Ci risiamo. Arriva il bel tempo e ricominciano gli sbarchi di immigrati dall’altra parte del Mediterraneo. Con tragedie come quella di lunedì 12 maggio, quando a Sud di Lampedusa è affondata un’imbarcazione carica di oltre 400 persone. Il bilancio provvisorio dell’ennesima tragedia è di oltre 200 migranti salvati, 17 cadaveri e circa 200 dispersi. Solo il giorno prima Al Arabiya aveva diffuso la notizia di un altro naufragio al largo delle coste di Tripoli: almeno 40 le persone morte, tra cui donne e bambini. E sulle coste siciliane da circa un mese si susseguono senza sosta gli arrivi. I mezzi della Marina militare e delle Capitanerie di porto impegnati nell’operazione “Mare Nostrum” continuano a trasportare persone sulle sponde meridionali dell’Italia, ma non sempre arrivano in tempo. Tant’è che, compreso il ministro degli Esteri Federica Mogherini, in tanti dopo il naufragio hanno dichiarato che l’operazione «non basta, è come svuotare il mare con un cucchiaino». E nel pieno della campagna elettorale per le elezioni europee, che si chiami Berlusconi, Salvini, Alfano o Renzi, il mantra è lo stesso: «L’Europa deve fare di più». Salvo poi scoprire che, nell’accoglienza dei profughi, quali sono la maggior parte degli immigrati sbarcati, l’Italia è quella che fa di meno.
Il blog Fortress Europe, che tiene il conto dei morti sepolti nel “cimitero Mediterraneo”, dice che dal 1988 hanno perso la vita almeno 19.603 persone nel tentativo di raggiungere l’Europa, di cui 7.111 solo nel canale di Sicilia, tra Libia, Egitto, Tunisia, Malta e l’Italia. A queste vittime, in queste ore, se sono aggiunte altre, mentre magari qualche altro peschereccio salpa dalle coste di Bengasi. Dall’inizio dell’anno, secondo i dati del ministero dell’Interno resi noti a fine aprile, gli immigrati arrivati sulle coste italiane sono oltre 25mila, un numero già superiore rispetto ai 24.277 arrivati dal 1 agosto 2012 al 10 agosto 2013.
Con il mare calmo e l’arrivo della primavera, le speranze di arrivare vivi nella terra promessa europea aumentano. Ma non si tratta solo di meteo. «Assistiamo a un aumento di sbarchi rispetto agli anni precedenti (a eccezione del 2011 quando con le primavere arabe ci furono arrivi massicci sulle nostre coste, ndr)», spiega Stefano Torelli, ricercatore dell’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, «a causa dell’acuirsi delle crisi politiche e della violenza in alcune aree dell’Africa subsahariana, dal Corno d’Africa alla Nigeria».
Perché se è vero che i barconi, a volte gommoni, carichi di 300-400 persone e guidati da scafisti senza scrupoli partono dalle rive di Paesi come la Libia o la Tunisia, è anche vero che «quelli che si imbarcano non sono cittadini di quei Paesi. Sono persone che hanno già alle spalle un lungo viaggio dalla Somalia o dalla Nigeria. La Libia o la Tunisia sono a loro volta l’ultimo approdo per arrivare poi in Europa». Il Sahara separa l’Africa occidentale e il Corno d’Africa dal Mediterraneo. Si parte sui camion e sui fuoristrada che battono le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato e Libia e Algeria dall’altro, dove dal 1996 sono morte almeno 1.790 persone.
La maggior parte di queste persone «arriva a Lampedusa o a Porto Empedocle per richiedere asilo politico. Non è un caso che l’anno scorso su 27mila domande di richieste di asilo, il Paese da cui proveniva la maggioranza delle domande fosse la Nigeria». Un Paese che, come dimostrano le cronache di questi giorni sulle 300 ragazze rapite, «vive da tempo una recrudescenza della violenza a opera dell’organizzazione jihadista Boko Haram». E in tanti sono somali, come gli uomini e le donne che il 3 ottobre del 2013 hanno perso la vita a largo di Lampedusa. «La Somalia», aggiunge Torelli, «da anni è ritenuto un cosiddetto failed state. Dopo la guerra civile degli anni Novanta, la situazione non si è mai stabilizzata; anzi, si è assistito all’avanzamento di gruppi terroristici come al-Shabaab. Interi villaggi vengono spazzati via: è per questo che la gente scappa». Non immigrati per motivi economici, insomma, ma gente che fugge.
Gli arrivi di immigrati provenienti dall’Africa subsahariana in Libia non è certo un fenomeno nuovo. La differenza, rispetto a oggi, è che «prima la Libia era un Paese in grado di accogliere queste persone. In questo momento, invece, nel Paese regna il caos e queste persone non hanno alcuna garanzia di potervi restare». Tant’è che, prosegue Torelli, «ci arrivano notizie che ci dicono che si stanno creando nuove reti di trafficanti di esseri umani: organizzazioni criminali locali che hanno individuato nel traffico di essere umani un nuovo core business».
In Tunisia, invece, dopo la primavera del 2011 la situazione sembra essersi stabilizzata. Da poco è stata trascritta la nuova Costituzione e una nuova legge elettorale è stata approvata. E quando Roberto Maroni era al ministero dell’Interno con Tunisi l’Italia aveva pure stipulato degli accordi per regolamentare l’immigrazione irregolare, che sono ancora in vigore. «Di fatto», spiega Torelli, «davamo loro fondi per respingere gli emigrati». Eppure anche la Tunisia continua a essere Paese di partenza degli scafisti. Perché «per quanto il Paese in questo momento sia più stabile della Libia, la situazione resta comunque delicata e il governo tunisino da solo certo non riesce ad arginare il fenomeno». Con tutto quello che le nostre organizzazioni criminali, ’ndrangheta in testa, guadagnano nella logistica degli arrivi, grazie al controllo capillare delle coste e all’“uso” successivo che fa di queste persone, dalla prostituzione al lavoro nero nei campi.
In mezzo a questo traffico di essere umani, ci sono i marinai a bordo delle navi dell’operazione “Mare Nostrum”, che dall’ottobre 2013 pattugliano e soccorrono i barconi in balia del mare. Circa 27mila le persone salvate finora: somali, nigeriani, siriani estenuati da viaggi lunghi mesi. Il tutto, mentre cresce la polemica, soprattutto con la campagna elettorale europea in corso, sui costi dell’operazione: 300mila euro al giorno, 9 milioni al mese. «L’Europa deve fare di più», è il mantra che si sente da ogni parte politica. «L’Europa non ci sta aiutando a soccorrere i morti, si faccia carico di accogliere i vivi», ha dichiarato il ministro dell’Interno Angelino Alfano dopo il naufragio del 12 maggio. «L’italia non può diventare la prigione dei rifugiati politici che vogliono andare in Europa».
Ma se è vero che l’Unione europea potrebbe ampliare e migliorare i vari programmi esistenti – la stessa Cecilia Malmstrom ha detto che bisogna «discutere nel prossimo Consiglio tra ministri degli Interni come si può contribuire ad affrontare le sfide nel Mediterraneo» – «è anche vero che l’Italia è tra i Paesi che ricevono maggiori fondi europei per la gestione dell’immigrazione», dice Torelli. Parliamo del Fondo europeo per i rifugiati, dal quale l’Italia ha ricevuto solo per il 2013 6,8 milioni di euro; il Fondo europeo per i rimpatri, che nel 2013 ha portato nelle casse italiane oltre 9 milioni di euro; il Fondo europeo per l’integrazione, dal quale dal 2007 al 2013 sono arrivati in Italia oltre 103 milioni di euro; e il Fondo europeo per le frontiere esterne, destinato a polizia di Stato, Guardia di Finanza, Marina militare, capitanerie di porto, che solo nel 2013 ha destinato al nostro Paese oltre 169 milioni di euro. Una media di oltre 180 milioni di euro in un anno. Insomma, tra programmi Frontex e Eurosur, «non è vero che l’Unione europea non fa abbastanza per l’Italia», dice Torelli, «semmai si dovrebbe discutere se si debbano adottare altre politiche o mettere in campo più fondi» e spiegare, più prosaicamente, che molti piani di azione a livello comunitario sono stati “frenati” dall’inerzia di alcuni stati membri, specie quelli del nord Europa. Inoltre,il nostro Paese, pur registrando una crescita relativa delle domande di asilo, è soltanto sesto in Europa come Paese di accoglienza dei richiedenti. La Germania rimane in testa alla classifica, con 109.600 domande, seguita a distanza dalla Francia con 60.100 e dalla Svezia con 54.300. Entra poi in classifica la Turchia, con 44.800, per effetto soprattutto del tragico conflitto siriano. Ma anche il Regno Unito, lontano dalle zone calde del Medio Oriente, ci precede con 29.200 domande.