Viva la FifaVuoi imitare Mou? Farai la fine di André Villas Boas

Ritratto dell'ex "Special Two"

Immagina di essere un adolescente come tanti, di quelli che passano ore al pc con videogiochi manageriali di calcio: non è difficile, lo abbiamo fatto in tanti. Immagina di passare pomeriggi interi immedesimandoti totalmente in quell’allenatore virtuale che vince scudetti e Champions League, azzeccando la mossa tattica vincente, comodamente dalla scrivania della tua stanzetta. Immagina che a un certo punto, un giorno, nel tuo palazzo viene a vivere un grande allenatore. Uno vero, in carne ed ossa, che si è appena trasferito per allenare la squadra della tua città. Immagina di prendere il coraggio a quattro mani, smettere di sognare e bussare alla sua porta: «Scusi mister, ma io il nostro attaccante lo farei giocare più a destra. Sa, io al computer faccio così e ho vinto 3 campionati di fila». E lui, anziché riderti in faccia ed invitarti a spendere più tempo a inseguire le ragazze in centro, vede in te qualcosa. E tu ti ritrovi da Pc Calcio ad osservatore di una squadra vera.

Nel 1994, André Villas Boas ha 17 anni, abita a Oporto e colleziona figurine. Sa tutto di calcio e non solo del Porto, la sua squadra del cuore. Nella sua testa si accavallano migliaia di statistiche, utilissime quando gioca al computer e decide di utilizzare al meglio l’attaccante Domingos Paciencia nelle sue scalate virtuali al successo. Nel vedere una partita una partita di Champions League del Porto, si accorge che l’attaccante non fa i movimenti giusti, così si ripromette di dirlo al proprio vicino di casa. Che altri non è che Bobby Robson, leggenda del calcio inglese e da poco nominato tecnico dei Dragoes. Da allenatore con un congruo conto in banca, Robson ha preso casa in un elegante palazzo del centro. Abita in una casa che possono permettersi solo personaggi del mondo del pallone e famiglie da alberi genealogici con sangue blu nella linfa. Il bisnonno di André era Alfredo Vieira Pinto de Villas-Boas barone di Paço Vieira, il nonno Jose Gerardo è visconte di Gulhomil, lo zio Alfredo è stato conte e Ministro dei Lavori Pubblici. Il giovane Andrè non vuole fare il calciatore («Non ne avrei avuto il tempo», dirà anni dopo), ma l’allenatore. Mentre sta per compilare le pratiche per l’iscrizione a quello che in Italia corrisponde all’Isef, gli capitano sott’occhio le prestazioni – a suo dire – poco convincenti di Paciencia. Così bussa alla porta di Robson. Che ne resta colpito e lo fa entrare nella propria rete di osservatori nel Porto.

All’epoca dei fatti, Arrigo Sacchi aveva già reso grande il Milan di Silvio Berlusconi e ora ci stava riprovando in Nazionale. E aveva nel frattempo tramandato ai posteri il detto «Per diventare fantino non occorre essere stati prima un cavallo». Già, perché Sacchi non aveva mai giocato a calcio, a differenza del suo successore al Milan, Fabio Capello. Mentre anni dopo lo spagnolo Rafa Benitez, interrotta la carriera da giovane calciatore per un infortunio, arriverà ad imparare l’italiano per studiare gli appunti del mago di Fusignano, Andrè Villas Boas si convincerà del fatto che potrà agevolmente diventare un fantino. Il cavallo glielo ha dato Robson e il giochino sembra funzionare. Si sorbisce ore e ore di partite da visionare, distinguendosi per la puntualità con la quale consegna a Robson dei report dettagliatissimi. Dello staff, è l’unico che non hai mai calcato il campo da calcio, se non nei tornei esclusivissimi dell’English Club di Porto, dove gioca all’inglese (in senso parlato: mamma Margareth era di Cheadle, contea di Manchester). Anzi, sono due i calciatori mancati. L’altro è l’interprete di Robson. Si è già fatto le ossa da allenatore nei campi di provincia, tra una traduzione e l’altra dall’inglese al portoghese fa pure da vice al tecnico, viene da Setubal e si chiama Josè Mourinho. In realtà Josè qualcosina ha tentato di fare, come promessa, ma non gli è andata bene: a differenza di Andrè, lui si è diplomato nella scuola che il ragazzo voleva frequentare prima di bussare alla porta del famoso vicino.

Andrè e Josè si ritroveranno due anni dopo al Barcellona, sempre alle dipendenze di Robson. Che nel frattempo, spedisce Villas Boas in Inghilterra: va a fare l’assistente allenatore all’Ipswich Town, poi prende il patentino C da tecnico Uefa, riservato per regolamento ai maggiori di 18 anni. Ma per Bobby a Nyon fanno questo ed altro. Fino al 2000, Andrè fa da assistente nei Blaugrana, due passi indietro a Robson e uno dietro Mou, diventato nel frattempo vice a tutti gli effetti. Nel 2001, la Federcalcio delle Isole Vergini Britanniche lo chiama come allenatore della Nazionale. Non è dato sapere se lo zampino lo abbia messo il suo padrino tecnico, o qualche cugino barone, tra uno sherry e l’altro giù al Club. A 23 anni, Villas Boas diventa così commissario tecnico. Sembra più una vacanza, che si conclude allegramente dopo una sconfitta 0-9 con le Bermude. Pazienza, lo richiama a lavorare il settore giovanile del Porto: 24 vittorie in 27 gare con la selezione Under-19, quella che va sui giornali ogni tanto. Di lui si comincia a capire perché il vecchio allenatore inglese andasse in giro dicendo «Vedrete, diventerà un grande tecnico». E poi, nel lavoro non contano solo le capacità tecniche, ma anche quelle di costruirsi rapporti. Al Porto arriva come allenatore della prima squadra Josè Mourinho. Che ben si ricorda di quei rapporti dettagliatissimi e lo impone come suo tattico.

Per Villas Boas è come tornare al computer: ore e ore di partite da osservare, analizzare, protocollare infarcendole di dati. E poi, il ruolo di ombra di José gli va benissimo. Perché può studiare come diventare esattamente come lui, ora che Robson si è ritirato. Poteva diventare come l’old teacher, in fondo la lingua e un certo atteggiamento distaccato li accomunavano. Ma il vecchio Bobby era, appunto, vecchio. Josè è più giovane, più arrivista. E con i calciatori ci sa fare: quando scendono in campo, ucciderebbero per lui. Come quella sera all’Old Trafford, quando un gol all’ultimo minuto diede al Porto la qualificazione al turno successivo di Champions League ai danni del mitico United di Ferguson. Si parla di Mourinho, del miracolo che farà quell’anno vincendo la coppa dopo la Uefa alzata l’anno prima. Di André non si parla mai, sempre un passo indietro, sempre davanti al computer ad inserire dati nei fogli Excel e preparare le grafiche per Mou. E continuare a compilare rapporti di scouting. Le cronache raccontano che ci mettesse fino a 4 giorni per redigerne uno.

Mou lo chiama «I miei occhi, le mie orecchie». Lo segue al Chelsea, poi all’Inter. Di José, ormai autonominatosi Special One, immagazzina come fossero tattiche mosse, atteggiamento, abbigliamento. Dopo il primo scudetto in nerazzurro, decide che è arrivato il momento di andare via, di lasciare Mouirnho per cominciare ad apllicarne l’imitazione. Unendo il cammino intrapreso dal maestro con le proprie capacità analitiche, potrà addirittura migliorare quanto fatto dal predecessore. Come ogni lavoratore, si mette a mandare curriculum. Uno di questi arriva sulla scrivania di Paul Fletcher, dirigente del club inglese del Burnley, che racconterà: «Il suo curriculum vitae e la presentazione PowerPoint erano incredibili. Anche per gli standard di oggi c’era della roba complicata, con qualche cosa che non ho capito nemmeno io. Il linguaggio, il gergo del calcio peggiora di giorno in giorno e Villas-Boas lo usa molto. Tommy Docherty diceva che non avrebbe mai detto ai suoi giocatori qualcosa che il lattaio non avrebbe capito, non penso che qualunque lattaio avrebbe capito il significato della presentazione di Andrè».

Lattai e giocatori albionici non sono all’altezza di Andrè. Che dall’Italia torna in Portogallo e, dopo un anno di rodaggio all’Academica (con la quale conquista una salvezza che in pochi pronosticavano), diventa allenatore della prima squadra del Porto. Il modulo? Il 4-3-3, lo stesso di Mourinho. Le vittorie? Le stesse di Mourinho: campionato e Coppa Uefa. Il cappotto che indossa in panchina? Lo stesso di Mourinho, quello che nel museo di Stamford Bridge espongono assieme alla Champions League vinta dai Blues nel 2012. E proprio in questo accostamento tra i due oggetti si cela il fallimento di André Villas Boas. Mourinho se ne era andato da Londra dopo aver mancato l’assalto alla “Coppa dalle grandi orecchie”, riuscitogli invece prima nel Porto (e dopo nell’Inter). Mentre Villas Boas sta per provarci con i Dragoes, il magnate del Chelsea Roman Abramovich lo chiama. Resta affascinato dai suoi risultati, certo, ma anche da quel guscio che ricorda tanto Mou. E il russo, che lo ha quasi mandato via a forza, si affida alla sua imitazione. Sbagliando. Perché Andrè, tutto statistiche e slide, non ha una personalità. Quella non la puoi imitare. La stampa inglese prima lo esalta («Ha dedicato la sua vita al calcio» spiega il “Telegraph”), poi però si accorge presto che qualcosa non va.

Mourinho a Londra creava slogan, dallo Special One al «Hanno messo il bus di fronte alla porta» per spiegare il catenaccio di un’avversaria. Villas Boas parla quello che gli stessi giornali definiscono l’Avbinglish: un inglese profondo, impeccabile, ma incapace di arrivare a giocatori e media. Quello delle slide al Burnley. Si arriva così all’inevitabile, soprattutto se sei un personaggio pubblico in Inghilterra: lo sbefeggiamento. Il Daily Mail gli chiede se «sa cosa fare se la squadra resta in dieci, nonostante il taccuino da 5,99 sterline che tiene in mano a bordocampo?». Poi ci si mettono anche i giocatori. Alcuni di loro ingaggiano delle vere e proprie gare, per vedere chi arriva prima al campo di allenamento all’ultimo secondo utile, per poi salutare distrattamente il tecnico. Come a dire: metti anche questo, nelle tue statistiche. Ecco, le statistiche: nelle prime giornate, su 24 punti disponibili ne guadagna 19. Poi, il tracollo. Non gli basta imitare anche qui il 4-3-3 di Mou. Perde a Napoli 3-1 all’andata degli ottavi di Champions, poi sul campo del West Bromwich: esonero. Al suo posto arriva il suo vice, Roberto Di Matteo. Che a fine stagione vince la Champions.

Il 47,50% di vittorie non gli basta. E non gli basterà alzare l’asticella al 55% nella successiva esperienza al Tottenham, dove addirittura ottiene il record di 72 punti in campionato e il ritorno alla vittoria a Old Trafford dopo 23 anni. Non gli bastano perché significano solo un 5° posto e i quarti di Europa League. Non gli bastano perché l’anno dopo, cioè in questa stagione, viene esonerato dopo aver perso in casa 5-0 dal Liverpool . Al suo posto, la dirigenza chiama un ex giocatore degli Spurs, Tim Sherwood. Che 15 minuti prima della partita d’esordio, anziché distribuire i fogli personalizzati ad ogni giocatore sui movimenti da fare in campo, si prepara un tè. I giocatori raccontano alla stampa il proprio sbigottimento. Che prosegue negli intervalli delle partite, quando Sherwood dice ai ragazzi di passarla bene al compagno e fare gol. Punto. 

Insomma, è quello che Dagospia chiama “Il ritorno al calcio pane e salame”. Non certo quello di Brendan Rodgers, il tecnico che ha umiliato Villas Boas con quello 0-5 e che beffa delle beffe ha cominciato la carriera nelle giovanili del Chelsea, proprio quando c’erano Andrè e Josè. Anche Rodgers ha smesso di giocare a calcio presto ma, a differenza di Villas Boas, non imita nessuno e ha un modo di giocare originale e vincente (chiedere allo Swansea, piccolo club gallese lanciato da lui nei fasti della Premier). Con Andrè, però, condivide la mania delle statistiche. E allora, forse, il futuro del calcio resterà in mano ancora per un po’ ai tecnici come AVB. Cresciuti con i videogiochi, passati a Excel e ora al tablet. No? Andrè da qualche settimana ha firmato un contratto con lo Zenit San Pietroburgo. 

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