Dopo le elezioni legislative del dicembre 2005 occorreva formare un governo che, pur essendo prevalentemente espressione della maggioranza sciita, fosse anche inclusivo della minoranza sunnita, oltre che dei curdi con i quali una parte dei movimenti sciiti aveva raggiunto una solida intesa sulla costituzione federale e sulla gestione del potere. I sunniti erano divisi tra chi si poneva fuori dalle istituzioni e praticava una opposizione radicale, fino alla lotta armata, e chi, avendo partecipato alle elezioni dopo il boicottaggio di quelle in gennaio per l’Assemblea costituente, intendeva essere parte del gioco politico. Dai veti incrociati sull’una o l’altra personalità sciita, alla fine la convergenza fu trovata, nella fase più acuta delle violenze intersettarie, su Nuri al-Maliki, esponente di una componente del partito Da’wa, storica compagine dell’islamismo sciita e dell’opposizione a Saddam Hussein. Più di quello dei due maggiori partiti (lo Sciri e il movimento sadrista), il suo passato era caratterizzato da rapporti non facili con l’Iran, cosa che contribuiva a renderlo accettabile agli americani. Rispetto ad altri, godeva allora anche del via libera del grande ayatollah al-Sistani, la cui benedizione era considerata necessaria per governare il Paese. Anche Teheran, consapevole dei rapporti di forza e delle influenze contrapposte e intrecciate, vide i meriti di quella scelta, non rinunciando però a mantenere il nuovo governo sotto la duplice pressione dell’appoggio condizionato a livello ufficiale e di un sostegno a milizie e gruppi armati che di fatto ne minavano l’autorità.
Il rapporto con gli Usa
Al-Maliki è un nazionalista il cui obiettivo prioritario è stato far riacquistare piena sovranità al Paese con l’uscita della forza multinazionale. Ha quindi operato per garantirsene il sostegno nell’affermazione sul territorio dell’autorità del governo, identificata con la propria, e liberarsene quando alla scadenza del mandato conferito dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non ha voluto sottostare alle condizioni poste dagli americani in materia di immunità.
Il governo formato da al-Maliki nel 2006 ha incluso soltanto una parte delle forze politiche sunnite: quelle espresse dal Partito islamico, costola dei Fratelli musulmani, e da qualche altra frangia, oltre a esponenti presenti nella lista laica e trasversale guidata dall’ex-primo ministro del governo provvisorio Iyad Allawi. Ne sono rimasti fuori la componente più nazionalista guidata da Saleh Mutlaq e i più significativi gruppi tribali contigui in vario modo alla lotta armata. L’estraniamento da parte di queste forze avveniva con l’avallo dell’Arabia Saudita e dei Paesi del Golfo malgrado gli strenui sforzi americani per convincerli a operare diversamente.
Sta di fatto che al-Maliki e i partiti sciiti e curdi hanno lasciato poco potere reale alle forze sunnite che avevano accettato di entrare nel governo. Anche la svolta cruciale del 2007 ebbe scarsi effetti sotto questo profilo, benché abbia permesso un ristabilimento del controllo del territorio e della sicurezza in importanti aree sunnite sottraendole alle forze jihadiste. Gli americani, con l’azione del generale Petraeus, colsero e incoraggiarono il sopravvenuto rigetto di al-Qaida e di altre forze estremiste da parte delle tribù e della popolazione. A questa azione si allineò il governo iracheno malgrado qualche riluttanza iniziale. Ma le promesse di “power sharing” e di inserimento delle milizie tribali nelle forze di sicurezza furono mantenute in modo molto limitato, soprattutto dopo la partenza delle forze statunitensi.
Il controllo delle aree petrolifere
Un grande risultato di al-Maliki fu nel 2008 il recupero delle aree petrolifere del Sud, prendendo l’iniziativa di sfidare e disarmare le milizie sciite, sadriste ma non solo, che controllavano quei territori. Gli americani e i britannici furono sostanzialmente posti davanti al fatto compiuto e dovettero intervenire per dare tutta la copertura militare necessaria all’azione del primo ministro. In Iran, ove settori degli apparati di sicurezza a volte in concorrenza tra loro avevano sostenuto tali milizie e approfittato del loro controllo degli impianti petroliferi, prevalse alla fine la decisione di lasciare che al-Maliki si rafforzasse.
Questa azione consentì il riavvio della produzione petrolifera attraverso contratti con compagnie straniere (tra le quali in prima fila l’Eni) resi possibili dalle nuove condizioni di sicurezza e di controllo dei giacimenti. Rimaneva il problema della mancata intesa con i curdi sulle modalità di gestione degli idrocarburi nella loro regione e sulla questione collegata delle aree contese (in primo luogo Kirkuk), ma questo non aveva effetti sulla sostanziale tenuta del patto complessivo di governo tra sciiti e curdi che aveva caratterizzato il nuovo Iraq fin dal suo concepimento.
Legislative 2010
Grazie a questi risultati, che per la popolazione comportavano soprattutto un miglioramento delle condizioni di sicurezza, al-Maliki riuscì, dopo i successi della sua coalizione nelle elezioni provinciali, a contrastare con successo nelle elezioni legislative del 2010 l’ampia ma eterogenea coalizione laica di forze trasversali raggruppate attorno ad Allawi, con seguiti predominanti nelle aree sunnite ma anche in settori significativi di quelle sciite. Recuperando dopo le elezioni, anche con l’aiuto iraniano, gli altri partiti sciiti con i quali si era conteso i voti del sud, e grazie a benevoli pronunciamenti degli organi giurisdizionali, egli ottenne la guida del governo, benché la compagine di maggioranza relativa fosse quella di Allawi.
I problemi nel secondo mandato
Il secondo mandato di al-Maliki, dopo i relativi successi del primo, si è rivelato rapidamente più problematico a causa di diversi fattori. Alla componente sunnita non è stata sostanzialmente consentita la piena partecipazione alla gestione delle risorse e soprattutto della sicurezza del Paese, con la motivazione di asserite contiguità con residui delle frange armate, che proprio tale stato di cose ha poi per alcuni aspetti favorito, in presenza anche di acquiescenze esterne. Questa situazione è stata aggravata dalle condanne per attività terroristiche del vice presidente della repubblica, Tariq al-Hashimi, e del ministro delle Finanze, Rafi al-Issawi, autorevoli esponenti sunniti, e dalla repressione violenta di manifestazioni popolari nelle aree sunnite ispirate dalle primavere arabe. E ciò mentre la guerra civile in Siria riapriva spazi alla presenza jihadista.
Si sono inoltre deteriorati i rapporti con la regione del Kurdistan che ha unilateralmente avviato, con il concorso di società straniere, lo sfruttamento e l’esportazione di petrolio verso la Turchia, consolidando con questo Paese stretti rapporti economici e politici. Kurdistan (e Turchia) hanno, inoltre, dato rifugio ad esponenti sunniti condannati dalle autorità di Baghdad.
Anche i rapporti tra il primo ministro e gli altri due maggiori partiti sciiti si sono progressivamente complicati. Il peso di Isci e sadristi è cresciuto nelle elezioni provinciali del 2013 e si sono verificate, come nella provincia di Baghdad, convergenze in opposizione ad al-Maliki, con la compagine sunnita in ascesa guidata da al-Nujafi.
In questo quadro di incertezze politiche e istituzionali, su cui hanno inciso anche la lunga assenza per malattia del presidente delle repubblica Talabani e il venir meno del suo ruolo moderatore a più riprese utile in passato, non sono migliorate le capacità di governance, di produzione legislativa e amministrativa e di programmazione strategica. Un aspetto significativo di queste carenze è il ritardo che continua a gravare sull’approvazione della legge di bilancio per il 2014.
Un Paese più diseguale e corrotto
Il Paese ha conosciuto alti tassi di crescita del prodotto interno lordo ma basati esclusivamente sulle risorse petrolifere e sugli alti prezzi del greggio, senza che ciò abbia avuto conseguenze sostanziali sui livelli di occupazione e sulle condizioni di vita della popolazione. Si sono invece accentuate disuguaglianze e corruzione. È mancato in particolare, soprattutto a causa di quelle carenze politiche, il reale avvio di un necessario processo di diversificazione dell’economia e di uscita dalla monocultura del petrolio. Se le condizioni interne e regionali lo consentissero, il Paese potrebbe avvicinarsi ai livelli dell’Arabia Saudita quale produttore ed esportatore di idrocarburi. E questo renderebbe ancora più evidente la sfida di dover investire le risorse che ne deriverebbero per la crescita complessiva del Paese e il superamento della sua condizione di “rentier state”.
Ma affinché ciò avvenga occorrerà che il nuovo governo, guidato o meno da al-Maliki, la cui compagine sta subendo defezioni verso altri partiti sciiti, sia realmente inclusivo, non soltanto nella composizione ma anche nelle modalità di gestione, con il suo corollario dell’accettazione da parte della componente sunnita della preminenza che deriva agli sciiti dalla loro consistenza numerica.
Occorrerà inoltre che sia trovato un compromesso adeguato con la regione del Kurdistan, ove le condizioni di governance e di sicurezza hanno consentito una crescita più sostenuta e articolata rispetto al resto del Paese. E sarà infine necessario che tutto questo sia favorito, e non ostacolato, dai Paesi della regione.
Articolo di Maurizio Melani, già Ambasciatore in Iraq (2006-2010), pubblicato da Ispi