Lavoro: niente sarà più come prima

Lavoro: niente sarà più come prima

La guerra del lavoro è iniziata e niente sarà più come prima. Toni apocalittici, ma anche grandi speranze. Walter Passerini ha appena terminato la stesura del suo ultimo libro, La Guerra del lavoro, appunto, scritto a quattro mani con il giornalista Ignazio Marino (Bur, 2014). Lo incontriamo al Bistrot del tempo ritrovato, a Milano, un luogo che di apocalittico non ha proprio nulla. Anzi. Ma che si addice allo spirito del volume e dei suoi autori. Perché se una guerra è scoppiata — e feroce — non è detto che tutto sia perduto. È il momento, toccato il fondo, di fermarsi, ritrovarsi e ripartire.

Come? Colmando il vuoto di visioni che ci circonda, sostituendo alle ansiolitiche agende dalle venticinque priorità, poche buone idee di futuro. 

DI QUALE GUERRA STIAMO PARLANDO

«È una guerra che mette in luce le debolezze di ciascuno, il vuoto di competenze, l’incertezza delle identità, la fragilità della lungimiranza delle visioni. Una guerra sotterranea degli italiani contro i tedeschi, incolpati di volere un’Europa made in Germany, dei tedeschi contro i greci e gli spagnoli. Una guerra degli europei contro gli americani e degli americani contro i cinesi. Una guerra di tutti contro tutti, che nei singoli Paesi diventa una guerra dei giovani contro gli adulti, dei dipendenti privati contro quelli pubblici, dei lavoratori autonomi contro i liberi professionisti, dei giovani professionisti contro i professionisti affermati e così via».

Innazitutto una guerra globale. Questa: 

È una guerra dei tutelati contro i precari. Che si intuisce anche facendo un veloce confonto tra i vocabolari che separano lavoratori spesso vicini di scrivania: maternità, agibilità sindacale, malattia, ferie, liquidazione, contributi pensionistici descrivono il mondo dei tutelati. Licenziamento facile, mutui negati, mancanza di equo compenso, pagamenti non sempre regolari sono le parole chiave dei precari. 

È una guerra tra generazioni, che si contendono quote di spesa sociale. Giovani che pagano conseguenze di politiche previdenziali del passato, costretti a leggere che mentre il Documento di Economia e Finanza destina loro 1,5 miliardi di euro per il biennio 2014-2015 (questo il fondo stanziato per Il Piano nazionale della Garanzia Giovani, «per fronteggiare la situazione del mercato del lavoro giovanile»), lo Stato continua a pagare le baby pensioni a italiani che hanno salutato i colleghi a 35, 40, 45 anni, con una spesa che – a partire dalla loro introduzione nel 1973 – ha raggiunto i 150 miliardi di euro di costo.  

I giovani leggono che il Def introduce una nuova borsa di studio per chi consegue «risultati scolastici eccellenti»: 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013 e 2014 e 7 milioni per il 2015. Ma sanno che il peso della spesa previdenziale sul Pil è del 17,28% (2012) e ogni anno lo Stato destina 270.720 milioni di euro per prestazioni pensionistiche.

 

Il conflitto tra generazioni non si risolve, spiegano gli autori del volume, togliendo ai vecchi per dare ai giovani. Ma creando nuovi posti di lavoro regolare, introducendo quindi nuove contribuzioni utili a pagare le spese della previdenza. Bando a liberisti e keynesiani. Passerini è convinto che il lavoro non sia né solo frutto del libero mercato, né opera dello Stato. Dipende piuttosto dalla capacità di intraprendenza della classe dirigente di una Nazione. Tanto da essere convinto che la condizione indispensabile per diventare leader in futuro sarà proprio la capacità di creare nuova occupazione. E in questo l’Italia può essere alla pari degli altri Paesi, perché, per dirla con l’economista Enrico Moretti, «quello che conta non è il luogo fisico ma l’ingegno, l’intraprendenza, la capacità di innovazione».

È infine, una guerra in cui niente sarà più come prima. Come racconta questo scambio di battute con Walter Passerini:

Quali solchi profondi ha tracciato questa crisi economica? Cosa non ci sarà più in futuro?
Prima di tutto, nessuno è più al sicuro: è una guerra in cui non è ammessa la diserzione, è una lotta dove l’unica arma buona è quella della competenza. Vince chi crea una filiera positiva tra studio, ricerca e creazione di valore.

Creare valore in modo nuovo, come si fa?
Significa un cambio radicale del rapporto tra formazione e industria. Se finora abbiamo ragionato per filiere verticali di sapere, cioé settoriali, oggi occorre una conoscenza trasversale, fatta di una mescolanza di culture scientifiche e umanistiche. Dobbiamo dire addio alla cultura dell’industria, che limita il campo e focalizza, per lasciare spazio alla cultura della società dei servizi, che richiede una connettività continua, che unisce mondi lontani, in una formazione che continua a tutte le età. 

Secondo solco?
Il futuro non è più il lavoro dipendente. Non significa dire che è morto il posto fisso, ma il mix tra lavoro fisso e fluttuante cambierà. Dobbiamo parlare di lavoro intraprendente. E dire, come piace a me, che il lavoro dipendente è “un crimine contro l’umanità”: dipendere dagli altri non è cosa umana, adulta. Si può essere collaboratori di un’azienda, ma con un coinvolgimento personale forte che non si limiti all’esecuzione di ordini. Intraprendenza è prendersi delle responsabilità.

Come ci si arriva?
Si parte, ancora, dalla formazione. La nostra scuola è ancora modellata secondo lo schema della “società industriale”. Insegna ad essere esecutori passivi. A limitare il campo e focalizzare. La scuola deve diventare il luogo in cui si impara l’intraprendenza.

Terzo
Non più diritto al lavoro, ma diritto ai servizi per il lavoro, efficaci ed efficienti. Nel Paese delle raccomandazioni, servono servizi – pubblici e privati – che accompagnino il lavoratore in tutte le fasi della sua vita. Devono essere capaci di indirizzare, guidare, formare, consigliare. Così che non si debba più essere costretti a chiedere al parroco, all’amico di famiglia, al mafioso. Devono essere servizi validi per il lavoratore e anche per le imprese.
 

EDIPO, NARCISO, TELEMACO. ITALIA IN CERCA DI FUTURO

«Il fattore produttivo essenziale oggi sono le persone, le loro idee».

Partiamo da un dato: a settembre 2013 erano 25 i miliardi rimasti a Bruxelles, soldi destinati a progetti di sviluppo nel Bel Paese e rimasti lassù. «È il segnale più evidente dell’incertezza nera in cui viviamo, della mancanza di un immaginario di futuro e quindi di progetti concreti», afferma Passerini. Eppure, proprio ora che i primi segnali di ripresa si lasciano scorgere – con un Pil 2014 atteso allo 0,7% dopo la contrazione 2013 dell’1,8% (Istat) – è importante non lasciarsi sfuggire l’occasione di ripresa. Che si ottiene solo creando nuovi posti di lavoro regolare. 

Come si è persa questa mancanza di visione?
La causa è da cercare nel mancato ricambio generazionale italiano. Nel rapporto distorto tra padri e figli. È quello che mi piace descrivere attraverso tre figure mitologiche che ho visto succedersi in questi anni. Edipo uccide il padre per poter riemergere. Il ’68, la mia generazione, ha ucciso i padri per emergere. Oggi quegli adulti sono delusi, depressi, insoddisfatti e senza capacità di immaginare un Paese diverso dall’essere la patria della manifattura, della produzione di auto, lavatrici e magliette, come negli anni del boom.

Chi sono i giovani del presente?
Questo è il tempo dei narcisi, persi dentro l’autocontemplazione di sé e dei propri consumi. Sono i giovani che in questi vent’anni hanno consumato il grasso prodotto dai padri, giovani vittime delle distrazioni di massa che non insegnano a migliorare le cose, o a produrre. Figli di paternalismi e iperprotezioni, cui nessuno ha mai chiesto di prendersi delle responsabilità e loro, naturalmente ci hanno sguazzato. Ma tra gli edipi e i narcisi, sta emergendo oggi una nuova figura di giovane. La troviamo nei Paesi emergenti e non ancora in Occidente: ragazzi che spingono, studiano, si muovono, hanno fame. Sono i ragazzi Telemaco».

Cosa contraddistingue i Telemaco?
Una nuova relazione con i padri, in un nuovo patto generazionale. Telemaco attende a Itaca il ritorno di Ulisse perché riconosce in lui il padre che sa cosa fare e cui chiedere consiglio. Significa pensare a un ricambio guidato e controllato, in una nuova riconciliazione tra generazioni. Significa anche lasciare spazio ai giovani, a partire per esempio dalle realtà territoriali, dalla politica fatta nei comuni.

Significa avere il coraggio — da imprenditori — di investire sui giovani, dimenticando strategie usa e getta che impazzano negli anni della crisi:

«In momenti di rilancio e di ripresa dell’economia, alle imprese non conviene sbilanciare troppo il mix delle assunzioni dalla parte dei contratti a termine; anzi, le imprese in questo momento hanno bisogno di persone preparate e competenti, di figure critiche e preferiscono investire su candidati più motivati e coinvolti  piuttosto che adottare miopi politiche all’insegna del mordi e fuggi»