Cooperative e pallottole, il Far West della logistica

Cooperative e pallottole, il Far West della logistica

Trasporti, cooperative fantasma, botte e pallottole. Dovendo riassumere il settore in quattro parole, quello della logistica potrebbe trovare una quadratura fra queste. Un comparto che ingloba autotrasporto, facchinaggio e anche e-commerce. Che mette insieme i mobili dell’Ikea e la verdura dei mercati, i prodotti di Amazon e gli immigrati in nero, le tecnologie all’avanguardia e i tir che viaggiano come facevano 60 anni fa. Il settore vale il 10% del pil europeo e impiega milioni di addetti. Solo in Italia occupa circa 400mila persone, eppure potrebbe contare quasi 2milioni di addetti, se il tutto non soffrisse di una cronica inefficienza dovuta alla scarsità di connessioni tra i vari nodi del trasporto e a una carenza infrastrutturale irrisolta da anni. Il 34% degli addetti è composto da facchini, il 16% da autisti, il 7% da autisti di mezzi pesanti, il 5% da fattorini.

Un Paese come il nostro, capace di esportare circa 400miliardi di euro all’anno, nella logistica dovrebbe essere tra i primi in Europa. Eppure nelle graduatorie della banca mondiale si piazza solo al quindicesimo posto dei Paesi Ue, bloccato anche da fattori legati al non rispetto delle regole sia del mercato del lavoro, sia della concorrenza e dell’impresa. E per accorgersne basta fare un giro tra i principali snodi della logistica italiana del Nord Italia, tra Milano, Piacenza, Bologna e la direttrice Alessandria-Genova.

Un Paese come il nostro, capace di esportare circa 400miliardi di euro all’anno, nella logistica dovrebbe essere tra i primi in Europa. Eppure nelle graduatorie della banca mondiale si piazza solo al quindicesimo posto dei Paesi Ue

«Un settore dall’alto tasso di penetrazione criminale», racconta più di un addetto ai lavori. Voci, dicerie, potrebbe controbattere qualcuno, ma le indagini della magistratura e le proteste dei lavoratori negli ultimi anni hanno restituito una fotografia nitida di quel che succede nelle società che si occupano di logistica sui territori. Non è un caso che la presidente nazionale di Cna-Fita (Unione nazionale delle imprese di trasporto), Cinzia Franchini, abbia improntato il suo mandato al rispetto della legalità nel settore. Un intento che l’ha già portata a subire minacce e intimidazioni nemmeno troppo velate anche da parte dei cosiddetti “forconi”, il movimento che qualche mese fa imperversava nelle piazze di tutta Italia e che nel settore della logistica affonda le sue radici.

 Logistica, criminalità e false cooperative
Un rapporto che non nasce certamente oggi, quello tra il settore della logistica e la criminalità organizzata, e che anche nell’asse logistico del Nord Italia ha trovato terreno fertile. Un binomio strettamente legato a quello delle cooperative che gravitano nell’universo del trasporto merci e che in Europa costituiscono, spiegano gli esperti, «un unicum che ha costretto colossi come TNT e Dhl ad appoggiarsi proprio a queste cooperative e ai cosiddetti “padroncini”».

Cooperative e padroncini fanno dunque nel settore il brutto e il cattivo tempo sulla pelle di autotrasportatori, facchini e impiegati della logistica in genere. Negli anni gli esempi non sono pochi: basti pensare ad alcune filiali italiane dello stesso colosso TNT. Tra le pieghe dell’inchiesta Redux-Caposaldo della Procura di Milano, entra anche la TNT, azienda leader nel trasporto merci con sede nei Paesi Bassi, ma operante in Italia tramite piccole società, padroncini e cooperative, spesso fuori controllo dalla filiale centrale con sede in Piemonte.

Proprio questa struttura estremamente frazionata e su cui diventa difficoltoso effettuare i necessari controlli giocava da anni la ’ndrangheta, che aveva assuno il controllo delle sei filiali milanesi di TNT, poi sequestrate dal Tribunale di Milano. Addirittura, stando alle indagini, la presenza del clan Flachi all’interno della TNT milanese sarebbe «storica, prima con gestione diretta e poi per interposta persona, il clan di Bruzzano ha sempre avuto un piede dentro l’azienda di spedizioni», scrivevano ancora gli inquirenti.

Il sistema che attraeva i clan, secondo la Procura, era il pagamento di una tariffa per ciascun furgone in servizio. Tariffa poi aumentata dai bonus legati al raggiungimento degli obiettivi che autonomamente ogni capo filiale distribuiva a padroncini e cooperative. Da questi bonus vi era la spinta dei clan al controllo di quante più cooperative e società possibili nella galassia TNT.

Sempre nel milanese osservati speciali sono stati consorzi e società di logistica riconducibili a nomi noti nel panorama del settore lombardo. Prima dell’indagine che coinvolse le filiali di TNT, anche le grandi opere lombarde finirono sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti, in particolare con le indagini sulla famiglia Paparo. Qui i giudici in primo e secondo grado riconobbero una «mafia imprenditrice», che però non ha convinto i giudici della Cassazione, che nel corso del processo scaturito dall’operazione “Isola” hanno annullato le condanne per mafia ordinando un nuovo processo in appello.

Per gli investigatori la figlia di Vittorio Mangano, Cinzia, e il marito, Enrico di Grusa, si sarebbero «serviti di una rete di cooperative che, mediante false fatturazioni e sfruttamento dei lavoratori, realizzavano profitti in nero per sostenere detenuti e latitanti»

Anche gli eredi dello “stalliere” di Arcore Vittorio Mangano operavano, guarda caso, nel settore logistica e facchinaggio del capoluogo lombardo. Per gli investigatori la figlia di Vittorio Mangano, Cinzia, e il marito, Enrico di Grusa, si sarebbero «serviti di una rete di cooperative che, mediante false fatturazioni e sfruttamento dei lavoratori, realizzavano profitti in nero per sostenere detenuti e latitanti». Nella stessa indagine a carico dei Mangano a emergere tra le altre è la figura criminale di Giuseppe Porto, che non a caso è legato a doppio filo a un altro uomo considerato dall’antimafia vicino a personaggi come Marcello dell’Utri e lo stesso Vittorio Mangano: Natale Sartori, amministratore unico di Alma Group, società consortile per azioni di Peschiera Borromeo (Milano) che si occupa tra le altre cose di logistica integrata, trasporti, produzione, stoccaggio, traslochi e movimentazione merce. Sartori, siciliano da lungo tempo in Lombardia, viene arrestato e condannato per corruzione nel 1999, per poi ricomparire, anche se non indagato, tra le carte dell’inchiesta “Redux-Caposaldo”.

Ad Alessandria, invece, in Piemonte, arriva la Sud Trasporti, leader della logistica in Sicilia. Una maxi inchiesta della Guardia di Finanza di Catania iniziata nell’agosto 2013 sui colossi del trasporto su gomma ha portato nel mirino degli investigatori proprio la società guidata da Angelo Ercolano, a cui viene contestato un vorticoso sistema di fatture false ammontanti ad oltre 5 milioni di euro, emesse da una società “cartiera” di Palermo, la Trasporti e Spedizioni. Vengono così denunciati dalla Guardia di Finanza Angelo Ercolano, in qualità di presidente del consiglio d’amministrazione, e Maria Ercolano, in qualità di amministratore delegato. Per la Sud Trasporti, lavora come direttore generale un ex assessore del comune di Alessandria, Mauro Bressan, ritenuto vicino a un uomo di potere e relazioni come Fabrizio Palenzona. Bressan, dal canto suo, ha sempre smentito questa vicinanza e difeso il buon nome di quella società di trasporti siciliana che lavora all’interporto piemontese ed esporta in tutta Europa.

Il lavoro nelle cooperative “spurie”
Quello che permette alla criminalità organizzata di penetrare l’intero settore in maniera incontrollata sembrerebbe essere proprio lo stesso meccanismo di organizzazione e funzionamento del lavoro. Come viene fuori dalle indagini avviate in diverse procure, la logica è sempre la stessa: le grandi catene della logistica, come TNT o Dhl, affidano l’appalto ai consorzi, che a loro volta girano poi il lavoro alle cooperative. Tra queste, ci sono quelle buone e quelle “spurie”, cioè quelle che eludono il fisco, non pagano i contributi dei lavoratori e nascono e muoiono più volte quasi per miracolo cambiando solo il nome. Da monte a valle, le regole si perdono come in un telefono senza fili. E a risentirne sono inevitabilmente i lavoratori, con paghe orarie da fame, turni di lavoro disumani e pochi, pochissimi, diritti. «Il problema», ha dichiarato il pm di Milano Carlo Nocerino, che ha messo in piedi una task force sperimentale con Inps, Tutela del lavoro dei Carabinieri, Guardia di finanza e Prefettura per combattere lo sfruttamento del lavoro nella logistica, «è che la committenza è connivente, sa quello che accade, ma accetta per risparmiare sulla manodopera».

Il pm Nocerino: «il problema è che la committenza è connivente, sa quello che accade, ma accetta di risparmiare sulla manodopera»

Perché le cooperative “spurie” inevitabilmente funzionano tutte al ribasso. «Sono cooperative», dice Alberto Ballotti, segretario provinciale di Bologna della Filt-Cgil (Federazione italiana lavoratori trasporti della Cgil), «che non hanno nulla di cooperativistico». Nascono, vivono e scompaiono nel giro di un anno, un anno e mezzo. Giusto il tempo per riciclare il denaro proveniente dai traffici illeciti. Ma «magari mantengono lo stesso indirizzo e le persone che ci sono dietro sono sempre le stesse». Basta cambiare il nome, lavare l’insegna e tutto si dimentica. Anche gli arretrati che tanti lavoratori ancora oggi aspettano.

E non è un caso che la grande maggioranza dei lavoratori delle cooperative “spurie” sia costituita da immigrati comunitari ed extracomunitari, magari irregolari, «che hanno difficoltà con i permessi di soggiorno, sono più deboli e quindi più ricattabili». Persone che in molti casi mettono una firma in fondo a un contratto, senza neanche capire una parola di quello che c’è scritto sopra. Nei pagamenti, in effetti, l’illegalità sembra essere la regola. Gli stipendi mensili, spiega Ballotti, «vengono erogati pagandoli in parte con le indennità di trasferta, che sono esenti da tasse». Quindi, per esempio, «se il netto in busta paga è di 1.300 euro, vengono dichiarate 8 ore di lavoro apparenti da tassare, mentre il resto è dichiarato come trasferta. In questo modo il lavoratore non ha una copertura pensionistica né ha diritto agli ammortizzatori sociali». Oppure si può usare il “classico” metodo del falso part time: «Si finge che i lavoratori siano a tempo parziale, e su dieci ore al giorno lavorate, in busta paga ne compaiono solo quattro». Di straordinari e indennità per il lavoro notturno, che è preponderante nel settore, neanche a parlarne.

Intere notti a caricare e scaricare tonnellate di merci, a ritmi veloci e con stipendi da fame. Ed è soprattutto la notte che domina il malaffare. Basta fare un giro davanti ai cancelli dell’Ortomercato di Milano, ad esempio, per vedere decine e decine di immigrati scavalcare per andare a lavorare in nero nelle cooperative di facchinaggio. O magari dare un’occhiata oltre le barriere dell’Interporto di Bologna, dove – guarda caso –  non c’è neanche un presidio di polizia. 

«Ci sono troppe false cooperative nel mondo della logistica e dei trasporti. La legge è da rifare», ha detto Giuliano Poletti, che prima di esser nominato ministro del Lavoro del governo Renzi guidava la Legacoop nazionale. Ed è la stessa legislazione in materia di cooperative, secondo i sindacati, che ha permesso una deregulation di questo tipo. La legge 142 del 2001, ad esempio, prevede la possibilità di deroga al contratto collettivo nazionale. Che già di per sé, commenta Daniele Totaro, referente del sindacato interconfederale Si Cobas nel settore trasporti, «è molto arretrato rispetto al reale costo della vita». Basta ricordare la vicenda Granarolo, con i facchini che hanno manifestato per settimane dopo esser stati licenziati per aver scioperato contro un taglio in busta paga del 35% dello stipendio. «Quella decurtazione», dice Ballotti, «si poteva fare grazie a una delibera che la cooperativa Sgb aveva fatto». In questo modo, «si compete a chi costa meno».

«Ci sono troppe false cooperative nel mondo della logistica e dei trasporti. La legge è da rifare», ha detto Giuliano Poletti, che prima di esser nominato ministro del Lavoro del governo Renzi guidava la Legacoop nazionale

I contratti di lavoro a tempo indeterminato sono solo il 24 per cento. La regola è quasi sempre il lavoro a chiamata. «La tendenza che stiamo registrando», dice Totaro, «è il licenziamento di coloro che hanno contratti regolari a favore di contratti atipici e meno costosi». Così ai facchini capita di fare tre o quattro ore alla settimana o anche 60, dipende dalle necessità. E i lavoratori, spesso, arrivano dai sindacati quando il peggio è già successo. «Molti immigrati non sanno neanche cos’è una cooperativa», spiega Alberto Ballotti, «o cosa sono i contratti nazionali. Le situazioni peggiori si trovano nelle cosiddette “cooperative etniche”, in cui ci sono veri e propri caporali che sfruttano i connazionali che, in quanto tali, sono portati a fidarsi e accettano di tutto, finché non ne possono più». E quando arrivano davanti a un delegato «pensano di essere dipendenti della cooperativa e invece magari figurano come liberi professionisti. Per questo noi cerchiamo di far sì che ci sia almeno un iscritto ai sindacati, per poter entrare in questi luoghi di lavoro. Ma spesso appena uno si iscrive viene licenziato immediatamente».

Nel settore, i più agguerriti sono i Cobas. Organizzano scioperi, bloccano strade, fanno sit-in davanti ai cancelli dei poli della logistica di tutto il Nord Italia. E spesso ne subiscono le conseguenze, perché i padroncini delle cooperative di sindacato e diritti dei lavoratori non vogliono sentirne parlare. Lo scorso gennaio Fabio Zerbini, coordinatore del Si Cobas di Milano, è stato pestato a sangue. «Se i lavoratori continuano a scioperare e a rompere i coglioni, tu fai una brutta fine», gli hanno detto. E non è il solo. «In molti posti viviamo situazioni pesanti», dice Totaro, «hanno bruciato le macchine ai nostri delegati, ci sono state scazzottate, riceviamo minacce continue, al nostro delegato cremasco hanno appena tagliato tutte e quattro le gomme della macchina, mentre a Trezzano D’Adda i lavoratori in lotta sono stati presi a sprangate dai crumiri all’interno e costretti a smobilitare il presidio».

Le vertenze in corso sono tante. C’è l’Esselunga di Pioltello, dove «non è stato reintegrato nessuno nonostante i giudici avessero stabilito il contrario». C’è il blocco della logistica di Carrefour di Pieve Emanuele «da presidiare». E anche la TNT di Peschiera Borromeo, che si occupa delle merci dello scalo di Linate. La loro tecnica è fare gruppo – cosa che «riesce di più con i lavoratori immigrati che con gli italiani», dicono – , mettere in stato di agitazione i lavoratori e agire con scioperi improvvisi, che causano grandi perdite per le aziende. Lo hanno fatto alla Bennet di Oleggio Castello, in Piemonte, nel 2008. E alla TNT di Piacenza, nel 2009. «E i lavoratori sono riusciti a ottenere tutto quello che avevano perso nel passaggio da una cooperativa all’altra».

Deregolamentazione e criminalità dominano anche nella branca dell’autotrasporto, dove l’Europa ha imposto regole ferree «che spesso non vengono rispettate». In Italia le aziende dell’autotrasporto sono 150mila, di cui «molte costituite magari da una sola persona. Nel resto d’Europa invece c’è un numero di aziende inferiore di dieci volte ma che hanno capacità di investimenti maggiori e non sono strozzate dai costi come le nostre», commenta Ballotti. Un esempio? Il 30% degli autotrasportatori italiani gira a vuoto, «perché spesso hanno il carico al viaggio di andata, ma non al ritorno».

È anche questa debolezza, secondo il sindacalista, che fa sì che «una parte importante dell’autotrasporto sia in mano alle ’ndrine calabresi». Una situazione diffusa «di illegalità rischia di uccidere anche l’economia legale. Se vado sul mercato con prezzi che non esistono in natura, se mi posso permettere di lavorare in perdita, se non pago il tfr e i contributi e posso comunque campare, faccio tutto al ribasso e vinco l’appalto. E questo lo pagano non solo i lavoratori, ma tutta la collettività». E non è un caso che proprio in Emilia Romagna, uno degli snodi principali della logistica italiana, il 7 maggio scorso sia stata approvata una legge che ha istituito una white list per le aziende della logistica e dell’autotrasporto: se hai tutto in regola, dai contratti dei lavoratori al certificato antimafia, fai parte della white list; e se fai parte della white list, hai diritto ad alcune detrazioni fiscali. 

 La lobby della logistica e del trasporto
«Io», dice Cinzia Franchini, presidente nazionale di Cna-Fita, «ho smesso da tempo di chiamarle infiltrazioni dei clan. Ormai nel settore possiamo parlare a pieno titolo di un vero e proprio radicamento. E le associazioni di categoria non sono esenti da colpe». Il sistema delle cooperative cosiddette “spurie”, di cui anche la stessa Susanna Camusso ha parlato dal palco del XVII congresso Cgil di Rimini, apre «strade enormi per chi le vuole utilizzare in maniera impropria: soci cooperatori messi a bordo dei mezzi, pagati una miseria consentendo di acquisire appalti da committenti in realtà solo attenti solo al minor prezzo senza preoccupazioni minime sul conto di chi rende questi servizi e del rispetto del lavoratore».

La lobby trasversale, da destra a sinistra, degli interessi in gioco fa il resto: si pensi a una figura come quella dello stesso Palenzona, che contemporaneamente è presidente Aiscat (Associazione delle concessionarie autostradali), presidente onorario di Conftrasporto (Confederazione del trasporto-spedizione–logistica) e presidente del consiglio di amministrazione della F.A.I. Service (società che eroga servizi agli autotrasportatori). Non è stato un caso, infatti, che dal 1 gennaio 2014 i pedaggi autostradali siano aumentati del 4% e che la categoria degli autotrasportatori sul tema non abbia avuto reazioni così significative.

La lobby è trasversale, da destra a sinistra: si pensi a Fabrizio Palenzona, che contemporaneamente è presidente Aiscat (Associazione delle concessionarie autostradali), presidente onorario di Conftrasporto (Confederazione del trasporto-spedizione–logistica) e presidente del consiglio di amministrazione della F.A.I. Service (società che eroga servizi agli autotrasportatori)

Per Franchini proprio la posizione dell’attuale vicepresidente, tra le altre, di Unicredit, e dei vari gruppi di pressione politico-economica sul sistema, «determina anche una redistribuzione non equa di quei 200 milioni di euro di fondi pubblici destinati al settore per il recupero proprio dei pedaggi». Per la destinazione di questi fondi entrano in gioco i consorzi e, attacca Franchini, «il maggiore è proprio F.A.I Service». Consorzi cui spetta una percentuale per la ridistribuzione, «percentuale», chiude il presidente di Cna-Fita, «spesso e volentieri rendicontata in modo tutt’altro che trasparente». Un rapporto da disintermediare, «magari con meno soldi pubblici da erogare», è l’idea di Franchini. «Ma purché che finiscano direttamente nelle tasche degli autotrasportatori, senza dover “pagare pedaggio” ai consorzi».

A tenere buoni gli autotrasportatori dopo il rincaro dei pedaggi ci aveva pensato Paolo Uggè (ex sottosegretario con Berlusconi, presidente di Conftrasporto, i camionisti di Confcommercio), vicino a Palenzona, che rifiutò la restituzione dell’aumento dei pedaggi ma promise sconti. Intanto da più parti arrivano solleciti a una modifica della normativa sulle cooperative e sull’erogazione di fondi pubblici al settore, «ma al momento il governo è sordo», taglia corto Franchini, che punge anche su Expo. «Ci ha stupiti incontrare una delegazione di Regione Lombardia che a un certo punto ci dice: “Non sapevamo che la situazione del settore in quanto a possibilità di appetiti criminali fosse questa”. Confidiamo ora nell’osservatorio istituito appositamente tra le associazioni di rappresentanza e la Regione». Non per risolvere un problema a cui si dovrebbe mettere pesantemente mano, ma quantomeno per limitare i danni.

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