Il ritorno dei Goonies, never say die

Il ritorno dei Goonies, never say die

I Goonies

Da bambina provavo un amore smodato per quattro cose: le vecchie soffitte impolverate, i pirati, i castelli infestati e i passaggi segreti. Con un ottimo punteggio di tre su quattro, I Goonies poteva considerarsi a buon diritto uno dei miei film preferiti.

Era il 1985, l’anno di Ritorno al futuro, Brazil e Rocky IV. Il film, diretto da Richard Donner e sceneggiato da Chris Columbus su soggetto di Steven Spielberg (anche produttore), ha un plot semplicissimo nella sua rocambolesca tortuosità. Da una parte abbiamo i nostri eroi — una banda di amici un po’ sfigati (ma non troppo) — dall’altra il gruppo dei cattivi soft —una famiglia di delinquenti italiani, casinisti e mammoni.

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La vicenda ruota attorno al quartiere di Goon Docks, ad Astoria, cittadina costiera dell’Oregon. La minaccia è presto detta: nel tranquillo e medioborghese quartiere irrompe la gentrificazione: un imprenditore senza scrupoli, per conto del locale Country club, decide di acquistare tutte le case dei protagonisti per raderle al suolo e costruire uno spocchiosissimo campo da golf.

A questo punto, nell’apatica rassegnazione dei “grandi” (la signora Walsh, madre dei protagonisti, ci terrebbe «veramente molto che la casa fosse pulita quando la demoliscono») i ragazzi hanno una missione da compiere: salvare il loro quartiere. E la strategia messa in campo rispecchia in pieno i loro 13 anni, ovvero pagare gli speculatori attraverso il ritrovamento di un vecchio tesoro pirata.

Inizia quindi un’avventura che unisce in un colpo solo tutti quegli ingredienti che, per un bambino delle elementari, costituiscono una trama ben congegnata: esplorazioni con trabocchetti, ammiccamenti a un erotismo molto soft e i soliti classiconi della slapstick comedy, tra cadute rovinose e botte nelle parti basse. E poi, naturalmente, c’è Lui: Willy l’Orbo, pirata del Seicento il cui nome stevensoniano basta a evocare un universo di avventure e misteri che a otto anni ha l’afflato dell’epopea.

È con questo solido background affettivo che apprendo la notizia, riportata da TMZ, secondo cui Richard Donner avrebbe confermato l’imminente realizzazione del sequel. Mentre decido se entusiasmarmi o gridare alla profanazione, mi ricordo che voci simili sono circolate più e più volte nel corso degli anni, in una lunga alternanza di conferme e smentite.

Prima Donner aveva alimentato le speranze dichiarando di aver trovato un soggetto che piaceva sia a lui che a Spielberg, salvo poi essere smentito da alcuni membri del cast originale, causa mancanza di interesse da parte della Warner Bros.

Nel 2007 è stato Sean Astin (Mikey) a dichiarare a MTV che un sequel si sarebbe fatto sicuramente, anche se con molti cambiamenti, tra cui il passaggio di testimone a una nuova generazione di Goonies; e puntuale era arrivata la smentita sul blog di Corey Feldman (Mouth). Nel 2011 Donner spiazza tutti dichiarando di voler portare I Goonies a Broadway, sotto forma di “musical irriverente”; ma ancora una volta nulla di fatto. Ed eccoci a ora.

In 29 anni succedono un sacco di cose: Sean Astin, un po’ ingrassato, è diventato un famoso hobbit; Jeff Cohen (Chunk) ha fatto un mucchio di soldi come avvocato; Corey Feldman ha radicalizzato il suo status di bambino prodigio di Hollywood dandosi anima e corpo alle droghe e coltivando l’amicizia con Michael Jackson.

Qualcuno però non si rassegna. E non sono, come si potrebbe pensare, i membri del cast la cui fortuna scenica si è fermata a quello storico 1985. Si tratta di Donner, ormai quasi ottantaquattrenne, un regista affermato con all’attivo molti film di successo, tra cui Ladyhawke, il ciclo di Arma letale e S.O.S. fantasmi con il grande Bill Murray.

Dal suo superattico di New York, lui sogna ancora di riunire la vecchia banda (o almeno così me lo immagino io).

La vecchia banda

Riunirli tutti potrebbe non essere facile, anche se solo per un cammeo. I più impegnati cinematograficamente sono senza dubbio i due fratelli protagonisti: Sean Astin (aka Mikey Walsh aka Sam Gamgee aka il figlio adottivo di Gomez de La famiglia Addams) e Josh Brolin.

Quest’ultimo interpreta Brandon Walsh (un nome che sarà ereditato presto da un altro cult generazionale). A prima vista sembra un bulletto aitante e ben integrato, con la sua bandana rossa alla Matt Dillon in Rusty il selvaggio, eppure nel corso del film subisce una serie di contraccolpi: viene sbertucciato da Mouth perché ha fallito l’esame per la patente, bullizzato dal ragazzo ricco e arrogante, e subisce l’onta suprema quando il fratellino riesce a limonare con la sua ragazza prima di lui.

Ma è uno che sa incassare, e di Brolin si può dire che è l’attore che ha ottenuto più successo: ha recitato in film come Non è un paese per vecchi e apparirà presto nel sequel di Sin City. Come uomo conserva un discreto fascino e gli vorrei ancora un gran bene se non fosse per quel maledetto remake di Oldboy.

Tutt’altra strada ha preso Jeff Cohen, che interpreta Lawrence detto Chunk. Sul personaggio c’è poco da dire: rientra nella categoria “ciccione simpatico ma piagnucoloso che fa cadere le cose e ha sempre fame”. L’attore ha fatto una scelta controcorrente: è stato il primo ad abbandonare la carriera cinematografica, diventando un avvocato specializzato in diritto dello spettacolo.

Anche Jonathan Ke Quan ha abbandonato la recitazione. Il suo personaggio, Data, è un nerd asiatico con un tocco da stylist («i trafficanti di droga non andrebbero mica in giro con quegli stracci sintetici»), lui invece si è appassionato di taekwondo sul set di Indiana Jones e il tempio maledetto ed è diventato un coreografo di stuntmen.

Non sembra invece aver trovato ancora la sua strada (o forse sì?) il volubile Corey Feldman (Clark “Mouth” Devereaux), impegnato in festini e inquietanti autobiografie. Ma a noi piace ricordarlo mentre traduce dallo spagnolo in quella gag con la domestica messicana — l’essenza del suo personaggio è racchiusa nel tono subdolo di quel «Con gioia, signora Walsh», con cui accetta l’incarico di interprete.

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Decisamente meno mondane — almeno secondo le mie ricerche — chiudono la carrellata le ragazze, che nel film interpretano due archetipi: “quella che tutti si vogliono fare” (Kerri Green, ovvero Andy, la quale ha il suo momento di gloria quando suona l’organo d’ossa perché, da brava ragazza di buona famiglia, ha preso lezioni di piano) e “l’amica con gli occhiali” (Martha Plimpton, aka Stef). Inutile dire che per una giusta legge karmica la seconda vanta una filmografia ben più ricca.

Tre cose che ho imparato facendo ricerche per questo articolo

A proposito di karma, sento di dover dare il dovuto al povero Data, che verso la fine, quando i ragazzi raccontano ai genitori le loro avventure, fa la figura del cazzaro blaterando di una piovra gigante. In realtà si riferisce alla più celebre tra le scene tagliate: Mouth e Stef vengono aggrediti da una grossa piovra e a salvarli è lo stesso Data, che poi, giustamente, ci tiene a vantarsene.

Quanto a curiosità, aneddoti e indiscrezioni sul film, il web ne è davvero pieno. Un paio di cose mi hanno colpito più di altre: la prima è che l’interprete di Mamma Fratelli è effettivamente una donna (Anne Ramsey, scomparsa nel 1988). La seconda è che il tema principale della colonna sonora, The Goonies ’R’ Good Enough, è cantato da Cindy Lauper e il videoclip è una sorta di concentrato pacchiano di un intero decennio: oltre ad alcuni attori del film, vi compaiono infatti anche Steven Spielberg, le Bangles nel ruolo dei pirati, più una sfilza di famosi wrestler, come André The Giant e l’iraniano Kohsrow Vaziri, detto The Iron Sheik.

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E tre cose che ho capito riguardando il film dopo vent’anni

Tra i nati negli anni ’80 è opinione condivisa che chi da bambino non abbia guardato e amato questo film non abbia vissuto appieno l’infanzia. E non c’è modo di rimediare. Visto in età adulta rischia di apparire buonista, con buchi della trama troppo evidenti e la solita accozzaglia di cliché, tipo gli italiani che vanno in giro cantando arie d’opera: colpa di un’eccessiva padronanza dei meccanismi narrativi e un senso critico troppo affinato.

Io, che per fortuna il film l’ho visto all’età che si conviene, riguardandolo ho notato altre cose. Ad esempio che nell’85 la pubblicità occulta della Pepsi la faceva da padrone e che, esattamente come alcuni scrittori d’avventura che amavo leggere allora (Kipling, o Stevenson), anche Columbus-Spielberg-Donner non erano esattamente all’avanguardia nelle questioni di genere.

Se infatti alcune delle sequenze che allora trovavo più pruriginose (come la battuta vanziniana del «pezzo preferito di mamma» riferito al pene della statua) ora suscitano tenera indulgenza, la scena in cui Andy (l’unica ad avere una crisi isterica, ovviamente) ripete in modo ossessivo che era meglio continuare «a farsi guardare sotto la gonna» non smette di lasciarmi perplessa.

L’ultima scoperta, invece, in realtà conferma qualcosa che già sapevo, cioè che alla soglia dei trent’anni continuo ad adorare i pirati.

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