Il barbiere di Siviglia è cinese. I quattro bohèmiens dell’opera di Puccini sono studenti in Erasmus. Violetta della Traviata «è una che la voleva dare». Parole di Gianmaria Aliverta, trentenne cantante lirico, regista e fondatore di “VoceAllOpera”, associazione che per il secondo anno di fila ha realizzato la sua stagione lirica al Rosetum, piccolo teatro della prima periferia milanese gestito dai frati francescani e inaugurato nel 1957 da Maria Callas in persona. Niente abiti da sera, smoking e papillon da prima della Scala, Gianmaria si presenta in felpa verde, jeans e sneakers. È appena stato in un mercatino di abiti usati a scegliere i vestiti di scena per L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, ultimo appuntamento in cartellone previsto per il 17 e il 18 maggio. L’opera esce così dai musei polverosi dei teatri di tradizione. «È viva, può essere riscritta, senza tutti quei clichè che le hanno attribuito», dice Gianmaria. «E per questo può arrivare anche ai ragazzi come me». Anche a costo di fare il cameriere sei mesi all’anno, perché a 30 anni in Italia di solo teatro non si vive.
Quando parla delle opere messe in scena lui ti canticchia pure alcuni versi, perché Gianmaria, in realtà, è prima cantante, e da poco ha preso anche il diploma di regista alla scuola “Paolo Grassi” di Milano. Si definisce un «innamorato dell’opera» e per questo, dice, «non sopporto il fatto che sia stata cementificata e relegata in un angolo, come se fosse solo musica per mio nonno e per qualche melochecca».
Melochecca?
Sì, le melochecche sono circa il 50% del pubblico italiano. Li riconosci quando si accendono le luci. Sono spettatori e spettatrici più o meno giovani che allungano tutte le vocali: “Braaavaa”, “Spleeendida”, “Diviiina” (Ride). Sono quelli che non tollerano che lo spettacolo si faccia in altro modo rispetto a una tradizione consolidata, in molti casi anche sbagliata.
Cioè?
Una parte del pubblico italiano, non solo quello anziano, è molto legato a tradizioni che nel 90% dei casi sono sbagliate, legate a specifiche rielaborazioni registiche, ma che nulla hanno a che fare con il testo originale. La traviata deve essere come quella fatta negli anni Cinquanta da Luchino Visconti. Per cui se togli i dettagli di Luchino Visconti, ti gridano: “Basta con queste cose, non è quello che Verdi voleva”. La traviata deve essere quella della Callas e basta. Il secondo atto, ad esempio, ormai viene identificato come atto all’aperto. Ma se prendi la partitura siamo a gennaio o febbraio in Francia nei dintorni di Parigi. Voglio vedere chi sono quei due cretini che stanno fuori a parlare mentre nevica, e se non nevica comunque muori ibernato. Luchino Visconti ha impostato quell’atto all’aperto, ma non è così per forza, nel testo è semplicemente scritto “casa di campagna”. Ma ormai, per il pubblico italiano imbalsamato, La traviata è solo quella. E anche i pochi giovani che vanno all’opera vogliono che sia quella che hanno visto i loro nonni.
Com’è invece la tua regia?
La mia non è una regia moderna. È la regia più classica e statica che esista, semplicemente riambientata. Quello che faccio è trasporre le date. I bohèmiens di Puccini sono studenti in Erasmus, Il barbiere di Siviglia era cinese, come i tanti barbieri che si vedono ora nelle nostre città. Questa è l’idea su cui si sviluppa tutto, ma da un punto di vista tecnico, di messa in scena, l’opera rimane statica. Il trovatore, che è diviso in quadri, con tutte le formule chiuse del post belcanto italiano, è e rimane così. Rimane così, anche da un punto di vista di azione. Ma il resto si può modificare. Non puoi sempre scimmiottare Luchino Visconti e la Callas. L’opera si può riscrivere, dobbiamo toglierle tutti quei clichè che le sono stati messi addosso. È questo il mio progetto. Le melochecche non le puoi togliere, ma puoi avvicinare i giovani facendogli capire che l’opera fa parte del nostro Dna. La Callas è morta, Visconti pure, Pavarotti pure. Mi piacerebbe lavorare con loro, ma non ci sono più.
Com’è che un ragazzo come te si avvicina all’opera mentre i tuoi coetanei a malapena sanno cos’è?
Mi sono avvicinato all’opera per caso. Mio padre è un melomane, andava in Scala da giovane ma non è che si parlasse di opera in casa. Un giorno ha portato a casa una musicassetta del Rigoletto con Pavarotti. L’ho ascoltata un po’, poi sono andato fuori a giocare. Qualche anno dopo, a 8 anni, mettendo a posto delle cassette mi è ricapitata in mano quella del Rigoletto. La ascoltai ed era proprio ferma sul La donna è mobile che io conoscevo in un’altra forma, quella che cantano i bambini. Dissi: “Però è carina anche così”. Era poi il momento del boom dei tre tenori. Per me “tenori” era il cognome e non riuscivo a capire come mai tre fratelli fossero nati in posti diversi del mondo! Da lì ho cominciato a interessarmi all’opera, è nata questa passione e ho detto “io devo fare quello”. Così ho cominciato a studiare canto, ho fatto la Civica scuola di Musica di Milano e poi il conservatorio prima a Trapani, per seguire la mia insegnante, poi a Bergamo. Fin dalle medie facevo cantare i miei compagni di scuola e per questo prendevo tante note disciplinari dai professori. Poi ho creato un coro di voci bianche, e due miei allievi sono anche entrati nel coro della Scala.
Come si insegna l’opera ai ragazzi?
Quando lavoravo come insegnante, facevo lezione al contrario. Chiedevo: “Secondo voi com’è Mozart?”. I ragazzi mi rispondevano: “È una persona cattiva, noiosa, vecchia, grassa”.Se tu pensi all’opera pensi a una cosa che piaceva a mio nonno, come fa a piacere a me. Oggi basta che passi poco tempo per reputare vecchia una canzone, qui parliamo di musica del Settecento che continua a essere eseguita ogni anno. È inutile che parti dal romanticismo eccetera eccetera. Se la mummifichiamo, è normale che l’opera non arrivi ai giovani. Uno immagina i cantanti lirici chissà come, in realtà siamo dei casinisti. È un’immagine bacchettona, tipicamente italiana. Basta pensare a quando è nata l’opera: si andava a prostitute, si giocava a carte, portavano i panini, mangiavano. Togliamoci questa immagine che a teatro bisogna andare con giacca e cravatta. La Scala ha un suo regolamento, certo, è un teatro che ha una storia e va bene. Ma va anche bene il tedesco che va con i sandali all’Arena di Verona. Non è che se sei vestito bene l’opera la senti meglio o valorizzi l’autore perché sei in giacca e cravatta. Io adoravo quando si faceva Wagner alla prima della Scala, e vedevo Valeria Marini che diceva “Mi piace molto quest’opera”. E io pensavo “ora ti senti sette ore di Wagner in tedesco, stai lì e paga”. Ecco, farei la prima per questi che spendono e spandono, e poi farei delle opere più giovani.
Ma tu che vivi a Milano, alla Scala ci vai?
Io alla Scala ci vado, ma vado a fare la coda in piedi per una giornata intera per avere il biglietto a 12 euro. Chi è che si può permettere un biglietto intero? E soprattutto quando entri in Scala non sai cosa vai a vedere. Spesso gli spettacoli non sono all’altezza. Si spendono i miliardi eppure si fanno errori grossolani. Il corista che ha un posto fisso alla Scala prende 2mila euro al mese e sciopera perché ha lavorato cinque minuti in più. Io per le scenografie riutilizzo anche i chiodi. Questo mi fa rabbia. Soprattutto se poi ti vengo a vedere e ti permetti di sbagliare gli attacchi. Lì mi incazzo, non ci sono mezzi termini.
Com’è la vita di chi vuole fare l’opera fuori dalla Scala?
Se stai fuori ti arrabatti, lavori tre mesi, non sai quando ti arriveranno i soldi e non puoi fare un altro lavoro contemporaneamente come cameriere o lavapiatti perché se devi andare tutti i giorni a fare le prove non hai tempo. E poi chiedimi di cantare dopo otto ore per i tavoli, rantolo a terra! Di solito ti chiamano per fare opere marchettone a 50-100 euro, ti dicono “questo è l’abito, questo è il testo, canta”. Fai centinaia di chilometri, vai su e giù e fai pure uno spettacolo sotto la mediocrità. Questo è quello che mi deprime di più, non c’è un’idea, si fa l’opera perché si deve fare l’opera. E poi i soldi non si sa quando li prendi e comunque ne prendi pochi.
Per quanto riguarda me, non riesco a campare del mio lavoro di regista. Faccio anche il corista, ma non arrivo a un tot mensile decente. Quindi per sei mesi all’anno faccio il cameriere. Sono appena tornato da Stresa, dove ho lavorato nel periodo di Pasqua, inscenando anche qualche flash mob lirico con i clienti. Il nostro lavoro è sempre a chiamata. Come corista, o sei stabile, cioè in una fondazione, o sei precario. È difficile che un giovane sia stabile, magari ti prendono in audizione ma ti mettono come 20esimo e quindi è difficile che lavori. In Arena di Verona ogni anno fai le audizioni come “aggiunto”, ma per diventare un “aggiunto stabile” devi passare l’audizione per tre anni consecutivi. Magari la passi per due anni, il terzo no e prendono qualcun altro. Mi fa ridere quando si parla di contratto a tempo indeterminato, noi siamo sempre sotto audizione. Il tenore Maxim Mironov, che è venuto a cantare al Rosetum a inizio aprile, qualche giorno dopo aver cantato per noi aveva un’audizione conoscitiva. E parliamo di Mironov!
Come scegli il cast per le tue opere?
Io vorrei fare una cosa non tanto improntata sui giovani, ma sulla meritocrazia. Non metto un limite d’età quando faccio le audizioni, per me un giovane può anche avere 40 anni. Vorrei affermare invece un criterio meritocratico, che in Italia esiste difficilmente. Prima di ogni stagione facciamo le audizioni con una giuria di massimi esperti, agenti lirici, cantanti, maestri, senza che nessuno sappia se c’è qualche allievo e chi è allievo di chi. Così scegliamo le persone che lavoreranno con noi. Sono persone che hanno già altre esperienze alle spalle, ma magari debuttano in quel ruolo per la prima volta. Ci sono ragazzi coreani, cinesi, polacchi, kazaki, non solo italiani.
Quanto vi costa produrre un’opera?
Ogni opera ci costa circa 10mila euro, compreso affitto del teatro, costumi, e costo del lavoro. Io investo i soldi che guadagno facendo il cameriere, il resto viene coperto dai biglietti. Non c’è nessun tipo di rimborso spese per me, gli scenografi e i costumisti. I cantanti hanno un piccolissimo rimborso spese, circa 150-200 euro per cinque giorni di lavoro. Per costumi e scenografie ci arrangiamo, utilizzando soprattutto materiali di riciclo. Per L’Elisir d’amore siamo andati a scegliere i costumi in un mercatino dell’usato di una associazione di volontariato che aiuta persone con disagi psichici e sociali. Per la Bohème, invece, abbiamo speso in tutto 500 euro per i costumi di 80 persone. Un miracolo. E per la scenografia sono andato io stesso a cercare bancali di legno nei cantieri, li ho tagliati e inchiodati. Alcuni, pochissimi, dicono: “Questa non è l’opera, l’opera deve essere fatta con i costumi dell’epoca”. Ora si cerca pure la perfezione fisica nei cantanti lirici. Ma se ho un cantante sovrappeso e lo metto in calzamaglia e gorgiera per fare Capuleti e Montecchi, hai idea di come starebbe male? E tutto questo per due cretini che mi dicono che l’opera si deve fare così. Ti butto lì con un abito dell’Ottocento e ho fatto l’Ottocento? No.
Perché avete scelto il teatro Rosetum?
La nostra idea è di portare l’opera laddove l’opera non c’è. L’associazione “VoceAllOpera” è nata nel 2011 a Nebbiuno, il mio paese natale sul Lago Maggiore. Il teatro più vicino è il Coccia di Novara, a 40 chilometri, o La Scala, a 60 chilometri. Con costi notevoli per gli spostamenti. Per questo abbiamo scelto un teatro alle porte della periferia di Milano, il Rosetum, inaugurato nel 1957 proprio da Maria Callas. Per giunta è un teatro dove sono nate molte voci importanti. Erano ormai molti anni che lì non si faceva la stagione lirica, con noi è rinata.
Chi viene a seguire le vostre opere?
Ci sono molti giovani, ma anche anziani. Le melochecche però non ci sono, perché non vengono nei teatrini di provincia. Quando è venuto Mironov, il teatro era mezzo vuoto. Ci saranno state 100 persone, l’80% venuto dalla Germania, dalla Polonia, dalla Russia, dal Giappone. C’è gente che preso l’aereo da Tokyo per venire nel teatro di provincia. Gli snob italiani avranno pensato: “Ma come? Mironov si abbassa a tanto?”. La risposta del pubblico, comunque, è stata positiva. Sia per il Barbiere sia per la Bohème il teatro era quasi tutto pieno. Da noi biglietti costano 26-28 euro al massimo per la poltronissima fino a scendere a sedici euro, mentre gli studenti della Paolo Grassi o del Conservatorio pagano 10 euro. I giovani dovrebbero entrare gratis a teatro, ma noi purtroppo non ce lo possiamo permettere ancora.
E dell’Elisir cosa ci puoi anticipare?
È la prima regia che ho fatto, nel 2008, quando c’era la campagna elettorale di Veltroni contro Berlusconi. È ambientata in una situazione che ricorda molto una campagna elettorale. Ora, combinazione ha voluto che andrà in scena a ridosso delle elezioni europee, a una settimana esatta. Ho chiesto di fare il cambio titolo e di mettere Bohème per ultima per evitare polemiche, ma non è stato possibile. Ho identificato i personaggi uno come Berlusconi uno come Veltroni, che oggi potrebbe essere benissimo Renzi. Ho lavorato più sulle affinità che sulle differenze. Una volta, quando vedevi Almirante e Occhetto, erano diversi dall’abbigliamento al modo di fare. Oggi non è così. Così ho riscritto l’opera. La Callas non c’è più, è la trama che parla. Io cambio solo un cappello, tolgo la polvere. Adina, ad esempio, avvenente ma opportunista, ricorda moltissimo una qualsiasi ragazza fuoriuscita da un reality televisivo. Sono molto legato a ciò che l’opera dice, lavoro molto sul testo, non alle didascalie. Se nella partitura è scritto che c’è un camino chi se ne frega, è una descrizione che a meno che non faccio l’opera ambientata in quell’epoca – quindi devo avere i costumi, il cucchiaino dell’epoca, i movimenti dell’epoca – non mi serve. È sul testo che vorrei che i melomani si soffermassero, non su come erano vestiti i protagonisti o su quali movimenti devono fare.
Dopo la messa in scena tornerai a fare il cameriere?
In teoria sì, ma quest’anno spero proprio di non dover fare di nuovo tutta la stagione estiva.