La primavera araba, un fumetto sbagliato

La primavera araba, un fumetto sbagliato

Un problema di etichetta

Prima di cominciare a parlare di La Primavera Araba, di Jean-Pierre Filiu e Cyrille Pomes, fumetto in uscita l’11 aprile per i tipi di Bao Publishing, occorre fare un passo indietro e partire dalla storia di un’etichetta, e dalle problematiche che si è portata dietro.

Lo sappiamo, una delle tendenze del giornalismo è l’invenzione e l’uso — tra l’altro sempre più massiccio — di etichette che semplificano e sintetizzano la realtà per renderla più facile da comprendere e da divulgare. Non è per forza una cosa negativa, eppure, come tutti gli atti di semplificazione, è da maneggiare con estrema cura. I pericoli dietro l’angolo hanno tanti nomi, i più comuni e pericolisi dei quali sono banalizzazione, generalizzazione e pretestualità. Uno degli esempi più recenti e celebri di questo normalissimo fenomeno è, per l’appunto, quella di “primavera araba”.

Malgrado la totalità dei commentatori e dei lettori la associno a quella serie discontinua di eventi che comincia il 17 dicembre del 2010 in una piazza di Sid Bouzid, in Tunisia, l’etichetta “primavera araba” si è iniziata a usare nel 2005. Una delle prime attestazione del suo uso la ritroviamo in un articolo critico pubblicato da Le Monde Diplomatique nel numero di luglio 2005, firmato Gilbert Achcar e intitolato Chances et aléas du printemps arabe.

Nei mesi precedenti erano accadute un po’ di cose: l’11 novembre del 2004 era morto Arafat, il 30 gennaio del 2005 la popolazione irachena aveva partecipato massicciamente alle prime elezioni libere del dopo Saddam, infine, il 14 febbraio del 2005, Rafic Hariri, l’allora presidente libanese, fu assassinato a Beirut, probabilmente — ma il processo non ha mai portato a nulla — su mandato siriano. Gli equilibri già instabili del Medio Oriente sembravano compromessi. Non pochi cominciarono a sperare in una possibile ondata di rivolte popolari e di richieste di democratizzazione e di laicizzazione delle società a base musulmana del Maghreb e del Medio Oriente. 

Dovettero passare cinque anni prima che l’etichetta venne ripresa. Era il 6 gennaio del 2011, due giorni prima era morto Mohamed Bouazizi, figura simbolo della rivolta tunisina contro Ben Ali, e Marc Lynch, sul Foreign Policy, pubblicò un articolo dal titolo Obama’s Arab Spring?. Nel corso dei mesi successivi, altre rivolte scoppiarono tra il Maghreb, il Medio Oriente e il Golfo Persico.

Contemporaneamente, attorno a questa etichetta giornalistica iniziò a nascere un dibattito: quanto era legittimo racchiudere sotto la stessa etichetta fatti che stavano accadendo in regioni e società che, seppur affini per molti aspetti, erano anche molto differenti tra loro? Quanta complessità andava perduta? Quanto senso aveva? Personalmente ho sempre considerato controproducente l’uso di questa etichetta, rea di semplificare una serie di fenomeni molto complessi, ma, soprattutto, di ricondurli a un denominatore comune, un denominatore che c’è fino a un certo punto, o meglio, che c’è stato fino a un certo punto.  

Un fumetto sbagliato

Mi spiace quando mi capita di parlare male di un fumetto, un po’ come se parlassi male dell’intera categoria, tanto che spesso, quando rimango deluso da qualche lettura, evito di scriverne. Spesso, però, non sempre. In questo caso ho deciso di scriverne, sia perchè mi aspettavo di leggere un prodotto diverso e molto valido (come ormai mi ha abituato la Bao), sia perchè le falle del fumetto in questione sono molto gravi. E non parlo dei troppi errori di traduzione, né dei troppi refusi, né di quello scivolone madornale dell’autore — un professore del prestigioso Institut d’études politiques de Paris —  che gli ha fatto datare l’11 settembre al 2011. 

No, parlo proprio di una falla che sta a monte, che sta con forte probabilità nella visione distorta, ma molto francese e intellettualmente molto disonesta, di quel che sta accadendo nel mondo arabo negli ultimi anni.

Le distorsioni di cui parlo determinano tre tendenze molto gravi, almeno secondo i miei parametri di giudizio.

La prima è la tendenza all’agiografia, alla mitizzazione del movimento popolare semplicemente in quanto movimento popolare, mitizzazione che fa sparire tutti gli elementi di complessità che in realtà permeano profondamente qualsiasi accadimento storico-sociale di questa portata.

La seconda, strettamente conseguente alla prima, è la tendenza alla polarizzazione, un atteggiamento nello sguardo dell’osservatore — in particolare occidentale — che fa sparire ogni sfumatura in favore di un bianco e nero completamente discontinuo e che, prevedendo sempre e comunque la necessità che, in un campo di battaglia, davanti a un cattivo ci debba essere un buono, rischia di infilarci in un ginepraio pieno di paradossi e contraddizioni.

La terza è la tendenza all’autoassoluzione, alla marginalizzazione del ruolo occidentale, francese in primis, in alcune delle vicende narrate nel corso del fumetto.

Con tre tare del genere, parlare di un argomento così complesso e spinoso diventa difficile, e un po’ pericoloso l’esito della lettura: chi conosce l’argomento ha l’impressione di essere davanti a un libretto di propaganda, chi non ne sa nulla rischia di farsi un’idea completamente errata di ciò che sta succedendo.

Scrivere un fumetto di 100 pagine su una storia non ancora chiusa è certamente complicato, e ben venga semplificare la questione per renderla digeribile al lettore digiuno di cronache mediorientali. Ma una cosa è semplificare, un’altra è distorcere, enfatizzando alcune posizioni e alcune storie e tacendone altre. E se dietro a un’operazione del genere c’è la mano di uno storico allora sono tre le ipotesi che mi vengono in mente: o dietro questa operazione c’è un vizio di sciatteria, c’è della malafede o c’è un misto di entrambe, ipotesi che forse è la più probabile.

Sta di fatto che non riesco a spiegarmi altrimenti l’assenza totale di una menzione — approfondimento sarebbe stato forse chieder troppo — del ruolo che hanno avuto le forze internazionali, della complessa dinamica sciiti-sunniti, del ruolo dell’Iran, di Hezbollah o Al Qaeda, o ancora, dell’atteggiamento quanto meno connivente con il potere di organizzazioni come la FIA (Federazione Internazionale Automobilistica) in Bahrein e di più di un ministro della Repubblica Francese con l’ex dittatore tunisino Ben Ali.

Insomma, mi spiace dirlo, ma questo è proprio un fumetto sbagliato.

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