Prendere un bicchiere d’acqua, salire le scale, firmare un documento, camminare. Sono tutte azioni che ogni giorno la maggior parte delle persone svolge senza neanche pensarci. Dietro però c’è un sofisticato sistema di neuroni, che attivano o spengono dei circuiti cerebrali, e alla fine permettono di eseguire il comando richiesto. Va da sé che se un gruppo di neuroni non funziona più, questo complicato gioco di equilibri si altera, e con esso i nostri movimenti. È quello che succede con il Morbo di Parkinson dove i neuroni dopaminergici (in grado cioè di produrre dopamina) degenerano fino a morire, e piano piano smettono di svolgere la propria funzione. Così, senza la loro controparte, sul movimento prevale l’effetto inibitorio, che si traduce nella difficoltà di compiere movimenti banali come camminare o afferrare qualcosa.
Dalla scoperta della malattia, descritta nel 1817 da James Parkinson nello studio An Assay on the Shaking Palsy, sono stati messi a punto diversi trattamenti per cercare di riequilibrare questo complesso sistema alla base del movimento. Dall’utilizzo di farmaci come la Levodopa o i dopamino agonisti, in grado di sostituirsi alla dopamina mancante e sopperire alla sua carenza ribilanciando il sistema; alla stimolazione celebrale profonda (Deep brain stimulation, DBS) una sorta di pacemaker che emette piccole quantità di energia elettrica in un area precisa del cervello modulando l’attività dei neuroni coinvolti nel movimento; fino ad arrivare al recentissimo cerotto intelligente realizzato da un gruppo di ricercatori coreani. Quest’ultimo, un dispositivo medico indossabile ancora in fase di sviluppo, è stato realizzato da un gruppo di ricercatori coreani e un giorno potrebbe aiutare le persone affette da Parkinson e sindromi correlate. Il prototipo, più sottile di un foglio di carta, si adatta perfettamente alla pelle ed è in grado di rilevare i tremori muscolari e rilasciare, in seguito, i farmaci contenuti all’interno di nanoparticelle. Il dispositivo inoltre dovrebbe essere in grado di registrare tutte queste attività, per poter poi essere esaminate da medici e ricercatori. Sempre a proposito di novità, dagli Stati Uniti arriva una nuova generazione di stimolatori cerebrali profondi – descritta in uno speciale su Nature – che sarebbero in grado, oltre che di emettere energia elettrica, di registrare i circuiti neuronali attivati nei pazienti affetti da morbo di Parkinson. Anche questo un giorno potrebbe servire ai ricercatori per studiare l’origine di questa malattia. Anche a Milano però, un gruppo di ricerca del Policlinico, guidato da Alberto Priori, sta sviluppando dei nuovi stimolatori “adattativi” che si adattano automaticamente alle condizioni del malato di Parkinson e riescono a gestire le fluttuazioni tipiche della fase tardiva della malattia, migliorando questo tipo di terapia.
I progressi scientifici, clinici, diagnostici e terapeutici in questi anni non sono certo mancati, ma purtroppo ancora non si è riusciti a individuare una cura in grado di bloccare la malattia né tantomeno a cosa sia dovuta. L’ipotesi più accreditata è che la malattia di Parkinson sia dovuta fondamentalmente a due fattori: ambientali e genetici. Un ruolo importante lo hanno le informazioni genetiche contenute nel nostro Dna, ma un altro da non sottovalutare lo ha l’ambiente, a cui siamo esposti durante la nostra vita, e lo stile di vita (come dieta e fumo). Alcuni studi per esempio hanno dimostrato che l’esposizione a metalli pesanti o pesticidi possa essere coinvolto nell’insorgenza di questa malattia. «Oggi comunque siamo in grado di eseguire diagnosi ad altissima probabilità di certezza – spiega a Linkiesta Gianni Pezzoli Direttore di Struttura complessa di Neurologia del Centro Parkinson e disturbi del Movimento degli Istituti Clinici di Perfezionamento (Icp) di Milano – attraverso una scintigrafia chiamata Dat-scan. L’Italia in questo è un’eccellenza, e va considerato che in Usa un esame simile costa 6mila euro mentre qui è gratis. Se l’esame è positivo poi si passa alla risonanza magnetica nucleare. La diagnosi precoce è utile per correggere da subito i sintomi del paziente e iniziare la terapia con dosaggi lievi di levodopa e dopamino-agonisti, in modo da migliorare la qualità della vita di queste persone. Se fossimo in grado di fare una diagnosi ancora più precoce, addirittura anteriore di qualche mese o anni all’esordio della malattia, potremmo magari produrre dei farmaci in grado di ridurre la progressione naturale della malattia. Farmaci di cui in questo momento purtroppo non disponiamo».
Oggi il morbo di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa al mondo, dopo l’Alzheimer. In Italia sono circa 200 mila le persone che ne sono affette, prevalentemente maschi sopra i 60 anni di età. Ormai si parla di una malattia cronica con un’aspettativa di vita alla diagnosi di circa 17-18 anni. «Non molto inferiore rispetto a una persona non affetta da Parkinson» continua Pezzoli. «Quello che conta di più ormai, soprattutto negli ultimi anni, è la qualità della vita del paziente, che può essere autonomo avere ancora la capacità di deambulare, uscire di casa e fare altre cose tipiche delle vita di un anziano e ultra-anziano, che nella malattia di Parkinson si perdono».
Oggi medicina e progresso permettono di trattare il paziente al meglio con i farmaci a disposizione, correggendo e riducendo moltissimo i sintomi per almeno 7-10 anni dalla diagnosi della malattia. I primi problemi, dovuti alla perdita di efficacia della terapia farmacologica, arrivano tra il 10 e 15 anni e soprattutto dopo i 15 anni. Nella fase tardiva i pazienti hanno bisogno di un approccio multidisciplinare che prenda in considerazione non solo l’aspetto neurologico, per essere curati al meglio. Per questo in genere è richiesto il coinvolgimento di infermieri, fisioterapisti, dieto terapisti, psicologi, e logopedisti, oltre che del neurologo.
Non ci sarebbe da stupirsi se in futuro la prevalenza del morbo di Parkinson come altre malattie legate alla vecchiaia aumentasse. «Semplicemente perché aumenterà l’età media della popolazione, e ci saranno sempre più anziani e un maggior numero di patologie. Forse aumenteranno, ma non in maniera esponenziale. E anzi – conclude Pezzoli – con tutte le terapie che utilizziamo oggi, anti ipertensive, statine, disaggreganti, scoagulanti, per il diabete, ecc. queste malattie si presentano di meno rispetto a quello che avremmo potuto prevedere».
Intanto la Michael J. Fox Foundation (Mjff ) lancia una nuova sfida e ricerca volontari sani e malati di Parkinson per aderire al progetto “Fox Trial Finder” e accelerare la ricerca scientifica su questa malattia (qui maggiori informazioni). Chi vorrà partecipare potrà scegliere tra compilare un questionario, donare un campione di sangue o tessuto, eseguire una batteria di test, o sperimentare un farmaco. Tutto in forma anonima. «L’intento della Mjff – spiega ad Adnkronos Maurizio Facheris, neurologo e direttore associato per i programmi di ricerca della Mjff – è triplice: capire la malattia, ossia come funziona e da che cosa si genera; trovare cure che possano modificare il decorso della malattia, fermandone o riducendone la progressione; migliorare la qualità di vita in pazienti portatori della malattia».