Si pronuncia “ambiente”, ma si scrive ¿ambiente?, con il doppio punto interrogativo, alla spagnola: come se fosse tra parentesi uguali e diverse al tempo stesso. Questo doppio punto interrogativo, il primo capovolto rispetto al secondo, questa doppia presa di distanza sottolinea, anche graficamente, che quando si parla di ambiente sembra che tutto dipenda da qualcos’altro, tanto i suoi problemi, quanto le sue soluzioni.
Da un lato, infatti, si denunciano i danni che la tecnologia provoca all’ambiente, sottraendone le risorse, alterandone gli equilibri, impoverendone le energie vitali, mentre dall’altro lato, si auspica che la tecnologia possa riparare i guasti recati alla terra, all’acqua, all’aria, alla vita (o al fuoco, come dicevano gli antichi alchimisti).
Quello del clima non rappresenta che uno dei riferimenti possibili, forse oggi il più discusso perché il più vicino all’esperienza quotidiana, ma appena si apre la visuale all’intera problematica ambientale, si comincia a rilevare una persistente aggressività, che concerne sia i “comportamenti” dell’uomo che aggredisce il mondo con le proprie spesso improvvide capacità tecnologiche, sia i “comportamenti” del mondo, che a causa di una intrinseca instabilità, o delle ripetute “provocazioni” della tecnologia e delle sue dirompenti strategie operative (il dibattito che si è aperto in questi ultimi anni sul fracking, o fratturazione idraulica, ne rappresenta una eloquente testimonianza) sembra aggredire reattivamente l’uomo, travolgendone le difese naturali o artificiali.
A questa aggressività implicita nel concetto di ambiente fa riscontro la sistematica separazione di due soggetti contrapposti (l’uomo e il mondo, appunto), che prevale sulla più tradizionale e impersonale, ma di fatto più responsabile relazione tra un soggetto, l’uomo, e un oggetto, il mondo, di cui il soggetto non può assolutamente fare a meno, pena la propria stessa esistenza, sempre oscillante tra una vita pienamente vissuta e una mera sopravvivenza.
Nell’ambito di una soggettività in grado di ripensarsi al di là del politicamente corretto che vorrebbe contenerne gli eccessi identitari al tempo stesso annegandola nel melting pot delle identità concorrenti, l’affermazione di una soggettività autoreferenziale connessa a un’oggettività concepita come il limite di questa soggettività comporta una specifica responsabilità nei confronti dell’altro perché prevede una specifica responsabilità nei confronti del proprio. L’affermazione del soggetto assume un rilievo ambientalistico nella misura in cui tutto ciò che non è soggetto è oggetto e tutto ciò che è oggetto rientra nel campo di azione di un soggetto che, per perseguire in maniera coerente i propri interessi, per trasformare “ciò che sta intorno” in “circostanze” del suo farsi, deve necessariamente prendere in carico il sistema nel suo insieme.
Se dunque Slavoj Žižek predica con grande incisività di tornare al soggetto cartesiano che tenacemente riemerge dalle profondità del dubbio, si potrebbe predicare anche un ritorno all’oggetto, a quell’oggetto di cui il soggetto non può fare a meno proprio per affermarsi e per durare come soggetto. Il pensiero, in una chiave ancora una volta prettamente ambientale, corre alla nozione di scaffold. Lo scaffold rappresenta quella impalcatura, esterna o interna, che risulta indispensabile alla crescita della vita. Una nozione che può venire proiettata anche sul rapporto tra l’uomo e il mondo, questo ultimo inteso come la condizione perché il primo possa nascere e svilupparsi.
Rispondendo anche alla vecchia questione se nell’ontogenesi individuale (oltre che nella filogenesi collettiva, dove il ruolo dell’ambiente resta darwinianamente acclarato) risulti più importante il patrimonio genetico o il contesto in cui questo patrimonio prende forma, incarnandosi. Il fatto è che un progetto senza un programma attuativo non ha senso, come non ha senso una impalcatura che venga eretta senza che vi sia nulla da costruire, anche se oggi siamo purtroppo abituati a questi paradossi della gestione pubblica.
Da questo principio di merito (il richiamo al soggetto per coinvolgere l’oggetto) si possono trarre tre indicazioni di metodo con riferimento alle attività produttive e consumistiche, su cui vertono le più gravi accuse d’inquinamento ambientale e relazionale al tempo stesso.
La prima concerne una produzione e un consumo che, per quanto possibile, non comportino scarti di lavorazione e di confezione, restando così “fedeli” alle loro ragioni funzionali ed estetiche più di quanto non prevedano le attuali procedure progettuali. La seconda consiste nel trattare i rifiuti ineliminabili come delle risorse, per un riciclo sia materiale, sia energetico, rimettendo continuamente dentro quanto viene messo continuamente fuori. La terza chiama in causa una dimensione allargata della contestualità, in cui confluiscano dialetticamente locale e globale, per una sorta di “effetto farfalla” che non vada «dal Brasile al Texas», come suggeriva il matematico statunitense Edward Lorenz (1972), né «da Pechino a New York», come replicava il regista Steven Spielberg in Jurassic Park (1993), ma da qui a qui, dal soggetto al soggetto, compiendo il giro del mondo.