Le luci della centrale elettrica è il nome del progetto musicale dietro il quale si cela il cantautore ferrarese Vasco Brondi. L’hanno definito ragazzo prodigio, poeta e cantastorie della generazione cresciuta a cavallo tra gli anni zero e degli anni dieci. Il 4 Marzo è uscito il suo terzo album, Costellazioni, abbiamo chiesto a lui di raccontarcelo, di guardarsi indietro e di parlarci di queste luci artificiali e di come si sono trasformate nella Via Lattea.
Ti hanno definito l’interprete, il cantautore e il poeta della generazione degli anni Zero. Il tuo disco d’esordio, Canzoni da spiaggia deturpata, è quasi un simbolo di quegli anni. Come ci si sente a far uscire un nuovo disco con questa eredità?
In realtà mi sono rapportato in due modi diversi per questo disco. Due modalità che sono un po’ all’opposto, come se fosse il primo disco e insieme l’ultimo. Come se non avessi fatto mai niente e non dovessi fare nient’altro dopo. Quindi da una parte ho cercato di renderla un’esperienza totale di amore e di guerra, ma anche di vita o di morte. Ho provato a metterci dentro tutto quello che per me era ed è fondamentale, cercando di stare anche bene durante la lavorazione. Dall’altra parte,, quando ho cominciato a lavorare ai pezzi con Fede (Dragogna), mi piaceva anche vedere che stavamo spingendo ogni canzone in una direzione molto precisa, vedere che mi veniva naturale rendere queste direzioni molto eccessive, estremizzare le cose, le atmosfere, amplificare anche se c’erano dei difetti, sottolinearli.
Ogni tanto mi chiedevo anche con Fede se stessimo esagerando con questo pezzo che è andato troppo in una direzione, piuttosto che in un’altra. Ma alla fine mi ha fatto bene pensare che per me in questo disco sia andata così, poi ne potrò fare centinaia di altri in cui adotterò altre soluzioni. Per me in questo momento era fondamentale far uscire la canzone in quel modo. E pensavo “Ok questa va così e voglio che sia così al 100%, come sono io oggi, adesso, senza pensare al prima e al dopo.
Ogni disco debba avere dentro una parte di vita o di morte, proprio come se fosse sia il primo che l’ultimo. Bisogna avere il coraggio di dirsi che se va tutto in questa direzione è perché questo disco è importante per se stesso. Non è giusto fargli pesare addosso quello che uno ha fatto prima o quello che uno ha intenzione di fare dopo. È per questo che ho sempre stimato uno come Neil Young, che con una discografia di decine e decine di dischi a un certo punto ha fatto un album come Trans, un disco elettronico che per lui era importante fare, uno degli ultimi. L’ha fatto da solo con la chitarra elettrica, immerso nei riverberi. Lui è sempre ben piantato nel presente quando fa un disco, non tiene conto di quello che farà o ha fatto prima. Questo rende tutto più libero, ti mette nella condizione di non avere niente da perdere.
Il tuo nuovo album si intitola Costellazioni, la provincia si mischia con l’universo, «la via Lattea con la via Emilia». Dalle luci finte di una centrale elettrica a quelle dell’universo?
Sì, infatti i due concetti sono collegati. Mi piaceva l’idea che Le luci della centrale elettrica si confondessero con quelle delle stelle, il fatto che le luci di una fabbrica potessero sembrare delle costellazioni. Mi serviva per riprendere il nome, Le luci della centrale elettrica, e dargli un po’ l’idea che avevo anche all’inizio. Quando è diventato il nome di questo progetto musicale, andavamo a vederle di sera come se fosse un fuoco d’artificio, non per vedere il degrado della periferia. Non pensavamo assolutamente che fosse qualcosa di negativo, un posto che inquina. Semplicemente ci sembrava l’unico spettacolo serale di Ferrara e quindi rendevamo bello un posto che in teoria non dovrebbe esserlo senza neanche rendercene conto.
Ho cercato di fare la stessa cosa con questo titolo, volevo prima di tutto che splendesse. Mi è venuto in mente alla fine del disco, quando già era chiaro di cosa avrebbe parlato e c’era questa atmosfera provinciale e spaziale. Però mi interessava che fosse davvero un titolo luminoso, qualcosa che nel buio di questi tempi, fosse l’opposto, fosse invece un brillare, un segno di luce e così anche le canzoni volevo che fossero delle storie luminose, tenute insieme nel disco da un filo conduttore anche insensato, come succede nelle stelle e nelle costellazioni, un filo che però, in fondo, disegna qualcosa.
Questo succede anche nelle canzoni, Le ragazze stanno bene è una canzone delicata e dolce, parla di una crisi ma lascia una speranza, lascia la sensazione che si ha alla fine di una tempesta. La stessa cosa si avverte in Destini generali «è solo un momento di crisi di passaggio che io e il mondo stiamo superando». Stiamo uscendo da questi anni bui?
Sì, sì. In questo senso la musica va sempre da un’altra parte rispetto ad una specie di mentalità che per un po’ può prendere il sopravvento. In questo caso mi piaceva potesse essere in qualche modo un anticorpo rispetto ad un’idea di melodramma e lamentela generale che si sente nell’aria. Quest’idea di assenza di futuro. I ragazzini ti dicono che non hanno futuro quando invece chi non ha futuro è chi lo ha detto per dieci anni e che viene probabilmente da un mondo che è finito.
Può essere anche un lieto fine in realtà, la fine di un’epoca o di un periodo e quindi l’inizio di qualcos’altro. Questo è un disco che ha un lieto fine e soprattutto è un inizio di qualcos’altro. I CCCP dicevano «la situazione è eccellente», lo dicevano all’inizio degli anni ’80, che era considerato un momento di crisi, soprattutto per chi come loro veniva dalla controcultura, dal ‘77 e iniziavano invece gli anni ’80, loro dicevano: «la situazione è eccellente, questi sono i nostri tempi, i nostri posti».
Questo disco è un disco sui nostri tempi e sui nostri posti e loro dicevano «non a Berlino ma a Carpi» e questa è una cosa che volevo mettere anche in questo disco che è fatto di tantissimi posti provinciali però anche pieno di altre galassie e altri continenti, c’è un orizzonte molto ampio.
Infatti la cartina geografica di quest’ album non include più solo la provincia, c’è Milano, Roma, Londra, Berlino, la Turchia, Cracovia…
Da una parte ci sono dentro i miei viaggi: per la prima volta da quando ho iniziato a suonare sono riuscito contemporaneamente a fermarmi e a viaggiare moltissimo, in qualche modo devono essere entrati anche questi posti. Ma c’è anche l’idea che noi che siamo nati da questa parte del pianeta abbiamo la possibilità come mai prima di raggiungere tutti questi posti, possiamo avere la possibilità di arrivare sostanzialmente ovunque e questo ci da una grande ricchezza, e insieme una grande smania di doverli raggiungere tutti e di non stare mai centrati in un posto.
A proposito di ricerca di un centro La terra, L’Emilia e la luna è il titolo del primo pezzo ma riassume anche la ricerca di un «centro di gravità permanente» che percorre tutto il disco, citando Battiato.
Sì, sicuramente ci sono vari temi e fra questi c’è anche l’idea del localizzarsi, di avere un posto dove sei in pace e quindi questa ricerca che rischia di dipendere solo dalla geografia in realtà la supera, perché non c’entra solo quella, c’entri tu e tutte le tue cose. Sì, è pieno di questa ricerca di un centro di qualche tipo.
Foto di Massimiliano Nardi
Parlando della scrittura. I primi due album erano dei flussi di coscienza, le parole venivano fuori dirette e taglienti, questo disco è più raccontato, più morbido e le canzoni hanno suoni più pieni. Com’è cambiato il tuo modo di scrivere?
Sono tutte osservazioni giuste e che condivido. In realtà mi è venuto tutto naturale. La prima canzone che ho scritto è I Sonic Youth, l’ho scritta con il pianoforte ed è quindi la più lontana rispetto alle cose che avevo fatto prima, un po’ perché c’è il pianoforte e c’è un’aria diversa nella ballata anche a livello di armonie, di cantato, anche a livello di testo soprattutto, è una storia, è narrativa come canzone, c’è uno svolgimento, ci sono due protagonisti e quindi mi è comunque uscito così.
A volte è qualcosa che hai dentro da due anni anche prima di iniziare a lavorarci, che ti scorre dentro come un fiume in inverno, ghiacciato in superficie, che però sotto continua a scorrere. Quindi è come se la stai lavorando anche quando non sei con gli strumenti in mano. Avevo questo desiderio, e andava di pari passo con quello che mi veniva quando mi approcciavo a scrivere le canzoni, quindi quest’idea anche a livello testuale di mettere molto a fuoco quello di cui stavo parlando, di raccontare delle storie in cui sono dentro al cento per cento. Però, allo stesso tempo, la narrazione può essere una narrazione esterna e quindi raccontare le cose di qualcun altro come succede ne Le ragazze stanno bene o Una guerra lampo pop o Blues del delta del Po dove c’è un protagonista altro.
Molto è cambiato perché all’inizio avevo molte atmosfere musicali, avevo venti atmosfere musicali di vario tipo e da lì sono partito a dare delle forme canzoni e ancora dopo sono arrivate le parole e le storie di cui parlavano, quindi questo ha sbilanciato completamente anche quella parvenza di metodo che era stato sempre diverso per ogni canzone. Nello stesso tempo, però. ha dato subito un’aria molto definita ai pezzi. Secondo me le parole sono uscite con quest’idea di provinciale-spaziale perché lo erano già le parti musicali. Ero partito da dei bit, da delle atmosfere sonore, da dei pianoforti riverberati, ho usato pochissimo chitarra e voce e questo fatto che questi pezzi fossero così organici ed elettronici e ci fossero insieme questi strumenti acustici insieme a della roba elettronica creava una specie di cortocircuito fra il provinciale e lo spaziale questo immaginario iper reale che sta fra la via Emilia e la via Lattea. Da lì, dalla musica, sono uscite anche le storie che parlavano di piccoli e microscopici eventi di provincia, di rapporti tra persone, storie rurali che però sono piene anche di stelle, sono piene di qualcosa di così grande da essere quasi galattiche.
Tutte le piccole storie e le provincie si assomigliano.
Quando ho scritto le canzoni del primo disco, non pensavo sarebbero mai uscite dalla mia cameretta. Parlavano di casa mia e dei sei chilometri quadrati intorno a me, quindi era davvero molto stretta la cosa e poi, invece, facendo di concerti, andavo in Calabria, piuttosto che a Milano o a Roma e c’erano un sacco di ragazzi che si ritrovavano in queste canzoni che venivano da tutto un altro posto.
In Canzoni da spiaggia deturpata hai collaborato con Giorgio Canali, in questo disco c’è invece la collaborazione con Federico Dragogna dei Ministri. Com’è nato questo sodalizio, com’è stato lavorare con lui e che contributo ha dato al disco?
È stata un’esperienza molto bella perché è stata la prima volta in assoluto in cui ho collaborato con qualcuno a livello così stretto. Con Giorgio Canali sul primo disco è stato diverso, io avevo già fatto le canzoni, abbiamo registrato, lui ha suonato l’elettrica, però era già un po’ chiuso il disco. Invece in questo caso avevo già fatto tutta la parte di lavoro all’inizio da solo, le canzoni comunque erano già pronte però avevo molta voglia di condividere. All’inizio non c’era il progetto di stare assieme, in questo disco, avevo fatto i provini e siccome non ho una band mi piace molto farli sentire per sapere cosa pensano gli altri. Lo faccio sentire ai miei amici, altri musicisti e quindi li avevo portati da Fede per farglieli ascoltare, avevo portato quattro o cinque canzoni per sentire la sua e anche magari per chiedergli di darmi una mano perché stavo lavorando su dei bit, su delle cose che non riuscivo a fare e anche a livello tecnico.
Lui aveva appena prodotto questo disco degli Iori’s Eyes che mi piaceva un sacco e quindi ho sentito che quel tipo di rapporto con l’elettronica ce l’aveva stretto, anche se è molto diverso da quello che fa con i Ministri. Appena ha ascoltato quei provini, senza neanche accorgercene abbiamo incominciato a lavorare assiduamente assieme su questi pezzi e l’abbiamo fatto praticamente tutto assieme al computer, confrontandoci. Io gli mandavo cose, lui me le rimandava, ci trovavamo una settimana e ci lavoravamo assieme. È stato un lavoro molto, molto delicato, perché vai a toccare delle dinamiche particolari. Io ci tenevo tantissimo e fortunatamente ci teneva tantissimo anche lui. Ci si trovava anche a discutere anche su determinate scelte e quindi ci si perdeva un po’, ma mi viene da dire che da un lavoro così se ne esce più come fratelli acquisiti che come colleghi. Abbiamo fatto tutta questa parte di disco assieme anche se mancavano un po’ di canzoni perché le ultime le ho scritte proprio poche settimane fa e poi dopo abbiamo capito che se anche avevamo fatto molto a computer, un po’ lui e un po’ io, ci mancava l’idea di poterle suonare e provare con una band, di vedere che cosa succede in una stanza tutti con gli strumenti in mano. Mi serviva un po’ più di calore, avevo quell’idea che ci volesse anche l’elettronica, che per noi ha un suono ormai intimo, non è più fredda, è la nostra musica folk perché siamo nati che già c’era. Mi mancava sentire l’entusiasmo, il nervosismo, le mani e la pancia di qualcuno che sta suonando, quindi abbiamo risuonato tutto il disco con i musicisti con cui sarò in tour. A quel punto avevo un altro disco tutto suonato dal vivo e abbiamo capito che dovevamo mischiare le due cose, è stato un lavoro molto lungo perché non c’era una scadenza, è un disco autoprodotto e il vantaggio è che nessuno ti dice quando deve essere pronto.
Che forma prenderanno i pezzi vecchi nel nuovo tour? Come li amalgamerai a questi più suonati?
In realtà è stato stranamente facile, all’inizio avevo un dubbio su come fare a metterli in mezzo, invece per la prima volta li facciamo, da una parte esattamente come sono sui dischi, che invece ogni volta li stravolgevamo dal vivo però in più avranno quella componente che c’è nel disco nuovo, queste ritmiche ossessive ma anche microscopiche, semplicemente si sostituisce la ritmica serrata dell’acustica con delle ritmiche vere o elettroniche che stanno sotto insieme alle frequenze basse, le abbiamo semplicemente arricchite di frequenze basse e di piccole ritmiche che stanno benissimo in mezzo alle altre, anzi servono molto perché portano un’atmosfera diversa e sono anche più rabbiose e quindi rendono il concerto molto vario e si incastrano veramente magicamente. Stamattina abbiamo fatto una prova di scaletta e l’ho ascoltata registrata e mi piace molto in realtà, è come sfogliare un album di fotografie, sono otto anni di lavoro e di robe messe assieme che ogni volta prendono una forma diversa a seconda di come ci lavori e si assestano con te, cambiano con te anche se rimangono fisse, si assestano in furgone, si assestano sul palco, quindi le sento sempre vive.
Tre dischi, un libro (Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero), un libro di fumetti, un premio Tenco, hai aperto il tour di Jovanotti nel 2011, collaborato con molti artisti e percorso in tour l’Italia in lungo e in largo. Sembra che in questi anni tu non ti sia mai fermato. Che bilancio fai se guardi indietro?
Mi sembra una lunga giornata di cinque anni dove è successa qualsiasi cosa, assolutamente travolgente, così travolgente che non riesci neanche a pensare. Guardandomi indietro devo dire che vedo una dimensione surreale che è iniziata quando ho iniziato a fare questo strano lavoro che mi permette di vedere tutto come se fosse quasi normale e invece non lo è. In realtà sono contento e mi guardo indietro, anche solo pensando ai miei vent’anni vedo delle piccole cose che ho fatto e mi fa star bene soprattutto averle fatte e mi rivedo quando dieci anni prima avevo iniziato a suonare, è un po’ surreale, ma mi da testimonianza che le cose si avverano
Ci parli della copertina? Hai scelto un’immagine forte e delicata molto diversa da quella degli altri dischi, perché?
La base è scegliere il disegnatore, perché poi diventa una collaborazione strettissima perché prima di iniziare a fare un disco ho già in mente con chi vorrei lavorare da un punto di vista visivo e quindi è la prima persona che sente i miei provini quando li sto facendo. Toccafondo ha sentito i provini prima di Federico perché mi piace anche avere un confronto con qualcuno che non è un musicista e che quindi ha una sensibilità diversa, lavora in un campo diverso. Mi piace immaginarmi con lui il colore, i paesaggi, parlarne, sono anche persone con cui non ho solo un rapporto lavorativo, ma che frequento normalmente. Ci è subito venuta quest’idea di una notte perché sembrava che il disco si svolgesse di notte, ma una di quelle notti illuminate, come nei film quando c’è la luna piena che non c’è bisogno neanche che i fanali siano accesi perché ci si vede benissimo, oppure una di quelle notti illuminate da una grande città dove anche di notte non è mai buio del tutto, è venuta fuori questa notte blu elettrico e poi una figura femminile, perché il disco è pieno, come se fosse una santa protettrice del disco, delle storie che ci sono dentro però truccata, una madonna con il rossetto e dietro addirittura un camion parcheggiato sotto una luna gigantesca come se fosse un autogrill e c’è questa cosa strana per cui pensi: «com’è possibile che ci sia una madonna truccata all’autogrill? », potrebbe essere solo una protagonista delle canzoni, mi interessava che fosse protettiva e distratta ma che fosse chiaro che pensava a se stessa, come capita a noi la maggior parte del tempo
Che cosa racconteremo di questi anni dieci?
Mi sa che ormai il racconto si è talmente frammentato che ognuno è il suo narratore personale, è singolarmente il narratore dei suoi anni dieci, mi sembra che ognuno sia diventato lo scrittore, la rockstar di se stesso anche attraverso i social network dove ognuno ha modo veramente di raccontare la sua storia, ognuno è lo storyteller di se stesso, super frammentari e anche super individuali, che non è per forza un male ma è semplicemente la realtà e credo che nessuno si possa permettere di parlare per gli altri, ognuno ha la sua voce e le sue storie da vivere come protagonista.