La beffa dei test di italiano per stranieri

La beffa dei test di italiano per stranieri

1. A scuola di italiano

Come ogni giorno, alle nove del mattino al Centro territoriale permanente di viale Campania a Milano suona la campanella. Pochi zaini colorati e chiacchiere in un italiano “esotico”. Le erre diventano elle per i cinesi. Le vu si fanno bi per i latinoamericani. Nell’aula G si tiene il corso per il livello A2 di lingua italiana, quello richiesto per l’Accordo di integrazione e il rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo. Tra i banchi ci sono pochi studenti, dai 25 ai 40 anni su per giù. Vengono dalle Filippine, dall’Ecuador, dalla Moldavia, dal Perù, dal Bangladesh, dalla Cina. «Il livello di dispersione qui arriva al 50%», spiega Maria Teresa Mauri, coordinatrice dei corsi, «si parte con classi da trenta e poi i frequentanti restano 15-20. Gli immigrati hanno altre priorità, dal lavoro alla casa, ai figli. In tanti abbandonano, molti si presentano solo per fare il test di verifica richiesto dalla Prefettura».

Sui muri dell’aula sono affissi tre cartelloni. Ci sono i nomi degli elettrodomestici, delle “parti della casa” e le professioni: le definizioni base per muoversi tra i giornali di annunci alla ricerca di un lavoro e di un appartamento. Accanto agli attaccapanni, il planisfero, la cartina dell’Italia e quella di Milano. Giusto per orientarsi un po’ e ritrovare sulla mappa, tra una coniugazione di un verbo e l’altra, i Paesi d’origine che si sono lasciati alle spalle.

L’insegnante Luisa chiama tutti per nome, conosce le storie personali e i progressi di ciascuno. Sa chi è qui come rifugiato, chi ha portato tutta la famiglia e chi una famiglia se l’è creata in Italia. Due ragazzi neanche ventenni dividono il banco in prima fila. Sono nati entrambi in Bangladesh, ma in Italia sono venuti da soli. Uno fa l’aiuto cuoco, lavora il pomeriggio e la sera, e di mattina, per tre volte alla settimana, può seguire i corsi di italiano. L’altro lavora come barista all’Ikea, e studiare l’italiano gli serve per parlare meglio con i clienti. Ma ci sono anche quelli che studiano «per seguire i compiti dei figli» e «perché i miei bambini nati in Italia quando tornano da scuola mi fanno domande e io non so rispondere, e le mamme davanti a scuola vogliono chiacchierare». E quindi eccoti di nuovo tra i banchi, dopo dieci anni da badante a ripetere poche altre parole oltre a «signora» e «medicina», perché per l’integrazione dei figli (non la tua) si fa questo e altro. Solo in Lombardia, in effetti, tra gli stranieri il ritardo scolastico arriva al 38,2%, ben più alto rispetto all’11,6% degli italiani. 

Tra i banchi c’è anche una giovane ragazza con una laurea nel cassetto. Paese natale Moldavia, università in Portogallo, dove ha anche lavorato come guida turistica, e poi l’Italia, «per seguire il mio fidanzato che ha trovato lavoro qui e il prossimo anno ci sposeremo». «Puoi anche usare il presente e dire “ci sposiamo” se sei sicura», scherza l’insegnante.

«Oggi facciamo l’imperfetto e il passato prossimo, è una delle lezioni più difficili». Si legge uno alla volta a voce alta, si correggono gli esercizi. C’è anche la prima della classe, che viene dalle Filippine. Corregge tutti. «Mentre, no mientre». «Elisa è andato», dice qualcuno. «È andata», risponde lei. Ogni tanto qualche parola in inglese risolve tutto. E gli studenti della stessa nazionalità si aiutano nella propria lingua d’origine. «Cos’è il ladro?». «Sur», dice uno dei due ragazzi del Bangladesh. «Grazie», risponde l’altro. «Otto anni in Italia e non sai cosa vuol dire “spaventarsi”», scherzano rivolgendosi alla compagna di classe peruviana. Nessuno si distrae, sono tutti molto attenti. Per chi si divide tra scuola e lavoro, il tempo è prezioso e di quella lezione di imperfetto non si può perdere una parola. 

Ma non tutti gli immigrati hanno tempo per frequentare i corsi. «Soprattutto arabi, cinesi e molte badanti dell’Est Europa abbandonano», spiega Mauri. «La maggior parte degli immigrati sa leggere e scrivere, ma ci sono anche alcuni che sono analfabeti nella propria lingua e alfabetizzarsi in un’altra lingua è un’impresa ardua». In tanti, raccontano le insegnanti, davanti ai test somministrati dalla Prefettura non sanno neanche come si regge una penna o come si traccia una croce per rispondere alle domande. «Se non superano il test parecchie volte, proponiamo loro di seguire almeno un certo numero di ore di lezione».

2. Le leggi di riferimento

Prima che l’immigrazione diventasse un fenomeno di massa, l’ordinamento italiano non dava importanza alla conoscenza dell’italiano da parte dell’immigrato. Di fronte a ingressi poco più che sporadici, l’attenzione del governo era concentrata sulla sicurezza del territorio nazionale. Se lo straniero non risultava pericoloso, poteva entrare e soggiornare, senza che altre questioni come la lingua venissero considerate. La legge Turco-Napolitano del 1998 per prima affrontò la questione (all’articolo 36), prevedendo corsi pubblici di italiano, senza però nessuna previsione di risorse per finanziarli e senza obbligare l’immigrato a frequentarli. Ma in assenza di obblighi specifici, molti stranieri, già carichi di problemi, sullo studio dell’italiano hanno sorvolato.

A partire dal 2005, per la prima volta il ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha messo a disposizione specifiche risorse per corsi di lingua destinati agli immigrati, circa 21 milioni di euro, ripartiti tra le regioni ed erogati sulla base di accordi di programma. Dal 2011, poi, sono arrivati anche i finanziamenti del Fondo europeo per l’integrazione, Fei, e oltre ai Centri territoriali permanenti sono stati coinvolti enti locali e cooperative sociali. Ma è con la legge 94 del 2009 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”) che vengono introdotti obblighi precisi a carico dell’immigrato con riferimento specifico alla conoscenza dell’italiano. Il rilascio del permesso di lungo periodo, si legge, è «subordinato al superamento (…) di un test di conoscenza della lingua italiana, le cui modalità di svolgimento sono determinate con decreto del ministro dell’Interno, di concerto con il ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca». Successivamente è stata anche indicata l’attestazione (non la certificazione) del livello di conoscenza della lingua richiesto: il livello A2 del quadro comune di riferimento europeo per la conoscenza delle lingue.

Lo stesso livello è richiesto per il cosiddetto Accordo di integrazione. Dal marzo 2012, tutti i cittadini stranieri sopra i 16 anni che si presentano allo sportello unico per la domanda di permesso di soggiorno devono stipulare un Accordo di integrazione con lo Stato. L’accordo è articolato per crediti, e impegna lo straniero a frequentare un corso di formazione civica di dieci ore entro tre mesi dal suo arrivo e ad acquisire la conoscenza base della lingua italiana – livello A2, ma solo parlato – entro due anni. All’inizio vengono assegnati 16 crediti, ma è necessario arrivare fino a 30 entro due anni per essere in regola con l’Accordo. I crediti aumentano attraverso l’acquisizione di determinate conoscenze (la lingua italiana, la cultura civica ecc.) e lo svolgimento di determinate attività come i percorsi di formazione professionale, il conseguimento di titoli di studio, l’iscrizione al servizio sanitario nazionale, la stipula di un contratto d’affitto di una casa ecc. Un mese prima della scadenza dei due anni, lo sportello unico per l’immigrazione della Prefettura avvia la verifica, tramite la documentazione presentata dall’immigrato o con il test gratuito che si svolge nei Ctp.

3. I test di verifica

test per la verifica della conoscenza della lingua somministrati dalla Prefettura si svolgono nei Centri territoriali permanenti. Ogni ultimo mercoledì del mese, in viale Campania a Milano i corridoi si riempiono di immigrati di ogni nazionalità. Per ogni sessione di test sono iscritte 80 persone, con due turni da 40. «Di questi mediamente se ne presentano tra 30 e i 35», dice Maria Teresa Mauri. «Sui 70 circa che si presentano a ogni sessione, non superano il test 12-15 persone». 

Si tratta, spiega, «di test ultra facilitati rispetto a quelli che noi oggi somministriamo già alla fine del nostro corso di A2 per l’attestazione del livello di lingua», spiega Mauri. E a vedere qualche copia, la differenza è evidente. «Sono una sorta di doppioni di quelli che già facciamo, ma gli insegnanti sono obbligati a somministrarli fuori dall’orario di lavoro e quindi per farlo vengono pagati di più, con i fondi del ministero dell’Interno». Il test della Prefettura prevede la comprensione di testi brevi, frasi ed espressioni di uso frequente. Con una piccola prova di ascolto in cui, ad esempio, bisogna capire in quale posto si svolge il dialogo. E una prova di scrittura con una traccia tipo: “Lascia un messaggio a tua moglie/tuo marito prima di uscire”. Quello somministrato dal Ctp è meno elementare e prevede maggiori difficoltà sia nella comprensione dei testi sia nella scrittura.

Nelle stesse aule del Ctp si tengono anche le lezioni di formazione civica richiesta per l’Accordo di integrazione, con la proiezione di un video fornito dalla Prefettura stessa e la presentazione di alcune slide. «Lo scorso anno, in preda all’emergenza, il video non ci è stato fornito», racconta la coordinatrice dei corsi, «così abbiamo usato quello dell’Emilia Romagna. Quest’anno ci hanno fornito il video, ma è lo stesso dell’anno scorso, con gli stessi riferimenti territoriali all’Emilia Romagna e non alla Lombardia. Cosa che crea confusione negli immigrati che lo guardano».

La formazione civica degli immigrati consiste nella proiezione di cinque ore di video, tutte di seguito, «che non resisteresti nemmeno se fosse il miglior film del mondo», commenta Mauri. Per ogni ora c’è un argomento, dall’abitare alla scuola, fino alla sanità. Nelle altre cinque ore vengono presentate delle slide in diverse lingue con l’aiuto di una mediatrice culturale. Due soli blocchi di lezioni da cinque ore l’una, indirizzati spesso a persone non scolarizzate e che invece avrebbero bisogno di più tempo per capire quello di cui si parla (l’accordo quadro prevede che le lezioni si svolgano «nella lingua indicata dallo straniero o se ciò non è possibile, inglese, francese, spagnola, araba, cinese, albanese, russa o filippina, secondo la preferenza indicata dall’interessato»). Anche perché anche queste ore di lezione vengono pagate extra orario di servizio, ma con i fondi del Fondo europeo per l’integrazione.

«La modalità di gestione delle 10 ore di formazione civica previste dalla normativa», dice Mauri, «dovrebbe avvenire all’interno di un percorso di alfabetizzazione in lingua italiana che permetta una reale integrazione linguistica e sociale. Avrebbe senso l’impiego dei video in lingua originale dilazionato nel tempo e non in un’unica soluzione della durata di cinque ore». Il punto è: davvero con questi corsi e questi test facilitati si persegue l’integrazione degli immigrati o sono solo una «copertura di facciata» che dovrebbe invece essere valorizzata? 

4. Noi e gli altri Paesi europei

«L’A2 è il livello minimo di competenza linguistica per condurre un’esistenza libera e dignitosa nel nostro Paese», risponde Ennio Codini, docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università Cattolica di Milano, tra gli autori del tredicesimo rapporto dell’Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità della Lombardia. «Anzi, è probabilmente inferiore, se si pensa che, ad esempio, anche solo per lavori mediamente qualificati in Germania o nel Regno Unito si richiede allo straniero almeno il livello B2. Un atteggiamento poco esigente, al più vessatorio solo sul piano burocratico, figlio dell’idea di un’integrazione dell’immigrato comunque limitata a ruoli sociali subalterni. Il tema-problema reale è quello di avere un’offerta formativa pubblica che per le sue caratteristiche sia capace di convertire per il migrante quello che potrebbe essere un peso in un’opportunità».

Non solo. «Con una circolare ministeriale», continua Codini, «è stato stabilito che i familiari che arrivano per il ricongiungimento familiare non siano obbligati al raggiungimento del livello A2. Il che sembra una contraddizione, oltre che una mancanza di serietà: prima mi assumo un impegno, poi non più. Per coloro che arrivano per il ricongiungimento, si dovrebbe richiedere invece la stessa attestazione dell’A2 senza però prevedere la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui il test non venga superato. Il ragionamento invece è che le verifiche costano e dove non c’è sanzione non vale la pena che ci sia la verifica. All’immigrato viene da chiedersi: chi me lo ha fatto fare? L’immigrato ha già una vita complicata, il test di italiano è una cosa che pesa, e questa circolare trasmette la sensazione che allo Stato non interessi in realtà granché dell’integrazione. Io avrei chiesto comunque il documento dell’attestazione del raggiungimento della conoscenza della lingua, ma non avrei applicato la sanzione. Questo avrebbe trasmesso di sicuro maggiore serietà».

Ma c’è un’altra critica che Codini fa. «Il livello A2 è un livello elementare, può andar bene solo come livello iniziale. Molti degli immigrati che arrivano in Italia non sanno una parola di italiano. Nel primo biennio chiedere l’A2 è giusto. Ma poi bisogna chiedere di più. Non si può chiedere lo stesso livello anche per il permesso a lungo termine, senza prevedere un percorso di crescita dell’immigrato. In Germania ad esempio per il lavoro di cura domestica viene chiesto il B1, non è poco ma è il minimo per parlare con l’anziano, dire quante gocce deve prendere ogni giorno, quali medicine ecc.». E anche «per l’acquisizione della cittadinanza bisognerebbe dare peso alla lingua. Un cittadino è tale se, ad esempio, comprende quello che banalmente si sta dicendo in un talk show politico ad esempio. Altrimenti che cittadino è? L’A2 può essere buona come idea di partenza, prevedendo poi un percorso in cui si raggiungono il B1 e il B2. Con il livello elementare A2 mi prendono a lavorare in un cantiere, ma già non mi prendono come capocantiere. Sono confinato a raccogliere i pomodori o al massimo a lavorare in una stalla. Già la commessa non posso farla, perché devo parlare con il cliente».

Visto che abbiamo voluto cominciare a considerare la lingua fondamentale per l’integrazione, insomma, facciamolo sul serio. «La Germania ha un meccanismo simile al nostro», dice Codini, «ma lo applica meglio. Per il B1 in Germania fanno dalle 600 alle 900 ore di lezione per quelli che hanno maggiori difficoltà». Da noi si fanno 80 ore per l’A2 e il B1, 100 per l’A1. «E in Germania i lavoratori oltre un certo livello di reddito contribuiscono al costo». Da noi no. Le risorse sono dal ministero del Lavoro e dell’Interno, e stanno anche per finire, e dai fondi europei. «Non ci sono le risorse per andare a livelli più alti e fare più ore di lezione. Le alternative sono o che arrivino altri fondi europei o che si chieda un contributo agli stranieri che lavorano con un reddito superiore a un tot. Però si potrebbe chiedere anche ai datori di lavoro. Si assume che un datore di lavoro abbia interesse a che i propri dipendenti conoscano la lingua. In questo senso lo Stato sociale potrebbe chiedere un contributo del 30-40 per cento».

E in effetti la richiesta per raggiungere livelli più alti dell’A2 pare che ci sia. In un Paese come l’Italia in cui l’immigrazione si avvia ormai verso la stabilizzazione, «è aumentata la richiesta di corsi successivi al B1», dice Maria Teresa Mauri. «Alcuni arrivano addirittura fino al livello C1. In questo caso cambia la motivazione: non è più solo sopravvivenza, ma voglia di fare lavori più qualificati, interagire meglio con gli altri, comunicare con i propri figli, diventare veri e propri cittadini».

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