Levante è il nome d’arte di Claudia Lagona, una ragazza dal fascino magnetico e dal talento innegabile che da Palagonia a Torino si è portata in uno zaino una storia piena di dolore e di domande e l’ha fatta diventare musica. L’11 marzo è uscito il suo album, Manuale distruzione, un lavoro sincero e trasparente come lei, tredici brani che contengono molta vita e che avevano bisogno di essere liberati e sparsi nell’aria. L’abbiamo incontrata e ci siamo fatti raccontare da lei la sua storia e come l’ha trasformata in canzoni.
Una siciliana a Torino, come e quando ti sei trasferita lì?
Noi siamo tutti siciliani da generazioni ma la famiglia di mia mamma si è trasferita a Torino negli anni ’60 per lavoro. Successivamente i miei sono tornati a vivere in Sicilia ma intorno al ’96 è mancato mio papà e pochi anni dopo, nel 2001, io e mia mamma abbiamo fatto le valigie, preso la chitarrina e siamo tornate a Torino. Da lì è nata tutta la mia nuova vita, il mio ricominciare, sono stati anni di casa e scuola, scuola e casa, in cui il massimo svago era partecipare a manifestazioni musicali. Poi ho intrapreso il classico percorso da adolescente che fa musica, ho scritto tantissimo, ho suonato tantissimo, mi sono diplomata e poi dopo il diploma ho scoperto una città underground piena di cantautori.
Che ricordi hai della tua adolescenza e post adolescenza? E cosa ti ha dato musicalmente Torino?
All’inizio a livello musicale molto poco perché non avevo amici o compagni di scuola con le mie stesse passioni. Dopo il diploma ho scoperto una Torino molto simile a me che veramente non immaginavo, è lì che ho conosciuto Daniele Celona, Alberto Bianco e altri musicisti e questo mi ha stimolato sempre di più a trovare la mia strada musicale.
Per molto tempo io sono stata legata alla mia amata Consoli e avevo questo modo di scrivere, molto simile a lei. Ma grazie a queste nuove conoscenze mi sono staccata da quello stile e ho iniziato a scrivere in un modo meno “siculo”, qualcosa di più fresco rispetto alle cose che facevo e che somigliavano molto alle sue. Non però dire se nella mia musica ci sono influenze torinesi, non sono bravissima ad analizzare me stessa, dovrei chiedere a qualcun altro di farlo (ride)…
Quand’è che hai iniziato a suonare?
A undici anni ho iniziato a scrivere testi, prima ancora di iniziare a suonare la chitarra, avevo però la necessità di musicare il tutto e quindi a dodici anni l’ho imbracciata e da lì non mi sono più fermata. Il primo provino ufficiale l’ho fatto a tredici anni a Roma con Teddy Reno, il marito di Rita Pavone, che mi esaminò per un festival ma anche lì non fui fortunata e non fui presa.
Beh, comunque una piccola bambina prodigio.
Oddio, forse sì, un po’ sì. Credo che il talento sia necessario ma il tutto è stato anche dettato da un percorso personale faticoso, doloroso, da mille domande e dal fatto che l’unico modo che avevo per sfogarmi in quel momento era la musica, ho canalizzato tutte le energie in questa cosa.
Il tuo nuovo album si chiama Manuale distruzione. Credi che per imparare ci sia bisogno di distruggere?
Io credo che per crescere sia necessario in qualche modo farsi male. Per me questo disco, Manuale distruzione, è un percorso musicale e personale di crescita, in cui racconto di cose che mi hanno fatto male. Ho pensato che associare la parola “Manuale” a “Distruzione” levando l’apostrofo fosse perfetto perché riassumeva perfettamente il senso che questo disco ha per me: la crescita dolorosa. Credo allo stesso tempo che non esista crescita senza dolore o senza sforzi c’è sempre della fatica e visto che per me questo disco rappresenta il diventare grande non potevo trovare titolo più perfetto di così, un gioco di parole azzeccato.
In copertina dell’album ci sei tu vestita da sposa, quasi una nobody’s wife. Mi parli della scelta di questa foto.
Questa foto ha una storia assurda, in realtà la copertina doveva essere completamente un’altra, una sorta di collage di altre foto. Ad un certo punto però la Sicilia mi ha chiamata, stavo molto male e a gennaio ho deciso di tornare perché ne sentivo il bisogno. Cercando fra le cose di casa, aprendo cassetti e armadi ho trovato il vestito da sposa di mia madre e con stupore l’ho indossato, sembravo una pazza e temevo che qualcuno mi vedesse vestita da sposa l’11 di gennaio. Mi sono fatta degli autoscatti appoggiata a questa parete distrutta e consunta del terrazzo di casa, alla fine mi sono fatta fare questo scatto da mia sorella che mi ha ritratto in questa posa solenne contro le mura e con indosso quest’abito. Questa immagine per me rappresenta esattamente l’inizio e la fine: l’abito da sposa di mia madre è l’inizio, è quello che è stato, è l’amore, siamo i miei fratelli ed io, la vita. Le pareti invece sono la fine, sono essenzialmente le mura della casa in cui è mancato mio papà. Ho veramente chiuso il cerchio con quell’immagine. È stata una fortuna immensa per me trovare la foto giusta senza doversi accontentare, quello è uno scatto fatto con uno smartphone, è un’immagine vera e sincera ed è come il disco.
Il tuo singolo, Alfonso, è diventato un vero e proprio tormentone grazie anche a un testo ironico e irriverente e all’hashtag #chevitadimerda. Te lo aspettavi? Ti ha cambiata?
No, non me lo aspettavo assolutamente. Quando ho scritto Alfonso era un periodo del cavolo, un periodo frustrante, lavoravo in un bar e non sapevo cosa fare della mia vita e non mi divertivo in giro ed è per questo che mi è venuta in mente la metafora di questa festa in cui tutti hanno il loro cocktail e il vestito adatto ed io invece sono quella fuori luogo ed in imbarazzo. Questo era il mio modo per dire: cosa faccio io adesso? Quando ho scritto questo ritornello pensavo che nessuna radio me lo avrebbe mai passato però ho pensato allo stesso tempo che a me divertiva moltissimo. Non vedevo l’ora di registrarla e appena l’ho fatto è stata scelta come primo singolo e da lì è partito il percorso che fanno tutti i musicisti indipendenti, esce singolo, si fa il video ma mai avrei potuto immaginare che questa canzone sarebbe arrivata a Radio Deejay e che se ne sarebbero innamorati.
Un forte successo radiofonico ma anche su Youtube e in rete…
Sì, esatto. La mia reazione però è stata strana perché sono rimasta troppo con i piedi per terra. Lavoravo ancora e mentre ero al bar che servivo caffè e cappuccini la gente mi diceva che stavano parlando di me a Deejay chiama Italia o che stavo passando su Radio Kiss Kiss ed io, nel frattempo, non mi rendevo conto di nulla. Stava crescendo questo nome, questa canzone e rimanevo lì nell’angolo a vedere che cosa accadeva. Mi sono resa conto, per la prima volta, che forse qualcosa stava cambiando quando, prima di aprire il concerto di Max Gazzè, lo vidi fare il suo soundcheck e lì realizzai le dimensioni della cosa. Comunque da allora, a parte il fatto che non lavoro più al bar, poco altro è cambiato, mi dedico alla musica allo stesso modo, sono sicuramente più rilassata, perché ho più tempo per farlo, però la passione non è cambiata, non è diverso l’impegno, la mia attitudine nei confronti della gente.
L’album si apre con la presa di coscienza della caduta, in Non stai bene canti «la gravità impone una vita a terra» ma in questo disco c’è anche la consapevolezza di essere forti , in Duri come me scrivi «Duri come me a morire per vivere» , che storia hanno in comune questi due pezzi?
Forse il coraggio di rialzarsi è quello che hanno in comune queste due canzoni. In realtà il soggetto dei due pezzi è differente, il primo l’ho scritto per una mia amica che si crogiolava nel proprio dolore e mi è venuta in mente questa frase «si sa che non stai bene, si sa che vuoi stare male», è quasi una sorta di rimprovero. Il secondo pezzo è un incoraggiamento, l’ho scritta in uno di quei momenti in cui ti butti giù perché ti rendi conto che la musica è un casino, che è uno di quei sogni irrealizzabili, che quando tenti di spiegare alla gente che vuoi fare quello di mestiere ti domandano sempre dov’è il lavoro vero. In duri come me io mi ripeto «stringere i denti finché ne avrò», mi dico di non lasciarmi abbattere, di provarci fino alla fine, anche se fosse necessario sbattere mille volte contro mille muri.
Memo invece parla della distruzione di un amore e lascia una sensazione di amarezza, come se non fossimo più in grado di costruire.
Sì, Memo nasce dalla fine di un amore ma ha dentro quelle sensazione che provi quando trovi le lettere, quelle che vi eravate scritti con i vari «ti amerò per sempre, ti amerò tantissimo», sono i segni che ti fanno domandare dove siano andate a finire tutte quelle cose.
Quando finisce un amore, per quel che mi riguarda, la domanda che mi pongo, per quanto infantile, è dove vada a finire tutto l’amore di una storia d’amore. Memo è questo, è la ricerca ossessiva di una risposta a quella domanda, l’unico posto dove possiamo trovarla è nei ricordi, nei Memo appunto.
Le margherite sono salve ha dentro di se quasi una sensazione di lutto, di perdita.
Esattamente, è il racconto della sensazione della perdita di mio padre, ci sono queste strofe in cui descrivo quello che è stato il passato e nel bridge e nei ritornelli c’è una sorta di avvicinamento strano, un po’ trascendentale. È un vedersi, seppur distanti e contemporaneamente chiedersi com’è possibile tutto questo («se cielo e terra non posson toccarsi») e poi c’è il ritornello dove grido che farei veramente qualsiasi cosa per lui e infine una sorta di rassicurazione nel dirgli che comunque «le margherite sono salve». Le margherite erano i suoi fiori preferiti e quindi ho pensato che potessimo essere noi le margherite, i suoi figli. In ogni disco che faccio scrive sempre un pezzo per mio padre.
In Farfalle inciampi nel tipo sbagliato?
(ride) No, forse anche sbagliato ma in questo caso parlo proprio del carpe diem, quando ti dici che anche se non sai se è amore nel dubbio è meglio lanciarsi. Quello che succede, succede al massimo ci si pente domani. Farfalle è quella sensazione di scombussolamento gastrico, più una sensazione che una malattia, è una canzone molto diretta, molto chiara.
È un album abbastanza triste ma sono pezzi, ad esempio Cuori d’artificio, che hanno dentro rabbia, passione, forza e dolore.
Cuori d’artificio è una canzone molto positiva, in tanti la traducono come una storia d’amore ma in realtà è il modo in cui esplode un cuore indipendentemente dal sentimento che c’è dietro, è la forza delle nostre emozioni, è quando riusciamo a vivere le cose in modo forte come se ci esplodesse il cuore. Manuale distruzione è sicuramente un album molto malinconico, c’è da aspettarselo, visto il titolo (ride).
Ci sono dei riferimenti nell’album e nel tuo stile ad alcune cantanti internazionali, vedi Florence and the Machine, Feist e altre, tu però rimani e sei anche molto italiana.
Assolutamente, io sono legatissima al rock italiano anni ’90.
Sembri dare molta importanza ai testi ma a livello di arrangiamenti e di suono come immaginavi l’album? Sei contenta del risultato?
Quando ho scritto Manuale distruzione non avevo assolutamente soldi, che continuo a non avere (ride), la cosa più semplice da fare in quella situazione era arrangiare un disco in modo molto casereccio e casalingo, facendo sentire anche i rumori della casa, la caffettiera, le macchine sotto con la finestra aperta e altri rumori. Mi sarebbe piaciuto farlo così sia per una questione economica sia per una questione di gusto perché mi sembrava una soluzione sincera. Lo immaginavo un disco molto acustico con molte chitarre acustiche, molta voce e tanti cori poi però mi sono dovuta affidare a qualcuno, ad un produttore, in particolare ad Alberto Bianco. Lui, grazie anche alla sua esperienza è riuscito a fare qualcosa di più, sempre low budget ma più di quello che avevo in mente. Le sue proposte sono state completamente differenti però mi sono piaciute un sacco, tanto che gli ho lasciato fare molto in libertà. Lui stava seguendo comunque la mia linea ma gli ho lasciato carta bianca sotto molti aspetti e il risultato è stato eccellente perché ha avuto rispetto dei miei brani, delle mie idee, del mio gusto, si è calato nella parte, ha capito cosa volevo. Ha dato anche molto ritmo a delle canzoni che non lo avevano, che erano un po’ monotone, un po’ tristi come ad esempio Le margherite sono salve che era molto più cupa, è un brano comunque con tanti accordi in minore e lui l’ha un po’ ritmata con questa chitarra acustica che da un senso di movimento molto veloce. Ha modificato delle cose ma ha dato più carattere, ed è quello che deve fare un produttore artistico.
Oltre che un produttore lui è anche un cantautore come te, c’è un suo pezzo nell’album e in un altro pezzo duettate. Com’è stato lavorare con un altro musicista?
Beh sì, c’è un brano che ha scritto lui tanti anni fa e che è Nuvola, che ho semplicemente interpretato. Alberto è un caro amico, siamo diventati ancora più amici durante questa collaborazione. È stato bello ed è stato anche molto strano, mi sono dovuta confrontare con una personalità molto fredda a un modo di fare diverso da mio che sono molto fisica, molto chiacchierona. Sono dovuta entrare dentro questa persona, dentro quest’uomo un po’ indecifrabile e capire che quando faceva determinate cose era per un motivo piuttosto che per un altro. Da qui ho scoperto un mondo, ho conosciuto un uomo molto sensibile che ha dato cuore e anima a questo disco e grazie a questa collaborazione ho trovato in lui anche un amico.
Ho letto una frase su di te su Facebook che mi ha molto colpita e che è stata scritta dopo il tuo live a Roma da Pier dei Velvet: «Secondo me non ha ancora capito come gestire la quantità di talento che ha, è un complimento, quando lo capirà definitivamente volerà».
Non lo so, io durante il live sono molto emotiva, sono istintiva e anche un po’ teatrale perché sono comunque sicilianuzza (ride) ed è nella mia anima questa cosa. Quella frase mi ha lasciata con delle domande, non so che cosa sia arrivato a lui e perché abbia pensato che non sono consapevole del mio talento. Sicuramente io non lo sono, lo ammetto, perché quando parlo con la gente dopo i concerti e mi dicono che non posso immaginare l’energia che gli ho trasmesso io non mi rendo conto, per me è una cosa talmente normale che la farei davanti a tre persone come davanti a centomila e non mi sembra di fare nulla di strano (ride).
Parlando del live, oltre ad Alberto Bianco come band hai scelto di avere con te i Nadàr Solo, mi parli della scelta di questa formazione.
Io non lavoro mai con persone che non amo o con persone che non mi sono amiche e ho avuto la fortuna di conoscerli prima come amici e poi di scoprire che erano anche degli ottimi musicisti. Quando si è trattato di formare la band loro si sono subito offerti ma io sapevo che sarebbe stato difficile mettere insieme le esigenze di tutti. Questa band infatti è formata da Daniele Celona, che è un cantautore torinese e ha i suoi progetti, da Alberto Bianco, cantautore anche lui con i suoi progetti e da i Nadàr Solo che sono una rock band torinese. L’idea di poter fare un tour e incastrare tutti le proprie date era come giocare a tetris e, infatti, si è rivelato così, anche se in questo momento ci stiamo riuscendo. È stata sicuramente una scelta azzeccata dal punto di vista emotivo, tecnico e artistico perché sono bravissimi, siamo cresciuti tantissimo insieme e il live è veramente bello, è esplosivo, la gente va via stupita di tutto questo rock, c’è moltissima energia e si avverte anche l’amicizia.
Ti faccio un’ultima domanda, come hai reagito all’esclusione da Sanremo?
Per me è stata una secchiata d’acqua gelida, perché tutti mi consideravano già su quel palco. Forse sarebbe anche stato troppo facile, io sicuramente ci speravo tantissimo. È un’idea che non è nata da me, è stata una proposta estiva del mio booking che mi ha invitata a provare e mi ha chiesto se avevo un pezzo adatto. Io un pezzo adatto ce l’avevo, era Sbadiglio e non appena l’hanno sentito sono impazziti tutti e abbiamo deciso di provarci. Da lì tra interviste e pronostici la cosa è diventata gigantesca e chiunque avrebbe scommesso su di me mentre io facevo corna e cornetti perché avevo paura che tutto quest’ottimismo mi portasse sfiga. E forse così è stato, perché poi alla fine non mi hanno presa. Ho reagito malissimo soprattutto per questo, per tutta quest’aspettativa su di me.
Ci riproverai?
Ci riproverò, sì. Non so bene quando ma lo farò perché è un palco che mi piace, al quale sono legata emotivamente perché siamo italiani e per quanto le scelte artistiche non siano, a volte, delle migliori, quello è un palco di cui dobbiamo andare ancora fieri in Italia perché di lì sono passati tantissimi grandi artisti e noi nuovi possiamo solo cercare di portare lì delle belle canzoni e di cambiare le cose.