la presidente Silvana Agatone. «In tutta la regione, infatti, l’aborto viene somministrato solo a Roma e Frosinone, cioè due province su cinque. Le donne che, per scelta o per necessità, devono interrompere la gravidanza, sono quindi costrette a spostarsi di ospedale in ospedale alla ricerca di un medico e una struttura adatta». Fatto gravissimo, secondo i sostenitori della 194, perché, in questa peregrinazione le donne rischiano di superare il limite di 90 giorni imposto dalla legge.
Dell’alto tasso di obiezione, e della difficoltà di garantire l’assistenza necessaria ne sa qualcosa Laura Fiore, autrice del libro Abortire tra gli obiettori (Tempesta editore). Era il 2008: alla 21esima settimana di gravidanza, Laura scopre che la sua bimba è affetta dalla sindrome di Down. Decide di abortire al Secondo Policlinico di Napoli dove, tre giorni a settimana, ci sono medici non obiettori. «Avevo passato i tre mesi», spiega con la voce tremante, «e l’aborto doveva essere ormai un’induzione al parto. Una pratica molto lunga, che continuava anche quando il turno dei medici che mi seguivano era finito. Erano rimasti solo obiettori e sono stata abbandonata a me stessa. Solamente qualche specializzando veniva, ogni tanto, a controllarmi». I medici infatti le dicono che non l’avrebbero aiutata ad espellere il feto. Laura viene spostata dal lettino da travaglio a quello da parto, e poi ancora a quello da travaglio. Nessuno le spiega niente, non riesce a parlare con la sua famiglia. «Ho partorito da sola, sul quel lettino, e mi hanno lasciata lì. Pensavo che la bimba fosse nata morta, invece l’ho vista muoversi. Nessuno voleva tagliare il cordone ombelicale, nessuno voleva toccarla. L’hanno fatto solo quando ho iniziato a urlare. Vederla così è stato un trauma, un maltrattamento psicologico, oltre che omissione di soccorso». La figlia di Laura viene sottoposta a rianimazione forzata e sopravvive quattro giorni. «Ci sono voluti tre anni di psicanalisi e quattro di psicofarmaci per superare quel momento».
Laura è una delle pochissime donne disposte a raccontare la propria esperienza, la maggior parte preferisce rimanere nell’anonimato, e tenersi dentro la propria storia. «Per molte donne è difficile denunciare», conferma Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni. «Dopo un trauma del genere, non c’è la voglia di parlare. Bisogna aspettare che al dolore si affianchi la rabbia». L’Associazione Luca Coscioni da anni sostiene le donne che vogliono ricorrere all’aborto. «In genere si rivolgono a noi per avere indicazioni sulle strutture dove è possibile portare avanti un’interruzione di gravidanza, visto che non esiste un registro ufficiale dei medici non obiettori. E poi cerchiamo di aiutare quelle donne che si sono viste rifiutare, da farmacisti o medici, la pillola del giorno dopo, e di fornire aiuto legale in caso di disservizi». Sempre nel rispetto dell’anonimato, sia chiaro. Il problema è che, se le donne non sono disposte a denunciare, cadono tutte le azioni legali. Per questo motivo, infatti, è stato archiviato l’esposto, presentato dall’Associazione Coscioni contro la Regione Lazio, per l’eccessivo numero di medici obiettori. Senza l’esposizione in prima persona della parte lesa, infatti, non è possibile fare nulla. «Ho paura che sarà ancora più difficile ora», continua Filomena Gallo. «Visto quello che sta succedendo a Valentina, la donna che ha abortito in un bagno dell’ospedale romano Pertini senza assistenza, è improbabile che altre donne trovino la forza di esporsi in prima persona».
Secondo la Società italiana di ginecologia, però, quello lanciato dalle varie associazioni per l’obiezione di coscienza è solo un finto allarme. «È un diritto dei medici rifiutarsi di praticare l’aborto», spiega il presidente Paolo Scollo. «La donna ha 11 settimane per cercare un ginecologo non abortista, e ha tutto il tempo per recarsi in una nuova struttura, senza doversi appellare all’emergenza dell’intervento. Forse più che di emergenza, dovremmo parlare di urgenza». Le strade per ovviare all’obiezione dei medici, continua il dottor Scollo, esistono. «Basta assumere medici a contratto nelle strutture dove i ginecologi effettivi siano tutti obiettori. Nel mio ospedale, il Cannizzaro di Catania, c’è una giovane dottoressa che viene un giorno a settimana proprio per occuparsi delle interruzioni volontarie di gravidanza. Se questo non succede ovunque, non è per una mancanza dei medici, ma delle Regioni». Il problema, però, è che questo sistema costa. E molto. Nella sola Regione Lombardia, lo scorso anno sono stati spesi 305mila euro per assumere medici a contratto in sostituzione dei ginecologi obiettori.
Le accuse rivolte dalle associazioni nei confronti dei medici che si rifiutano di praticare l’aborto, però, vanno oltre. «Ci sono stati casi in cui alcuni medici si sono rifiutati di intervenire non solo per l’aborto vero e proprio», racconta ancora Silvana Agatone della Laiga, «ma anche nell’assistenza precedente e successiva all’intervento. E questo va contro la legge». Nel 2012, infatti, la Corte di Cassazione ha condannato una ginecologa di Pordenone a un anno di reclusione e all’interdizione dall’esercizio della professione medica. Il motivo: durante il turno di guardia, si era rifiutata di visitare una paziente che, in seguito ad un’interruzione volontaria di gravidanza, era a rischio emorragia. Questo nonostante le pressioni sia del primario sia del direttore sanitario. Secondo la Cassazione, infatti, «il diritto dell’obiettore affievolisce, fino a scomparire, di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute».
Alcune inchieste giornalistiche hanno messo in luce un ritorno, negli ultimi tempi, degli aborti clandestini. La causa di questa ricomparsa delle pratiche “casalinghe” sarebbe da collegarsi proprio all’obiezione di coscienza dei medici e alla difficoltà, quindi, di trovare strutture adatte all’intervento. Paolo Scollo, però, è contrario a queste considerazioni: «Come si può parlare di un aumento degli aborti clandestini? Numeri certi non esistono, non ci sono dati forniti dalle questure, quindi di fatto non si può dire che ci sia stato un ritorno alla clandestinità». Eppure, precisa Silvana Agatone, «se le donne non riescono a interrompere la gravidanza in modo lecito, devono ricorrere a metodi alternativi». Fatto confermato anche da Laura Fiore. «Mi è capitato di parlare con una ragazza che, non potendo fare altrimenti, è stata costretta all’aborto clandestino». Le ultime stime sulla clandestinità risalgono al 2008: allora la Sigo calcolava, per l’Italia, circa 15mila aborti clandestini, senza contare le donne straniere. D’altra parte, la pillola abortiva, la RU486, può essere facilmente trovata in Rete. Un “aborto fai da te” che, senza controllo medico, può essere letale.
Nonostante la pillola abortiva RU486 sia stata introdotta in Italia, tra mille polemiche, nel 2009, se ne fa uso in appena il 7 per cento del totale degli aborti. Sono, infatti, ancora poche le regioni che vi fanno ricorso. Tra queste, per esempio, c’è la Toscana, prima regione ad aver permesso, all’inizio di marzo, la distribuzione del medicinale anche nei poliambulatori. In realtà la pillola potrebbe essere somministrata in tutti gli ospedali ma, per i costi che comporta, è ancora poco diffusa. «Una volta presa la RU486», spiega Agatone, «la donna deve rimanere tre giorni in ospedale senza che possa fare nulla. Quale ospedale può tenere occupato un prezioso posto letto senza motivo?».
A complicare la questione c’è poi la difficile situazione dei consultori familiari. I tagli ai fondi destinati ai presidi sanitari, infatti, contribuiscono a far crollare a picco la prevenzione e l’informazione anticoncezionale, che potrebbero ridurre in modo drastico il numero di ricorsi all’aborto. Secondo la Sigo, infatti, l’Italia è maglia nera europea nell’uso dei contraccettivi ormonali. Solamente il 16 per cento delle italiane vi farebbe ricorso, al pari delle donne irachene. Non solo: i pochi medici rimasti nei consultori limitano anche le indicazioni in caso di gravidanze non desiderate. Una questione di coscienza, sicuramente, ma anche di carriera. Basti pensare che la Laiga fornisce assistenza legale ai medici abortisti, spesso attaccati dalle associazioni in difesa della vita. «È un lavoro sporco», conclude Silvana Agatone, «e capita che di esser messi sotto inchiesta. Noi ginecologi non obiettori veniamo considerati delinquenti che commettono omicidi, mentre stiamo solo facendo il nostro lavoro».