Produzione di auto «low cost» incompatibili con il costo del lavoro in Europa, un’economia sempre più globalizzata, case automobilistiche internazionalizzate che delocalizzano sempre di più verso la sponda sud del Mediterraneo. Non c’è solo Brasile, Russia, India e Cina nelle mire del mercato dell’automotive. Oltre l’orizzonte dei Brics si apre l’orizzonte dei “Future 15” ovvero di quel gruppo di mercati emergenti che traineranno l’industria nel prossimo futuro, quando la condizione dei Brics sarà satura e si dovrà delocalizzare in altri Paesi dove le condizioni sono meno proibitive (ed il costo della manodopera più basso). Tra questi, non solo Paesi lontani come l’Indonesia, la Thailandia o la Malesia ma anche più vicini a noi come la Turchia, il Marocco, l’Egitto, l’Algeria o, in Europa, la Serbia o la Spagna. Ed è già in questi Paesi che Francia, Germania ed Italia hanno delocalizzato.
Renault, un hub in Marocco a prezzo stracciato
Il gruppo Renault non ha mai venduto tante automobili nella sua storia. Sarà stata la sua alleanza strategica con la casa automobilistica giapponese Nissan, fatto sta che nel 2013 ha stabilito un nuovo record di vendita di auto: 8,3 milioni di vetture vendute. Eppure, nonostante una crescita innegabile, Renault s’appresta a sopprimere non qualche decina ma migliaia di posti di lavoro in tutta la Francia: ben 7.500 licenziamenti sono previsti entro il 2016, ovvero più del 15% dei suoi effettivi. Dai 44.642 dipendenti si passerà dunque a 37.142 tra pre-pensionamenti e partenze “volontarie”.
Contemporaneamente la strategia di delocalizzazione di Renault prosegue da anni e in special modo nel Mediterraneo. Un esempio è la seconda unità di fabbricazione che sorge a Melloussa, a 30 chilometri da Tangeri in Marocco. Inaugurata nel Febbraio 2012, è stata potenziata alcuni mesi fa ed ora è pronta a sfornare ben 340mila macchine all’anno. L’idea di Renault è quella di fare diventare questo stabilimento un hub della casa automobilistica pronto a rifornire tutto il Mediterraneo, Asia e Americhe. Lo stabilimento di Melloussa è destinato a diventare il più grande di tutta l’Africa. La nuova filiera è stata inaugurata dal direttore generale di Renault in Marocco Jacques Prost e dal ministro marocchino dell’industria Abdelkader Amara con un finanziamento di 400 milioni di euro. Il costo globale del progetto di delocalizzazione ammonta ad un miliardo d’euro.
Lo stabilimento Renault di Melloussa, in Marocco (Afp)
Ma perché delocalizzare qui? Semplice. In questa zona franca situata a 30 chilometri dal porto di Tangeri, Renault è esonerata dal pagare imposte per almeno 5 anni. Non c’è traccia di tasse d’esportazione ma, la cosa più importante, i salari sono molto, molto bassi. Per avere un’idea della differenza con l’Europa basti sapere che un operaio in una fabbrica Renault in Marocco percepisce in media 240 euro mensili. Comparati ai 1.800 lordi che ne prende uno in Francia (con 10 anni d’anzianità) non è difficile capire perché la casa automobilistica francese abbia scelto di delocalizzare qui. Pure la Romania (con i suoi salari a 500 euro) è diventata troppo cara per Renault che ha delocalizzato anche a Oued Tlelat, a circa 400 chilometri a ovest di Algeri, dopo un accordo tra il governo algerino e la casa automoblistica. Qui sono stati investiti fino ad ora 50 milioni di euro per un impianto che dovrebbe produrre 25mila macchine all’anno fino a raggiungere le 75mila unità entro il 2020. In Turchia invece lo stabilimento di Oyak-Renault, del gruppo Renault, produce 360mila macchine e 450mila motori all’anno. Nel Mediterraneo Renault ha investito molto: in Turchia (16 %), Algeria (25%), Marocco (37%). Il paradosso è che la auto francesi continuano a vendersi in Francia (le immatricolazioni di veicoli sono aumentate da 493mila a 544mila unità tra il 2008 ed il 2011) ma sono macchine francesi prodotte all’estero in quanto il gruppo Renault vende più auto in Francia di quanto ne produca. Anche questo un effetto perverso della delocalizzazione.
Francia, 100mila posti lavoro in fumo in 10 anni
Tutto ciò ha provocato emorragie enormi nel mondo del lavoro. Un esempio è quello di Psa Peugeot Citroën al quale certo non è andato male l’anno appena trascorso: oltre 2,8 milioni di auto vedute nel 2013. Ma nonostante il trend non certo negativo anche Psa delocalizza massicciamente nel Mediterraneo: Algeria, Marocco Turchia. Ma in Francia la situazione non è proprio rosea. Psa Peugeot Citroën s’accinge infatti a chiudere prossimamente lo stabilimento di Poissy e a sopprimere 684 posti di lavoro. La fabbrica attualmente impiega circa 6.700 persone. Ma il peggio deve ancora venire. Secondo il sindacato Cfdt, dopo il licenziamento di circa 1.400 dipendenti della fabbrica di Rennes-La Janais (Ille-et-Vilaine), altri 279 dipendenti potrebbero perdere il proprio posto di lavoro nelle settimane a venire. La ristrutturazione del gruppo ha portato nel 2012 alla chiusura dello stabilimento d’Aulnay-sous-Bois con il conseguente licenziamento di 3.000 operai della fabbrica che si vanno ad aggiungere agli altri 5.000 licenziati in tutta la Francia. Nel solo 2012 Peugeot ha licenziato senza batter ciglio ben 8.000 lavoratori. Le stime fornite dalla Ccfa per quanto riguarda l’industria automobilistica francese sono spaventose: in 10 anni questa ha soppresso ben 101.000 posti di lavoro. È il costo della delocalizzazione. Si reinveste a colpi di mannaia.
Volkswagen produce in Spagna, Fiat in Serbia
Dopo aver inghiottito ben nove case automobilistiche (Audi, Seat, Skoda, Porsche, Lamborghini, Bentley, Bugatti, Ducati) il gigante Volkswagen continua la sua irresistibile ascesa mondiale con oltre 9 milioni di auto vendute ed il progetto ambizioso di raggiungere la cifra choc di 10 milioni entro il 2018. Da un lato dunque vendite abnormi dall’altro però la strategia dell’auto low-cost da produrre in sedi dislocate (e delocalizzate) in Asia ma anche nel Mediterraneo. In Spagna ad esempio, nella fabbrica Landaben (Navarra), dove la Volkswagen produce la nuova Polo. Il gigante tedesco per ora non ha ancora messo mano alla mannaia. Dei 500mila dipendenti del gruppo infatti 220mila sono ancora localizzati in Germania. Ma per quanto durerà? Per ora non è in programma alcuna chiusura di fabbriche in Europa né tagli ai contratti indeterminati ma il personale impiegato ad interim potrebbe essere messo alla porta nei mesi a venire.
Auto Volkswagen nel porto di Bremerhaven, il più grande d’Europa per lo smistamento di auto (David Hecker/Getty Images)
E la Fiat? Anche la Fiat segue il trend della produzione automotive globale delocalizzata in regioni dove i salari sono bassi e gli incentivi statali più alti. Fiat infatti – che intanto è diventata Fca (Fiat Chrysler Automobile) con sede legale in Olanda e sede fiscale in Gran Bretagna – ha delocalizzato già da alcuni anni la produzione della sua monovolume 500L in Serbia. Lo stabilimento Fiat di Kragujevac (Serbia centrale), dove lavorano circa tremila operai, produce in media tra le 600 e le 750 auto al giorno, cosa che ha portato la Fiat Automobili Srbija (Fas) a diventare nel 2013 il primo esportatore dalla Serbia con un valore di 1,53 miliardi di euro. Eppure, all’interno di questa produzione pompata e galoppante, qualche problemino c’è. Anche qui in Serbia ritroviamo infatti le stesse contraddizioni (che in realtà diventano condizioni favorevoli per l’industria) che sono alla base della fortuna della delocalizzazione di Renault in Marocco. Oltre al fatto che le autorità serbe hanno fatto tantissime concessioni, a livello di incentivi e terreni, alla Fiat, gli operai serbi guadagnano un quinto dei loro omologhi italiani e lavorano fino a 12 ore al giorno guadagnando il misero stipendio di 320 euro netti. Uno stipendio che è addirittura più basso della media degli stipendi nella stessa Serbia. Operai dunque pagati pochissimo e, cosa più grave, la Fca, sempre più attore globale del mercato delle auto, chiude i battenti in Italia. L’ultimo caso, quello di Termini Imerese che con i suoi 1.200 dipendenti diretti (e almeno il triplo nell’indotto), è stato definitivamente cancellato dalla scena produttiva. La cassa integrazione terminerà a Giugno 2014. E dopo? Dopo saranno dolori.
Dalla delocalizzazione alla co-localizzazione?
La delocalizzazione non piace nessuno. Dal punto di vista di coloro che la subiscono costituisce una mostruosità generata solo per fare profitto, per aprire nuovi mercati, per moltiplicare la produzione e raggiungere guadagni record anche lì dove i guadagni già esistevano (ma il surplus va reinvestito, è una vecchia legge del capitalismo). Si delocalizza non (solo) perché un’impresa è in cattive acque ma perché è il mercato a chiederlo, il mercato che chiede di diversificare i prodotti, reinvestire nelle perdite, soldi per soldi insomma, la vecchia e nota contraddizione che il filosofo Karl Marx aveva colto nell’essenza del capitalismo. Ad ogni modo a gioirne sono solo gli attori prncipali, non certo coloro che si trovano stritolati nelle maglie di questo meccanismo finanziario globale. Forse però una soluzione c’è e viene dalla Francia. Per ora non è chiaro se si tratti soltanto di facciata oppure di un semplice capovolgimento semantico ma nei gabinetti ministeriali francesi è in voga un nuovo concetto, quello di “co-localizzazione” che dovrebbe sostituire la delocalizzazione, divenuta oramai una piaga per il mondo del lavoro, soprattutto in Europa. Ma cos’è in definitiva questa co-localizzazione? Ne ha dato una definizione calzante l’economista Jean-Louis Levet, autore di un libro sul concetto di “reindustrializzazione”. Dato che oramai dovunque si smantella, si de-industrializza, la cultura si fa immateriale e la sopravvivenza di certe categorie professionali pure, occorre invece re-industrializzare ma con un nuovo spirito. «Mentre la delocalizzazione vuol dire chiudere totalmente o parzialmente un sito di produzione per localizzarlo in un Paese con costi più bassi, la colocalizzazione – spiega Juvet – significa produrre in patria ma facendo appello a subappalti in Paesi dove il costo della manodopera è più basso. Insomma la colocalizzazione permette di non sopprimere posti di lavoro nelle sedi centrali ma di creare “filiali” all’estero. Così si riducono i costi, si conquistano nuovi mercati e al tempo stesso si reinvestono i benefit nel campo dell’innovazione e della ricerca mantenendo i posti di lavoro salvi». Una bella teoria, certo, ma potrà mai avere riscontro nella realtà? Ai posteri (se sopravviveranno all’inquinamento di auto e fabbriche), l’ardua sentenza.