Mutoid, steampunk di Romagna

Mutoid, steampunk di Romagna

La Fogheraccia
Ricordate l’inizio del film Amarcord, quando la cittadinanza si riunisce intorno al grande falò che celebra la morte dell’inverno e l’inizio della primavera? Sarà stato il nostro sguardo lombardo annacquato dagli stereotipi, ma appena messo piede a Santarcangelo di Romagna l’impressione è stata quella di uno scenario felliniano, un’impressione destinata a rafforzarsi la sera, quando per puro caso ci è capitato di assistere a quella Fogheraccia di san Giuseppe con cui si apre il film.

Si tratta di un rito contadino tipico della Romagna, che affonda le sue radici nella cultura pagana. Intorno al 18 marzo, in prossimità dell’equinozio di primavera, nei diversi paesi, quartieri e parrocchie vengono accesi grandi fuochi bruciando vecchi mobili e scarti di potature. L’odore di fumo inizia a sentirsi dopo il tramonto, e a far da contorno alle pire più grandi c’è tutto l’armamentario della sagra di paese.

Santarcangelo non fa eccezione: ci sono le solite tavole da sagra (quelle arancioni), la cucina mobile, la piada e il Sangiovese, ma alcune peculiarità rendono la Fogheraccia in questione molto diversa da tutte le altre del litorale. La legna e le sterpaglie vengono trasportate e ammucchiate con una piccola ruspa, che durante l’operazione si lascia andare a qualche circonvoluzione un po’ spaccona, come la danza di una grossa e impacciata creatura meccanica.

Lo spiazzo s’infiamma, quattro figure bardate di tutto punto con armature ignifughe in stile Mad Max si esibiscono con lanciafiamme e bolas infuocate: la pira viene accesa, e la “segavecchia”, cioè il fantoccio che rappresenta l’inverno, bruciando mano a mano si rivela per una sorta di fenice metallica, ed ecco che il rito ancestrale dell’epoca dei druidi si contamina con il futuro distopico dei fumetti post apocalittici alla Ken il guerriero.

Foto di Andrea Miguel Micheloni

Mutoid Waste Company
Santarcangelo è un comune di circa 21mila abitanti, celebre per essere il probabile teatro della vicenda di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, nonché — e questo è certo — la città natale di Daniele Luttazzi. Ma, dai primi anni Novanta, agli edifici storici e alla buona cucina romagnola si è aggiunta come attrazione turistica Mutonia, il “villaggio degli scarti”, sede ormai permanente della Mutoid Waste Company, gruppo di scultori e performer di origine per lo più britannica, tedesca, australiana e canadese. Sono loro i riformatori della Fogheraccia.

La loro storia inizia in piena Inghilterra thatcheriana, con l’organizzazione di rave illegali caratterizzati da un eclettico assortimento musicale che andava dal dub reggae alla acid house. Nel 1989 però, dopo le molte incursioni della polizia nel loro luogo di ritrovo a King’s Cross (Londra), il gruppo abbandona il Regno Unito per stabilirsi in Germania, dove acquista sempre più notorietà grazie ai singolari adattamenti degli edifici abbandonati, sede dei rave party, e alle gigantesche sculture realizzate saldando rottami metallici.

Nel 1991 un gruppo di Mutoid si sposta a Santarcangelo per partecipare all’annuale Festival dei Teatri. Dovevano fermarsi pochi mesi, riparare i camion e ripartire. Ma la campagna romagnola li accoglie così bene che un’ex cava abbandonata sulla riva del fiume Marecchia diventa il loro campo base, senza però che essi rinuncino alle proprie abitudini da travellers, come abitare in roulotte e spostarsi per lunghi viaggi, tipicamente in direzione di festival artistici internazionali.

Nel corso degli anni il nucleo originario è cambiato: alcuni hanno preso strade diverse e altri si sono aggregati, tra cui alcuni italiani. Al momento vivono a Mutonia circa 20 famiglie. I bambini nati nel campo vanno a scuola a Santarcangelo e parlano inglese e italiano, con accenni di dialetto romagnolo. Gli adulti realizzano creazioni artistiche su commissione per festival e concerti ma anche oggetti di arredo per privati. Alcuni di loro lavorano nei dintorni come operai specializzati.

La doppia vita dei rifiuti
Girando per il campo si ha l’impressione che il lavoro proceda instancabile: ogni abitazione ha la sua officina e a tutte le ore del giorno c’è qualcuno intento a fabbricare le proprie creazioni. La dimensione collettiva è imprescindibile, ma l’impressione è che ogni individuo tenga molto a salvaguardare la propria autonomia: come sottolinea Silvia, «ognuno ha la sua casetta, la sua officina, il suo lavoro da fare»; ciò che accomuna realmente questo gruppo di persone, spiega Lucia, veneta, Mutoid dal ‘96, «è il fatto di riuscire a vivere in maniera anticonsumista recuperando appunto il waste, i rifiuti. I Mutoid sono tutte persone che amano molto la propria libertà e che apprezzano questo tipo di gravitazione un po’ anarchica».

Nonostante vivano in campagna «il loro immaginario è fortemente metropolitano», spiega Anna de Manincor, del collettivo di cineasti ZimmerFrei, che recentemente ha realizzato un documentario sulla comunità. E in effetti è esattamente questa l’ottica post industriale: il ritorno a una campagna, ma puntellata dai rottami di una civiltà fortemente meccanizzata, in cui ormai è il riuso a farla da padrone.

E per quanto riguarda la pratica del recupero, i Mutoid sono sempre stati all’avanguardia. Profondamente anticonsumisti, hanno fatto del riciclo dei materiali di scarto la propria poetica. È in questo modo che si attua la loro critica al capitalismo: dando nuova vita a oggetti che per altri hanno esaurito il proprio scopo. Ma non si limitano a riutilizzarli: li trasformano in qualcosa di bello, addirittura grandioso, come i sofisticati mecha che sputano fuoco al pari di divinità primordiali o di mostri avveniristici. Le stesse abitazioni, ricavate da pullman e vecchi camion, sono espressione della loro professionalità, che combina arte, artigianato e meccanica.

Suggestioni dall’altro mondo
Osservando le sculture di cui è disseminato il campo – robot, manichini, creature marine realizzate in metallo – i richiami al rapporto uomo-macchina e al concetto di androide si sprecano. Si pensa a film come Metropolis e Blade Runner (ma per essere meno raffinati, molti marchingegni fanno anche tanto Wild wild west) o a manga come Ghost in the Shell o Akira di Katsuhiro Otomo. Ma soltanto chi ha buona dimestichezza con i cult della tv britannica degli anni Settanta-Ottanta penserà a Blake’s 7, serie tv di fantascienza che racconta le avventure di un gruppo di ribelli (“i sette di Blake”) che lottano contro un impero galattico fascistoide.

È in questa serie, inedita in Italia, dall’immaginario suggestivo nonostante gli effetti speciali raffazzonati, che compare per la prima volta il termine mutoids, riferito a umani ricondizionati, a cui era stata rimossa la personalità – anche se per i nostri Mutoid il nome è più legato al concetto di mutazione, di trasformazione dei rifiuti in qualcosa di nuovo.

Tutto sembra portare al cyberpunk, eppure nell’immaginario Mutoid l’aspetto informatico è decisamente secondario; è piuttosto la meccanica – motori, ingranaggi, circuiti elettrici – a rappresentare il legame con la società industriale.

Lyle , la cui officina – per capirci – è sormontata da due grosse ali semoventi, viene dal Canada ed è un abilissimo meccanico, completamente autodidatta. «Non ho studiato meccanica», ci spiega «ma ho sempre costruito le cose per conto mio. Ai bambini di solito si compra la bicicletta, io la mia me la sono fabbricata». Anche questa dimensione artigianale è fondamentale: costruire ciò che serve con le proprie mani, che è una passione, sì, ma anche un manifesto politico: perché, come dice Silvia, «più cose fai con le tue mani e meno soddisfazione dai a questo sistema che ci sta un po’ stretto».

Lyle ci mostra la sua abitazione, che da molti ci era stata indicata come una delle più belle e particolari del campo. Ogni cosa è stata fabbricata da lui, come il grande letto realizzato con rottami d’auto, tanto lavorati e levigati da essere completamente irriconoscibili. Ci mostra anche la sua prima abitazione a Mutonia: una vecchia e minuscola cisterna in cui abitava con il suo cane e che ora è presidiata da una grande tigre di peluche un po’ malmessa, che gli è stata lasciata da qualcuno e che lui deve ancora decidere come impiegare. Non è inusuale: le persone, conoscendo i Mutoid, portano spesso al campo i propri oggetti vecchi perché vengano riutilizzati.

Foto di Andrea Miguel Micheloni

Mutoid must stay
Il Comune di Santarcangelo, da parte sua, ha sempre tollerato questo insediamento, accordandosi per alcune norme, come la tutela degli argini del fiume e la costruzione di fosse biologiche, tutte rigorosamente ottemperate.

Nonostante ciò nel luglio 2013 viene intimata la demolizione. Il tutto sembra essere partito da un vicino di casa, che ha fatto causa al comune per inadempienza e per aver tollerato una situazione abitativa anomala. Per fortuna, dopo una doppia sconfitta davanti al Tar, questo febbraio è arrivato un atto d’indirizzo firmato dal commissario straordinario Clemente Di Nuzzo che dovrebbe porre fine alla minaccia di sfratto.

D’altra parte i santarcangiolesi e persino le forze politiche cittadine erano concordi pressoché all’unanimità nel sostenere la presenza dei Mutoid a Santarcangelo. La campagna Mutoid must stay è partita immediatamente: undicimila persone hanno firmato la petizione “pro Mutoid”, più di 20.000 si sono iscritti alla pagina Facebook della comunità e il caso è approdato addirittura in Parlamento, tramite un’interrogazione presentata dagli eletti emiliano romagnoli.

Dopo quasi 25 anni i legami con la comunità emiliana che li aveva accolti con simpatia fin dall’inizio si sono profondamente radicati. E mentre alcuni Mutoid più celebri – come Joe Rush, considerato, insieme a Robin Cooke, il fondatore dell’internazionale creativa – si impegnano in progetti glamour come una campagna di sensibilizzazione sulla questione climatica insieme a Vivienne Westwood, il nucleo santarcangiolese, oltre ai festival internazionali, si dedica alla Fogheraccia, all’annuale Festival dei Teatri e a realizzare le luminarie natalizie di Santarcangelo – ovviamente fatte di rottami.

Anche il concertino della sagra di san Giuseppe vede la loro partecipazione, nella persona di Andy MacFarlane, Mutoid approdato alla chitarra rockabilly perché, per sua stessa ammissione, «come saldatore faceva schifo».

Andy è il frontman dei gruppi Hormonauts e The rock’n’roll kamikazes e se l’atmosfera di Mutonia non dovesse esservi ancora chiara, vi consiglio di guardare il video di My Sharona degli Hormonauts: è girato a Mutonia ed è un concentrato di ferro, fuoco e motociclette. È meglio di qualsiasi articolo.

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