Naoki spiega che in realtà se quando parla con qualcuno guarda da un’altra parte, lo fa solo per concentrarsi sulle parole dell’altra persona. Per indirizzare l’attenzione sul suono, anche a costo di perdere il contatto visivo: perché «le voci non si possono vedere ma io mi sforzo di ascoltare con tutti i miei sensi». Questa è solo una delle risposte che Naoki Higashida, 22enne giapponese, ci dà nel libro, Il motivo per cui salto, scritto ad appena 13 anni, per raccontare com’è il mondo visto con gli occhi di un ragazzo autistico. Perché su questa sindrome c’è ancora tanto da capire e studiare. Lo dimostra anche l’attività con cui prosegue la ricerca scientifica, che volta per volta aggiunge un tassello a questo complicato puzzle. Negli ultimi mesi tre lavori in particolare, pubblicati su importanti riviste, hanno attirato l’attenzione del mondo scientifico. In tutti i casi però più che di una ricaduta clinica diretta si parla di teoria, utile a capire un po’ meglio che cos’è l’autismo e da che cosa è determinato.
Il primo lavoro, pubblicato sul New England Journal of Medicine lo scorso marzo, spiega come questo disturbo abbia in realtà origine già durante la gravidanza. Un gruppo di ricercatori della San Diego School of Medicine e dell’Allen Institute for Brain Science a Seattle, esaminando i tessuti cerebrali di 22 bambini (11 sani e 11 affetti da autismo) deceduti tra i 2 e 15 anni, ha infatti scoperto come la struttura cerebrale che si forma prima della nascita, nei bambini affetti da autismo sia differente dai bambini sani. Nei primi mancherebbero inoltre marcatori genetici legati allo sviluppo cerebrale. Ragione per cui il disturbo sembra essere associato a un diverso sviluppo prenatale della corteccia cerebrale: come se il normale sviluppo di quest’area (coinvolta in importanti funzioni come il linguaggio e il movimento) che avviene durante la gravidanza, nei bambini autistici sia interrotto in anticipo. Risultati importanti che un giorno potrebbero aiutare i ricercatori a comprendere più nel dettaglio l’origine della sindrome. «Niente di nuovo in definitiva ma solo un’ulteriore conferma di quanto si sapeva già – spiega a Linkiesta Umberto Balottin, responsabile del Dipartimento di Clinica Neurologica e Psichiatrica dell’Età Evolutiva della Clinica Universitaria di Pavia – cioè che l’autismo è un disturbo con un’importantissima base biologica, per cui si può ormai affermare che il bambino nasce già con degli aspetti di compromissione neurologica. Questa base biologica, legata ad alterazione della struttura cerebrale, in parte è acquisita, e in parte è dovuta ad aspetti genetici. Ci sono molti dati a proposito ma anche molte incertezze da esplorare».
Benché si tratti di un lavoro teorico con scarse ricadute cliniche, non si può ignorare il suo valore nel dimostrare come «l’autismo sia un disturbo del neurosviluppo geneticamente determinato – come spiega a Linkiesta anche Stefano Vicari, responsabile dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù– teoria sostenuta ormai da gran parte della letteratura scientifica. Questo articolo mostra come già a livello embrionale, prima che il bambino nasca, si stabiliscano quelle reti neurali, quelle connessioni e caratteristiche, che sono tipiche del cervello del bambino autistico. E toglie terreno da sotto i piedi di chi sostiene che l’autismo sia un disturbo acquisito nel tempo, legato a fattori esterni come per esempio i vaccini». Come per tutti i disturbi genetici, però, anche i fattori ambientali sono determinanti perché questa alterazione genica si manifesti. «Ma quando parliamo di modulazione ambientale ci riferiamo all’esposizione, durante la gravidanza, di fattori di rischio che sembrano essere sospetti, come alcuni agenti inquinanti (gli idrocarburi per esempio) o l’età paterna che è uno dei principali fattori di rischio (tanto maggiore è l’età, tanto maggiore è il rischio)» sottolinea Vicari. «Questi sono solo alcuni esempi di fattori ambientali che intervengono direttamente sul feto e possono influenzare lo sviluppo del sistema nervoso ancora prima che avvenga la nascita».
Un altro studio pubblicato su Nature ha messo in evidenza una serie di nuove interazioni tra geni, coinvolti nella sindrome, di cui prima non si era a conoscenza. Una rete di proteine interconnesse tra di loro, corrispondenti a nuove varianti genetiche. Un quadro che un domani potrebbe essere usato dagli scienziati per comprendere meglio cosa vi è alla base di questo disturbo. «Si tratta di un altro studio dall’alto valore teorico – prosegue Vicari – che testimonia la grande variabilità che c’è all’interno dell’autismo. Noi sappiamo che ha una base genetica, ma fino a ora siamo riusciti a decifrare solo un 10-15% di connessioni diretta tra alterazione genica e autismo. Non esiste il gene dell’autismo ma ci sono molti geni che possono concorrere tra loro per determinarlo. In definitiva quello che emerge dallo studio è che esistono alterazioni geniche molto diverse tra loro che possono determinare in vario modo alterazioni a livello del sistema nervoso centrale e che poi nel complesso si esplicano nell’ autismo».
Il terzo lavoro infine, pubblicato su Brain, racconta come esistano delle differenze tra il cervello di bambini e ragazzi autistici di sesso diverso. Gli scienziati del Centro di ricerca sull’autismo dell’Università di Cambridge, attraverso l’imaging a risonanza magnetica, hanno esaminato la struttura del cervello di maschi e femmine affetti da autismo arrivando alla conclusione che la sindrome colpisce diverse aree nei due sessi. Uno dei risultati più originali di questo lavoro è che il cervello delle femmine autistiche tendeva ad assomigliare, dal punto di visto neurobiologico, a quello dei maschi. L’autismo colpisce l’1% della popolazione in prevalenza maschi, con la conseguenza che la maggior parte degli studi sono stati condotti su questo sesso, trascurando le femmine. Gli stessi autori del lavoro hanno affermato come questo risultato suggerisca che non dovremmo ciecamente supporre che tutto ciò che troviamo nei maschi affetti da autismo si possa applicare anche alle femmine. E il lavoro è anche un importante esempio di diversità all’interno dello spettro delal sindrome.
«L’autismo ha tra caratteristiche principali — come spiega Balottin — la prima è la difficoltà di entrare in relazione con gli altri, di guardare in volto ed ascoltare, entrare in contatto con l’altra persona; la seconda è l’incapacità di comunicare: il linguaggio sia verbale sia gestuale che mimico è compromesso nel suo contenuto comunicativo; la terza, che definisce l’autismo dal punto di vista cinico, sono delle modalità di comportamento assunte dal bambino, come la presenza di stereotipie, cioè movimenti ripetitivi, come danzare, saltare, dondolare il capo». Benché da questa sindrome non si possa guarire è importante anticipare i tempi di diagnosi e migliorare il trattamento, «perché più precocemente interveniamo più successo abbiamo nelle terapia, e si può modificare il decorso del disturbo ottenendo buoni risultati clinici. Che significa attenuare quei comportamenti che sono critici nei bambini autistici, e andare verso l’autonomia». Per questo diagnosti precoce e perfezionamento del trattamento sono in questo momento gli obiettivi principali della ricerca scientifica come affermano sia Vicari che Balottin.
Vicari racconta come il suo gruppo al momento sia impegnato soprattutto nell’individuazione precoce dei fattori di rischio per la diagnosi precoce: «Lo facciamo studiando i fratellini dei bambini autistici, che hanno una probabilità su dieci di essere autistici a loro volta. Sono una popolazione ad alto rischio, per cioè chiediamo ai genitori che stanno per avere un figlio e hanno già un bambino autistico di collaborare. Studiamo dei parametri che sembrano essere molto promettenti, come la qualità del pianto – nei bambini autistici e nei modelli animali la qualità del pianto è alterata – e lo sguardo, il contatto oculare. Questi parametri in futuro potrebbero aiutarci a individuare nei bambini neonati altri fattori di rischio per il disturbo».
L’altra area di ricerca invece si concentra sulle terapie (psicologiche e non farmacologiche). Non esiste una terapia che vada bene per tutti e soprattutto al momento i clinici non sanno quale terapia utilizzare in partenza con i diversi bambini. «Sappiamo che alcuni bambini rispondono a un trattamento piuttosto che a un altro e viceversa» conclude Vicari. «Quello che cerchiamo di capire con la ricerca è se si può individuare da prima chi risponderà a un trattamento e chi a un altro. Ci sono degli indici predittivi che mi dicono che Stefanio risponde più all’Aba a Mario al Denver quindi partiamo da quello, in base alla sensibilità del clinico, ma non abbiamo degli indici oggettivi. Quello che stiamo cercando di fare è oggettivare questo tipo di indicazioni, mettendo insieme tutti i dati raccolti finora, grazie anche alle collaborazione con centri sparsi in tutto il mondo, perché c’è bisogno di numeri grandi per ottenere risultati validi e scientificamente rilevanti».