Ennio Flaiano è stato uno degli interpreti più lucidi, caustici e arguti dell’Italia del dopoguerra. Scrittore, critico, giornalista, sceneggiatore: vinse un premio Strega — il primo, quindi il migliore — lavorò con alcuni dei più grandi registi dei suoi tempi — Federico Fellini, Pietro Germi, Elio Petri, Dino Risi, Mario Monicelli, la crème, insomma — fu uno di quegli intellettuali capaci di osservare e raccontare un paese nel momento in cu raccontarlo era forse più difficile: nel pieno del boom economico, quando lasciarsi abbagliare dai luccichii delle perline colorate era facile.
Flaiano lo seppe fare con ironia, senso del grottesco, ma anche con malinconica disillusione. È per questo che un po’ ci manca, come ci manca un Bianciardi, per esempio, perché Flaiano, come Bianciardi, è ancora pazzescamente attuale e ha un sacco di cose da dirci. Perché negli ultimi trent’anni ci siamo scordati da qualche parte l’acume e l’ironia, e ora, sprovvisti di queste armi fondamentali per evitare il delirio, nel delirio ci siamo finiti a piè pari.
C’è bisogno di dire che questa conversazione non è mai avvenuta? Voglio credere di no. Ma forse c’è bisogno di sottolineare che questo non è un buon motivo per considerarla come inventata. Tutt’altro, perché, come nelle altre interviste impossibili, quello che leggerete, a parte le domande e qualche virgola, è tutta farina del sacco dell’intervistato. Se non ci credete rileggetevi il Diario degli errori (Adelphi), e contate i déjù lu.
Ennio Flaiano come definirebbe l’Italia?
Un paese di porci e di mascalzoni. Il paese delle mistificazioni alimentari, della fede utilitaristica (l’attesa del miracolo a tutti i livelli) della mancanza di senso civico (le città distrutte, la speculazione edilizia portata al limite) della protesta teppistica, un paese di ladri e di bagnini (che aspettano l’estate) un paese che vive per le lotterie e il giuoco del calcio, per le canzoni e le ferie pagate. Un paese che conserva i suoi escrementi.
Ma come ci siamo arrivati?
Beh, interessi economici molto forti possono modificare non soltanto il gusto, ma la biologia di un popolo che cade in questa impasse. E comunque siamo rimasti tagliati fuori nel Sei e Settecento, quando altrove si stampava Voltaire e d’Alembert e da noi non si stampava che l’Arcadia.
E l’avvento della modernità e del benessere, che effetti ha avuto?
La civiltà del benessere porta con sé l’infelicità, poiché propone all’uomo i simboli del suo stato, da raggiungere, e riduce ogni conquista in termini materiali, quindi deperibili. Per continuare su questo tapis roulant l’uomo deve consumare; e per consumare di più, lavorare di più. E aggiungere sempre nuove mete a quelle iniziali. Dev’essere proprietario, deve credere che l’amore è un’esperienza, e rinnovare quest’esperienza continuamente.
Tutto questo si paga con la perdita del senso umano. Aumentano non solo i delitti, ma la disposizione a sfruttarli, a imporseli come unico contatto con la società. L’uomo vive nella paura di perdere quello che ha.
E come ne usciamo?
Dobbiamo agire come Bartleby lo scrivano. Preferire sempre di no. Rifiutarsi, ma senza specificare la ragione del tuo rifiuto, perché anche questa verrebbe distorta, annessa, utilizzata. Rispondere: No. Non cedere alle lusinghe della televisione. Non farti crescere i capelli, perché questo segno ti classifica e la tua azione può essere neutralizzata in base a questo segno. Non cantare, perché le tue canzoni piacciono e vengono annesse. Non preferire l’amore alla guerra, perché anche l’amore è un invito alla lotta. Non preferire niente. Non adunarti con quelli che la pensano come te, migliaia di no isolati sono più efficaci di milioni di no in gruppo.
Perché proprio il rifiuto e non la critica?
Perché tutto viene utilizzato contro di te, in una società che è chiaramente contro la libertà dell’individuo e favorisce però il malgoverno, la malavita, la mafia, la camorra, la partitocrazia, che ostacola la ricerca scientifica, la cultura, una sana vita universitaria, dominata dalla Burocrazia, dalla polizia, dalla ricerca della menzogna, dalla tribù, dagli stregoni della tribù, dagli arruffoni, dai meridionali scalatori, dai settentrionali discesisti, dai centrali centripeti, dalla Chiesa, dai servi, dai miserabili, dagli avidi di potere a qualsiasi livello, dai convertiti, dagli invertiti, dai reduci, dai mutilati, dagli elettrici, dai gasisti, dagli studenti bocciati, dai pornografi, poligrafi, truffatori, mistificatori, autori ed editori.
Ok, ma da dove cominciamo?
Alle urne metti la tua scheda bianca sulla quale avrai scritto: No. Sarà il modo segreto di contarci. Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì. I quali si chiederanno che cosa non viene apprezzato nel loro ottimismo.
Passiamo a cose più amene. C’è appena stato il festival di Sanremo. L’ha visto? Che ne pensa?
Ero a cena a casa di amici e non ho potuto sottrarmi. Questi amici intendevano vedere la trasmissione per ragioni di studio, essendo psicologhi e interessati ai fenomeni della cultura di massa. Alla fine mi sono accorto che a loro quella roba piaceva. Il fatto che a cantare fossero dei giovani serviva a garantirli che la loro approvazione rientrava nell’aspetto giovanile del fenomeno. La verità è che a me lo spettacolo, non so se più ridicolo o penoso, di quella gente che urla canzoni molto stupide e quasi tutte uguali, lo spettacolo mi è parso da vecchi.
Se questa è la giovinezza, tenetevela. Non ho mai visto niente di più anchilosato, rabberciato, futile, vanitoso lercio e interessato. Nessuna idea, nelle parole e nei motivi. Nessuna idea nelle interpretazioni.
Qual è il problema dei giovani d’oggi, secondo lei?
I giovani sono tristi, cercano una libertà che nessuno gli nega, ma che non esiste. Sono tristi perché sentono che il tempo lavora contro la loro indignazione. Si può essere liberi rinunciando a tutto, quindi alla stessa libertà. Ma volere la libertà per cambiare un sistema, significa augurarsi un altro sistema che implicherebbe alter schiavitù.
E del cinema d’oggi, che ne pensa?
Beh, diciamo che si è un po’ fermato.
Perché?
Per varie ragioni. Una certa avidità di guadagno da parte di chi li fa non è da escludersi. Ma vediamo la ragione più importante. Si tende a ripetere il successo precedente. Cioè si pensa che il pubblico sia uno scimmione che voglia sempre le stesse noccioline.
E gli effetti quali sono?
Che non si va più al cinema, ma a vedere il film, ogni volta. La crisi dunque è questa, nello spettatore.
Se un sociologo superficiale volesse stabilire la composizione del pubblico dei cinema in base ai film che hanno più successo dovrebbe arrivare alla conclusione che il pubblico è fatto per una metà di maniaci o inibiti sessuali, sadici e assassini prezzolati o dilettanti; e per l’altra metà di truffatori e ladri. Naturalmente sappiamo che non è così, e che il pubblico va a chiedere allo schermo una vita di scorta, di ricambio che nella realtà rifiuterebbe. Questa vita di ricambio è la vecchia, cara evasione.
Ma è un problema di idee?
Ah, le idee. Si sente parlare di mancanza di idee. Ma le idee sono tutte lì. Bisogna saperle vedere e avere il coraggio di realizzarle. Ci sono registi che lo fanno, produttori che hanno questo coraggio, altri no. La mia esperienza mi insegna che la maggior parte dei produttori temono le idee nuove o sono legati da interessi troppo forti e mettono le idee nuove in otri vecchi, ossia i divi, i registi che danno affidamento di successo, eccetera.
Cos’è cambiato il mondo con i social network?
Banalmente che un’isola deserta non è più deserta: è soltanto periferia. Non si evade più. L’ingranaggio è troppo potente e ubiquo. Siamo maturi per una globale ora del dilettante: ognuno dica la sua, ma in fretta.
La globalizzazione delle comunicazioni non ha allargato le prospettive?
No, non è vero che la facilità delle comunicazioni accresce la capacità di conoscere, o affini la cultura del viaggiatore. Pensi al viaggio: la facilità di trasportarsi da un luogo all’altro ottunde il valore della sorpresa e ci offre come acquisite le conquiste che un tempo si dovevano lungamente desiderare. Il pellegrinaggio non è tanto nel raggiungere la meta, ma nel raggiungerla con quel conveniente lasso di tempo che permetta di agognarla, e di farne veramente lo scopo spirituale del viaggio.
Un’ultima cosa, visto che in Italia pare che tutti vogliano scrivere, qual è il suo consiglio?
Quando scrivi un articolo, un racconto, un pezzo qualsiasi lascia correre almeno due giorni prima di spedirlo. Ricordati che niente ti avvilisce di più e ti toglie il gusto di scrivere come veder stampata una cosa inesatta, che con un minimo di pazienza, senza fretta, avresti potuto rendere migliore o almeno leggibile. Ricordati che un racconto cattivo annulla dieci racconti buoni e che la memoria del lettore malizioso torna più volentieri sulle prove mediocri o cattive, che sulle buone.