Viva la FifaChiedi chi era Milito

Chiedi chi era Milito

C’è un gol che spiega tutto. Più che una rete, una sequenza di fotogrammi una dietro l’altra, legati assieme da un filo di armonia che rende il tutto praticamente perfetto. Una calda sera di maggio, al Santiago Bernabeu di Madrid, l’interista Samuel Eto’o innesca un contropiede lanciando nello spazio una palla per Diego Milito. L’attaccante nerazzurro è lì sul centrosinistra, guardato a vista dal difensore del Bayern Monaco Daniel Van Buyten, senza essere però marcato a uomo. Milito può così stopparla in libertà con il piede destro. Anziché fermarsi nell’attesa di un compagno, o tentare subito il dribbling, l’attaccante argentino se la porta in avanti accarezzandola con il sinistro, mentre il difensore fatalmente indietreggia. Va indietro ancora, ancora, ancora. Milito continua ad avanzare puntandolo, mentre la palla, affascinata dalla calma dei forti con la quale viene addomesticata, resta a godersi le carezze di quel piede sinistro fasciato in uno scarpino bianco oggi conservato in un museo.

Forse Van Buyten lo sa, di essere spacciato. Lo capisce dai movimenti sicuri e armoniosi con i quali Milito avanza, costringendolo fino al limite dell’area. Van Buyten non ha speranze. Se lo tocca, l’arbitro inglese Howard Webb potrebbe indicare il dischetto del rigore. Se non lo tocca, Milito lo salta e va in porta. Un dilemma che il difensore belga non sa sciogliere, perché in una finale di Champions League, quella che sogni fin da bambino, vorresti fosse tutto perfetto e certe crepe proprio non te le immagini. Ma qualcosa dovrà pur fare, il povero Van Buyten. Così allunga la gamba, nel tentativo di fermare qualcosa che però non c’è già più. Milito fa un movimento più da brasiliano che da argentino e con una finta lieve ma decisiva ha già mandato il marcatore fuori tempo, saltandolo con un dribbling secco. Due a zero, doppietta di Milito. Qualche minuto dopo, l’Inter è campione d’Europa.

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Potete crederci o meno, ma quando Milito cominciò a puntare l’avversario, quella sera iniziai ad alzarmi lentamente sul divano, seguendo l’avanzare dell’azione. E lo dice uno che durante le partite che contano attua tutte le scaramanzie possibili. E che non hai mai scritto un pezzo in prima persona. Ma certe volte, si possono concedere delle eccezioni. La prima fu sul rigore di Materazzi contro la Francia in finale del Mondiale 2006: ero sicuro lo avrebbe segnato. La seconda fu la sera di Madrid, quando Milito infilò il terzo e quarto gol dei 5 complessivi che nelle tre “finali” consegnarono all’Inter il Triplete.

Quando starete dando un’occhiata svogliata a questo pezzo ancora assonnati in metro, o di straforo sul lavoro, Diego Milito avrà appena giocato la sua ultima gara in nerazzurro. Nei giorni in cui si sta dando – giustamente – l’ultimo tributo al capitano (non c’è bisogno che scriva il nome, tanto è grande), altri due argentini come Walter Samuel e appunto Milito lasceranno Milano. Uno per Firenze, l’altro per il rientro in Sudamerica. Di entrambi, lo si è capito, non posso che conservare un ottimo ricordo. Non voglio escludere Samuel in toto, perché se c’è stato un giocatore che ha tenuto in piedi la baracca quando necessario, questo è stato “The Wall”. Da interista, non puoi dimenticare il gol al Siena che ci tenne in corsa nell’anno dell’ultimo scudetto di Mourinho, o quando al primo minuto di Inter-Barcellona, semifinale d’andata di Champions, regalò una bella stecca a Ibrahimovic da dietro, facendogli capire come sarebbero andate le cose quella sera.

Qui mi limito al ricordo di Milito per un motivo molto semplice. Noi interisti siamo quelli che quando la squadra sta perdendo in casa 2-5 con lo Schalke 04 in casa si alzano e se ne vanno molto prima del fischio finale, feriti nell’orgoglio “Bauscia”. Siamo quelli che vogliamo l’esonero di un tecnico quando tiene Zanetti in panchina ed avrebbe invece dovuto farlo giocare perché era l’ultimo derby. E siamo quelli che, dura ammetterlo per molti, non abbiamo esitato a maledire Milito, quando a un certo punto la sua fiamma nerazzurra sembrava andasse via via spegnendosi, ravvivata solo da sporadiche fiammate. Perché va bene il Triplete, ma quando hai dato troppo devi andare e fare posto, no?

Provate a dirlo ai genoani, che Milito è un giocatore che si può discutere. Quando arrivò nel 2004 al Genoa, si capì presto che Enrico Preziosi aveva trovato un campione. Nel 2001 aveva vinto il Torneo Apertura in patria con il Racing Avellaneda. Non era stato facile per lui, giocare contro il fratello Gabriel, difensore nella rivale Independiente. Ma i gol gli erano valsi il nomignolo di “Principe” per la somiglianza fisica con Enzo Francescoli e una chiamata per l’Italia. Una bella storia, quella di Diego, tornato in Italia dopo che i suoi genitori, negli anni Cinquanta, erano emigrati dalla provincia di Cosenza. A Genova si ambienta subito. Sarà perché da qui partirono i fondatori del Boca Juniors. Sarà per le lontane origini italiane e l’aria che sente è quella di casa. O sarà perché, semplicemente, Milito è un attaccante di razza, al quale la Serie B in cui gioca il Genoa gli va un po’ stretta. Segna 12 gol in 20 partite al primo anno. L’anno dopo alza l’asticella: 39 partite, 21 reti. Il Genoa di Serse Cosmi si guadagna la Serie A sul campo, ma certe valigette del presidente Preziosi condannano i rossoblu a una orrida retrocessione in C1.

Milito così deve lasciare Genova e l’Italia, ma solo momentaneamente. Il club infatti ha già programmato la risalita dalla terza serie e cede Milito in prestito biennale al Real Saragozza, in Spagna, dove diventa l’uomo della Provvidenza calcistica: oltre ai 15 gol in Liga, ne rifila 4 al Real Madrid nella semifinale d’andata di Coppa del re, che vincerà a fine stagione. L’anno dopo è secondo dietro al Pichichi Van Nistelrooy con 23 reti: 6° posto in Liga e qualificazione in Europa. Milito si trova talmente bene che il Real Saragozza lo compra definitivamente. Segna altri 15 gol, ma il club ha fatto il passo più lungo della gamba: l’Europa e il campionato sono tornei troppo difficili da gestire contemporaneamente e la squadra a fine anno retrocede.

Genova lo riaccoglie a braccia aperte l’anno dopo. Una retrocessione in curriculum può segnare anche uno come lui, che ricomincia da Marassi. Quando se ne andrà, Milito avrà lasciato in dote ai tifosi 4 gol in due derby. Il primo lo segna in quello d’andata, la tripletta arriva in quello di ritorno, dove la Sampdoria contava di rifarsi: vince lui, primo genoano a fare tre reti un derby. Dopo i fasti in Coppa del Re, è ancora lui quello che risolve tutto. A fine anno non è capocannoniere del campionato, ma a Genova nessuno importa, forse nemmeno a lui, che ci ha comunque provato fino alla fine con la doppietta al Lecce. I gol gli valgono però la chiamata dell’Inter.

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Delle imprese e delle cadute nella polvere all’Inter, noi nerazzurri sappiamo tutto. Sappiamo di quanto fu, ancora una volta, uomo della Provvidenza nella sua prima stagione. I suoi gol ce li abbiamo stampati nella retina. A cominciare dal primo, nel derby vinto 4-0 quando ancora era agosto e Sneijder si presentava alla sua nuova squadra prendendo la traversa da fuori. O quando tenne a galla l’Inter nel gelo di Kiev, siglando il suo primo gol in Champions e favorendo la vittoria nel recupero. E forse fu proprio quel gol in coppa a cambiare tutto, per lui e per la squadra. Da lì in avanti, ci pensò sempre lui. Non puoi dimenticare quando con una sterzata aprì la difesa del Chelsea agli ottavi a San Siro, o quando nello stesso stadio ci pensò lui a segnare contro un Cska che di prendere gol non ne voleva proprio sapere. E non puoi dimenticare il gol al Barcellona, in semifinale, in mezzo a quella bolgia che deve avergli ricordato i catini stipati di tifosi argentini, o il brivido che solo una tripletta in una sera genovese può darti.

Forse è solo un caso se sto scrivendo queste righe il giorno in cui, 4 anni fa, Milito segnò il gol che diede all’Inter lo scudetto, a Siena. Era la seconda rete fondamentale, dopo quella di Roma in cui i nerazzurri si presero il primo trofeo del Triplete, guarda un po’, la sera del 5 maggio. Gli altri due arrivarono a Madrid e da quella sera qualcosa cambiò. Con la medaglia di campione d’Europa ancora al collo, Milito spiegò che non sapeva se sarebbe rimasto o meno. Disse quello che pensavano in tanti, avendo saputo dell’addio di Mourinho. Disse qualcosa che nessuno voleva sentirsi dire e che qualcuno si mise in tasca, pronto a rinfacciarglielo, mentre lui rinnovava il contratto passando da 3,5 a 5 milioni. Netti, ovviamente.

trofei vinti sono l’ultimo reflusso della stagione 2010, dall’Oscar del calcio alla finale di Coppa Italia contro il Palermo, dove segna ancora. Ma quella mitica annata ha portato con sé anche un fisico minato dalla stanchezza: 5 infortuni, 2 ricadute, 8 gol in 34 partite. Suona strano dire che per Milito qualcosa cambiò, se si considerano i numeri dell’anno dopo. Alcuni tifosi gli rimproverano un inizio di stagione in cui, in pratica, l’attaccante sbaglia ogni tipo di gol possibile, roba che nemmeno lo “Sciagurato” Egidio. Non eri tu quello che voleva andarsene? Era meglio se facevi le valigie, hai chiuso. Forse lui ci pensa a farla, quella valigia, ma è costretto a riaprirla quando si riprende tutto: maglia, tifosi, gol. Ne fa 4 al Palermo, diventa l’incubo di Ignazio Abate nel derby (dove si permette pure una tripletta) e a fine anno è record di gol con l’Inter: 24, due in più dell’anno del Triplete.

L’anno dopo è quello che cambia tutto. Con i tifosi è tutto a posto, ma il campo lo rivedrà poco. Si rompe in febbraio contro il Cluj in Europa League (dopo avere steso la Juve a Torino), ma quando a Pinzolo nel ritiro estivo torna a correre l’applauso che lo riaccoglie in campo è quello dei giorni migliori. Forse è quell’accoglienza a spiegare tanto di Milito, magari meglio di queste righe nelle quali si cerca di mettere in fila dei ricordi. E di raccontare cos’è stato e cos’è stato questo giocatore. E allora, chiedi chi era Milito a un genoano, o a un interista. E poi guarda nei suoi occhi. Chissà che non ci vedi tre gol a Marassi. O di quella volta che ricevette palla da Eto’o, una calda sera di Madrid.

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