«La linea è disturbata. Ma, come immagini, L’Aquila è un cantiere a cielo aperto». Paolo Antonelli, 32 anni, è un cervello in fuga tornato alla sua terra, l’Abruzzo. Racconta la sua storia tra ruspe e gru che invadono il centro storico aquilano (oltre 300 i cantieri aperti), uscendo dal palazzo che ospita il Gran Sasso Science Institute, il nuovo centro di studi avanzati nato con i fondi della ricostruzione del terremoto del 6 aprile 2009, dove ora lavora come ricercatore. Dopo il dottorato in matematica all’Università del capoluogo abruzzese, un post-doc alla Cambridge University e la vita precaria dello scienziato tra Parigi e la Normale di Pisa, ha scelto il ritorno alle origini. «È stato tornare a casa, ma in un posto diverso».
Difficile riconoscere la città per chi l’ha vissuta prima del “Big one”. «È una realtà grottesca», commenta. Il 6 aprile 2009, esattamente cinque anni fa, alle 3.32 L’Aquila si trasformava in un cumulo di macerie. E sotto le rovine 309 vittime, tra cui 55 studenti.
Poi la ricostruzione, gli sciacalli, gli appalti truccati. Ma quando la terra trema in Italia nascono, per paradosso, anche i poli d’eccellenza più all’avanguardia, come già era accaduto in Friuli Venezia Giulia con la Sissa di Trieste. E a occuparsene scende in campo persino il New York Times.
Il Gran Sasso Science Institute è una scuola di dottorato internazionale con poco più di cinque mesi di vita. Le sue attività ruotano attorno al capoluogo abruzzese e mirano a trasformarlo nel primo centro d’eccellenza a sud di Pisa, in una capitale europea degli studi universitari e della ricerca scientifica. Nel novembre 2013 l’inaugurazione del primo anno accademico, avvenuta sotto l’egida dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, in un palazzo degli anni Trenta, ai margini del centro storico aquilano.
L’iniziativa è del professor Eugenio Coccia, al momento del sisma direttore dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dedicati alla ricerca nella fisica delle particelle. «La ricetta adottata è quella della Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste», spiega Coccia. Nata nel 1978 da un’idea del fisico Paolo Budinich, la Sissa è stata la prima istituzione in Italia a promuovere corsi post-laurea per conseguire dottorati di ricerca, quando ancora nel nostro Paese non c’era un vero e proprio programma formativo di PhD. Furono anche in quel caso i fondi per la ricostruzione stanziati per il sisma friulano del maggio 1976 a far decollare l’iniziativa. Ne uscì un modello, un polo d’eccellenza che in più di 30 anni ha sfornato oltre 1000 tra matematici, fisici e neuroscienziati. La Scuola conta ora circa 65 docenti, un centinaio di post-doc e 250 studenti di dottorato, e ha spostato la sua sede in un campus di oltre 100 mila metri quadrati a pochi chilometri dal centro di Trieste. Un sistema che funziona, puntando su 70 giovani di talento selezionati ogni anno e attraendo fondi pubblici e privati per coprire i numerosi progetti di ricerca. Con oltre 400 pubblicazioni ogni anno, sono poi le migliori riviste specializzate, da Nature a Science, ad accaparrarsi i papers.
«Abbiamo presentato il progetto all’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, e al ministero dell’Economia e delle finanze pochi mesi dopo la tragedia, nel luglio 2009. Dopo i danni ingenti all’università era necessario ripartire promuovendo un rilancio economico che partisse dalla conoscenza». Il via libera è arrivato subito. E anche i fondi. Che rientrano negli stanziamenti per la ricostruzione del territorio aquilano. «A disposizione 30 milioni di euro per i primi tre anni, in parte dal governo e in parte dai fondi regionali Fas per le aree sottoutilizzate». Un periodo di prova che si concluderà con la valutazione tecnica dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), a cui toccherà decidere se rendere la struttura permanente.
Al momento sono 36 gli studenti selezionati con i loro progetti di ricerca in fisica, matematica, informatica e studi urbani. Tra le centinaia di domande arrivate da tutto il mondo ben il 40 per cento degli ammessi è straniero, contro il 32 per cento della Sissa.
Un progetto con uno sguardo alla ristretta cerchia che popola la comunità scientifica globalizzata, ma anche al territorio. «L’intenzione è di promuovere progetti che abbiano una ricaduta diretta nella Regione e favorire l’insediamento di start-up dei nostri allievi in Abruzzo», rassicura Coccia.
E a rientrare nel progetto anche l’Università dell’Aquila, che dopo il terremoto del 2009 sta riportando gradualmente le sue attività a pieno regime. Nel comitato promotore del Gran Sasso Science Institute anche la rettrice dello storico polo abruzzese, Paola Inverardi, che non teme il confronto. «È un investimento importante, che coinvolge l’intero territorio. Non fa che ampliare il sistema formativo locale ed è uno dei pochi esempi positivi di fondi per lo sviluppo territoriale investiti nella conoscenza». Scongiurato il conflitto d’interesse, dunque. Anche grazie ai fondi ministeriali rivolti alla vecchia università. La cifra del Cipe, Comitato interministeriale per la programmazione economica, rivolta al recupero edilizio dell’Università è stata di 40 milioni di euro, da sommare ai 5 milioni che il Miur ha usato per l’affitto dei locali in sostituzione delle sedi accademiche danneggiate. «Fino al prossimo anno i nostri studenti non pagheranno le tasse universitarie. Abbiamo incentivato così, in una prima fase, le iscrizioni a seconde lauree, alzando così l’età media degli iscritti. Ora siamo invece entrati in una fase di normalizzazione».
Secondo Mattia Fonzi, attivista del “Comitato 3e32”, la vera sfida per il polo accademico aquilano sarà per il prossimo anno, quando il periodo di transizione «dopato dalle seconde lauree» verrà superato.
«Ben vengano iniziative come il Gran Sasso Science Institute, che mettono l’università e la ricerca al centro del processo di ricostruzione per creare eccellenza». Ma forse, per non costruire cattedrali nel deserto e superare il disordine urbanistico ci vuole qualcosa in più. «Nella città che si rialza, e lascia alle spalle l’emergenza abitativa, ora si devono affrontare le questioni economico-sociali irrisolte». A cominciare dalla mancanza di servizi, essenziali per attrarre i giovani studenti e promuovere la coesione sociale di un territorio ferito, dove il luogo di ritrovo dei ragazzi ora è un centro commerciale. «Gli aquilani guidano come schegge impazzite da mattina a sera, vivendo i disagi di una città dalla superficie immensa, che si è ritrovata una mattina di 5 anni fa senza centro storico».