Non vivo a Taranto ormai da 10 anni e continuo ad amarla con la stessa ostinazione con cui si ama un uomo stronzo. È difficile da spiegare, e per questo non mi perderò nella solita retorica dell’emigrante con la valigia di cartone, perché non è di questo che si tratta.
Taranto è un rebus, un cane che si morde la coda (oppure un gatto, non ho mai capito la differenza): la salute, il lavoro, il degrado, la natura, la cultura. Taranto è un gioiello decadente, a cavallo tra due mari, noto ai più per le sue cozze alla diossina, per la presenza dell’Ilva e perché qualcuno ha sempre fatto il servizio di leva a Taranto. Dei fasti della Magna Grecia resta un’arteria del traffico cittadino, due colonne doriche in Piazza Castello e un Museo Archeologico che generalmente è la destinazione della prima gita scolastica, alle elementari.
Taranto è un disastro ambientale. Taranto è un’emergenza sanitaria. Taranto è una città dimenticata dalla politica e dalle istituzioni, immolata sull’altare del PIL nazionale, dell’indotto, del malgoverno, delle connivenze e dei mutui da pagare. Taranto è una città in cui morire di vecchiaia è un privilegio, in cui il tumore non è una probabilità ma una certezza. Taranto è una città in cui mettere al mondo un figlio è un atto di forza che manco Shwarzenegger, che devi pregare non nasca con un cancro già in corpo, che devi scongiurare che a sei anni possa giocare a pallone, insieme agli altri, senza finire divorato dalla leucemia.
Ma c’è dell’altro. C’è che, come diceva De André, dal letame nascono i fiori. C’è che in una città dimenticata da Dio (o per lo meno dai prelati) e volutamente sacrificata dallo Stato, da qualche anno si assiste a una straordinaria militanza civile, auto-organizzata, dal basso.
Taranto è un modello di politica partecipata, di attivismo locale, di mobilitazione sociale proprio laddove i partiti e i sindacati hanno perso qualsiasi tipo di credibilità agli occhi della popolazione. Taranto è, ad oggi, con i suoi comitati cittadini (e con tutti i loro limiti), con le sue manifestazioni, con le sue azioni spontenee di riqualificazione degli spazi comuni e con il continuo tentativo di creare un tessuto culturale condiviso, ciò che la politica dovrebbe essere: dialogo, denuncia, protesta, resistenza e proposta.
Giovani e vecchi, ultras e avvocati, tutti al servizio di una causa comune: restituire alla città il suo decoro e ai suoi abitanti il diritto inalienabile (eppur alienato) alla salute, al lavoro e al futuro. Dall’associazione “PeaceLink” di Alessandro Marescotti, alle azioni di “Alta Marea”, passando per gli operosi ragazzi di “Ammazza che Piazza” e per le donne del “Comitato Mamme Taranto”, fino ai “Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti”, Taranto è una città che spalanca gli occhi e colpisce il cuore. È una città in cui lottare (senza violenza) è l’unica alternativa ragionevole.
Fiore all’occhiello di questo fermento civile è il concerto del primo maggio, quest’anno alla sua seconda edizione. Già realizzato nel 2013 con il prezioso contributo dell’attore Michele Riondino e presentato da Valentina Petrini (giornalista La7), l’evento torna in occasione della festa dei lavoratori, in un luogo in cui più che mai il lavoro diventa arma di ricatto, aut aut tra sopravvivenza e malattia. Una giornata di conversazione, arte e musica, presso il Parco Archeologico delle Mura Greche.
Tanti i nomi degli artisti che si esibiranno, locali e nazionali, tutti a titolo gratuito, per sostenere la causa di Taranto e dei tarantini: Afterhours, Vinicio Capossela, Fiorella Mannoia, Caparezza, 99 Posse, Aprés La Classe, Diodato, Paola Turci, Tre Allegri Ragazzi Morti, Sud Sound System, Nobraino, Fido Guido e tanti altri.
Io, purtroppo, non ci sarò fisicamente e guarderò la diretta streaming (qui per essere aggiornati) ma, a tutti coloro che sono in zona, consiglio di andare, macinare qualche chilometro ed esserci. Esserci per Taranto e per tutte le Taranto d’Italia: per la Terra dei Fuochi, per Trieste, per Brindisi, per Piombino. Consiglio di andare per respirare il senso di comunità, di coscienza civile e di possibilità. Possibilità di cambiare, possibilità di rivendicare, possibilità di riconquistare e di ricostruire.
Qualcuno dirà che non serve a nulla, che i fumi continueranno a intossicarci il corpo e l’anima, che i buoni non vinceranno, che i capitali dei Riva resteranno nei paradisi fiscali, che i morti non risorgeranno. Forse è vero. Ma sentirsi parte di una collettività che vuole la stessa cosa, sentire di appartenere a una terra che urla la sua voglia di vivere ancora, credo vi darà i brividi.
E saranno brividi memorabili.
Godeteveli. Nonostante tutto. Godiamoceli.
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