È sfumato il tentativo della casa farmaceutica americana Pfizer di comprare AstraZeneca, rivale britannica soprattutto sul fronte dei farmaci anti-tumorali. Non è servito neanche l’ultimo, e definitivo, rialzo, che ha portato l’offerta a 69,3 miliardi di sterline (85 miliardi di euro), o 55 sterline ad azione. Il 2 maggio la prima proposta era stata di 50 sterline ad azione. Nella mattina di lunedì 19 maggio il rifiuto del board di AstraZeneca, perché l’offerta è stata giudicata troppo bassa e non corrispondente al valore del gruppo. Pressioni sono arrivate anche dall’opinione pubblica britannica, preoccupata dai possibili tagli ai posti di lavoro e alla ricerca. Il titolo di Astrazeneca è sceso di oltre il 12% dopo il rifiuto dell’offerta.
Sfuma dunque quella che sarebbe stata la maggiore delle tre operazioni di acquisizioni e fusioni avvenute nell’ultimo mese tra giganti farmaceutici. M&A che avrebbero avuto anche effetti negativi: riproponiamo la nostra analisi del 26 aprile.
Per Big pharma quelli appena passati sono stati giorni movimentati. Nel giro di qualche settimana diversi accordi tra le maggiori industrie del farmaco hanno fatto intuire che gli scenari del settore farmaceutico sono destinati a grossi cambiamenti. Molti dei quali già in atto da tempo. Lo scorso 22 aprile Novartis ha annunciato di aver concluso un accordo con la società britannica GlaxoSmithKline (Gsk) per un valore di 25 miliardi di dollari (18 miliardi di euro). L’accordo prevede l’acquisizione da parte di Novartis, dell’intero settore oncologico della Gsk, per un valore di 14,5 miliardi di dollari (che potrebbero diventare 16, come Linkiesta ha scritto nei giorni scorsi, in caso di successo di una nuova terapia antitumorale in sperimentazione); e la cessione dell’unità vaccini di Novartis (eccetto quelli antinfluenzali) alla Gsk, per un valore di 7,1 miliardi di euro (5,1 miliardi di euro). Altra novità annunciata dal colosso svizzero è la creazione di una joint-venture fra le due società, per la vendita di farmaci da banco (con ricavi attesi di 11 miliardi di dollari all’anno) di cui Novartis deterrà il 36,5%; e la cessione del comparto veterinario alla Eli Lilly, industria farmaceutica statunitense, per 5,4 miliardi di dollari (3,9 miliardi di euro).
La logica che sta dietro il disegno di questi nuovi equilibri è semplice: i costi e i tempi della ricerca sono aumentati, i brevetti durano troppo poco per permettere alle industrie di recuperare quanto investito in ricerca, e l’entrata dei generici nel mercato non ha che peggiorato la situazione. Con la conseguenza che oggi più che mai le grandi multinazionali del farmaco preferiscono concentrarsi su pochi settori in cui sono leader, piuttosto che competere su tutti. Con i pro e i contro che ne conseguono. «I costi della ricerca sono diventati ormai insostenibili anche per le imprese del farmaco — spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria — se fino a qualche anno fa per sviluppare un farmaco erano necessari 300 milioni di euro, oggi ruotiamo intorno a un miliardo e 500 milioni di euro. L’avvento delle biotecnologie poi non ha fatto che dilatare tempi e costi: questi prodotti hanno dei costi di sviluppo molto più importanti rispetto ai prodotti di sintesi chimica, mentre la sperimentazione clinica, soprattutto di fase 2 e 3, prevede che si devano arruolare un numero di pazienti molto importante che richiede tempi lunghi. Inoltre per sviluppare un farmaco servono circa 10-12 anni e solo un farmaco su 10mila arriva sul mercato, quindi solo attraverso quest’unico sopravvissuto si devono ammortizzare i costi. Considerando che il brevetto dura 20 anni dal momento in cui lo si deposita, e 10 anni si perdono solo con la fase di sviluppo, poi ne rimangono altri 8-10 per sfruttare la copertura brevettuale e ammortizzare i fondi investiti in ricerca e sviluppo. Oggi più che mai si pone pesatamente il problema della sostenibilità della ricerca, perché quando il farmaco arriva sul mercato c’è poco tempo per rientrare nei costi».
Proprio per questo motivo da diverso tempo ormai le aziende farmaceutiche stanno cercando di fare “network”. Se prima ogni azienda si occupava di ogni fase della ricerca, dalla sintesi alla sperimentazione clinica e lo faceva in diversi settori, oggi invece si cerca di dividersi i compiti e più che competere di entrare in sinergia. «Ci sono piccole imprese che si occupano della prima fase della ricerca, cioè lo screening della molecole, evitando alle ditte più grandi di dover scandagliare tra centinaia di migliaia di molecole» racconta Scaccabarozzi. «Nel momento in cui una molecola diventa promettente, la piccola impresa biotecnologica o farmaceutica, che non può sostenere dei costi ingenti, cede la molecola a Big Pharma che investe pesantemente nello sviluppo. Si crea una rete. Oltre che in questa direzione le singole industrie stanno facendo network per sinergizzare le attività. Per questo ognuna si sta specializzando verso 4-5 rami importanti della propria ricerca, lasciando agli altri la possibilità di andare verso altri filoni di ricerca, evitando così anche di competere fra di loro. Io penso che sia una cosa positiva, perché darà alle industrie la possibilità di studiare meglio ogni settore e trovare soluzioni alternative, anziché concentrarsi tutti in un’unica direzione. Prima poteva capitare di trovare diverse aziende impegnate a competere in un’unica area affollata, trascurando magari altri settori ugualmente importanti. Oggi invece ogni azienda può coprire un’area diversa, e questo può portare ad ampliare il panorama delle scoperte».
Che la direzione presa da Big pharma ormai sia questa lo dimostrano anche altre operazioni annunciate di recente. La Valeant Pharmaceuticals International spinta da Bill Ackman, miliardario che detiene il 9,7% del capitale di Allergan, avrebbe lanciato un’offerta dal valore di oltre 50 miliardi di dollari per acquisire la stessa Allergan, azienda americana produttrice del Botox. Mentre la Pfizer avrebbe mostrato un certo interesse per l’acquisizione di AstraZeneca, per un giro di affari di 100 miliardi di dollari. Offerta che quest’ultima per il momento avrebbe però respinto. Ma la nuova strategia di Big Pharma è davvero vantaggiosa? Non proprio. Secondo quanto riportato da Businessweek, in realtà questi accorpamenti non giovano a ricerca e sviluppo, perché viene tagliato il numero di persone attive in un determinato campo e diminuisce la concorrenza scientifica e di mercato. Le fusioni tra grosse aziende quindi possono portare a un aumento dei prezzi dei farmaci, dovuto alla riduzione della concorrenza, mentre il consolidamento di poche aziende, che decidono come plasmare il mercato, può ostacolare anche l’accesso dei farmaci nei Paesi poveri. Sempre secondo Businessweek, inoltre occorre diverso tempo prima che il settore torni a essere produttivo dopo queste fusioni tra società.
Scaccabarozzi però continua a spiegare come alcune strategie ormai siano necessarie per la sopravvivenza delle industrie del farmaco, come lo è il riassorbimento dei fondi investiti in ricerca e sviluppo una volta immesso il farmaco sul mercato. «In questi decenni sono stati fatti tanti passi avanti nel campo farmaceutico. Basta pensare ai farmaci per l’Aids, l’epatite C o anche solo agli antiacidi, gli inibitori della pompa, che hanno ridotto a zero gli interventi per ulcera gastraduodenale. Ma per andare avanti ci vuole qualcuno che investa in ricerca e sviluppo, e che dopo ovviamente rientri nei costi. Altrimenti nessuno lo farebbe, e forse oggi saremmo ancora fermi alla penicillina. Noi sosteniamo delle grosse spese durante la fase di sviluppo e di sperimentazione, per fornire il farmaco, gestire lo studio e sostenere le spese del paziente. E senza il mantenimento della copertura brevettuale che permette alle aziende di riassorbire i costi della ricerca non si andrebbe da nessuna parte. Quando scade il brevetto, poi, il farmaco può essere copiato e un’azienda di generici può farlo spendendo 200-300mila euro attraverso uno studio di bio-equivalenza. Va da sé che l’azienda del generico, che non ha investito in ricerca e sviluppo, non ha bisogno di rientrare nei costi, e può ridurre il prezzo notevolmente».
Un problema tipicamente italiano è invece quello della burocrazia troppo lunga che ci fa restare sempre un passo indietro rispetto gli altri Paesi. Così che quando in Italia è arrivata l’ultima autorizzazione dell’ultimo comitato etico per il protocollo di sperimentazione, e si può finalmente partire con la sperimentazione, gli altri Paesi hanno già fatto tutto l’arruolamento e ormai per noi è tardi. «Ci vorrebbe una regolamentazione più snella – conclude Scaccabarozzi – perché l’arruolamento è competitivo e bisogna fare in fretta: i costi sono tanti, e se si perde un anno si perde un anno di brevetto. Un po’ stiamo migliorando perché stiamo cercando di ridurre i comitati etici nel nostro Paese, ma siamo ancora molto lontani dall’ideale. Basterebbero poche regole di semplificazione burocratiche per avere anche nel nostro Paese un aumento degli investimenti in ricerca, ed evitare che questi vadano fuori, nei Paesi emergenti, oggi tenuti molto in considerazione. Noi possiamo ancora puntare su una ricerca qualitativamente elevata, per questo è importante che in Italia la ricerca venga agevolata e non denigrata: c’è la possibilità di attrare ingenti investimenti in ricerca e sviluppo, fattore positivo sia per l’economia del Paese, che per i pazienti stessi, che possono essere curati prima con farmaci più innovativi».