Nel 1958, dopo che un aereo militare americano diretto nel Regno Unito sganciò per errore una bomba nucleare, senza il combustibile atomico inserito, in un giardino della South Carolina — una grande storia, di cui scriveremo presto — il primo ministro britannico Macmillan passò dei brutti quarti d’ora cercando di tranquillizzare il parlamento e l’opinione pubblica. Quando poi un giornalista inglese domandò al generale americano Thomas S. Power se sui cieli d’Inghilterra venissero trasportate abitualmente armi nucleari, Power rispose, con la sua caratteristica brutalità: «Beh, non abbiamo costruito questi bombardieri per portare petali di rosa schiacciati».
L’industria dei blockbuster americani è come i bombardieri del generale Power: non è fatta per i petali di rosa. Prende un libro di enorme successo come Hunger Games, oppure un capolavoro della letteratura come Il grande Gatsby, o perfino la Bibbia — Noah — e li confeziona in pellicole che hanno la grazia e la delicatezza di un B-52. Godzilla non fa eccezione.
Il film parte bene, con qualche spunto che devia dalla totale prevedibilità, ma le cose procedono poi con il pilota automatico. E con una certa lentezza: ricordo un momento, con Bryan Cranston e il vetro di una finestra (spoiler: ci sono finestre) in cui mi è venuto da chiedere ad alta voce: «Scusi signor Edwards, sono previsti anche mostri giganti nel suo film sui mostri giganti?» Ma quando arrivano i mostri, non si risparmia sulle distruzioni e sui pericoli per l’umanità, con effetti speciali di ottimo livello (d’altra parte è da lì che viene il regista). C’è qualche inciampo della trama, ma il ritmo, specialmente nella seconda parte, è alto e gestito bene, e il finale è sufficientemente aperto da lasciare la voglia di averne ancora. Un paio di scene sono un’infantile gioia per gli occhi e l’impressione complessiva resta molto migliore rispetto al film di Emmerich sul nostro lucertolone (1998).
Per il resto, Godzilla rispetta tutte le regole del blockbuster hollywoodiano, che per gli amanti del genere è un bene; ma non se ne discosta di un millimetro, che mi sembra un male.
Come hanno ottimamente spiegato I 400 Calci, Godzilla ha avuto una storia filmica e uno sviluppo molto vario, ma nella sua essenza è una metafora vivente. Oltre a questo, ha un comportamento ambiguo nei confronti del genere umano e non è semplicemente il mostro che vuole distruggere tutto — un aspetto che in Godzilla (il film) è trattato con una certa goffaggine, ma che ha generato anche vette di poesia come il Tumblr Godzilla Haiku. È uno dei prodotti dell’inconscio collettivo giapponese dopo il trauma di Hiroshima e Nagasaki — il mostro, come è noto, è stato risvegliato dagli esperimenti nucleari americani nel Pacifico — e insieme del rapporto estremamente spirituale con la natura che permea la cultura orientale. Una delle spie che in Godzilla (il film) ci sia qualcosa che non va è che gli aspetti caratterizzanti siano interamente subappaltati al viso tormentato e alle frasi pensose dell’ottimo Ken Watanabe, che ha il compito di aggiungere un tocco di salsa di soia a quello che altrimenti è un prevedibile e ipercalorico Big Mac. Non lascia con la fame, ma l’alta cucina è tutto un altro discorso.
È il problema dei blockbuster: sono fatti per piacere potenzialmente al mondo intero, dunque devono dare la giusta dose di dramma senza inquietare, la giusta dose di azione senza annoiare, la giusta dose di suspence senza spaventare nessuno dal Texas a Mosca a Shanghai. Prendiamo ad esempio la violenza, che è sempre un ottimo specchio di quanto il film aspiri a un mercato vasto. La violenza, in Godzilla, rimane a livello epistassi, una scelta prevedibile ma che è aggravata dal fatto che il film aveva un’arma assai potente per le mani: quella della radioattività e delle paure irrazionali che la circondano. Quest’arma rimane per lo più non sfruttata e limitata a qualche mascherina messa o tolta senza troppo criterio. Per fare confronto recente, World War Z — con i suoi limiti grossi come una casa — faceva un uso molto migliore dell’altrettanto inquietante morbo che trasforma in zombie gli esseri umani. Dunque, la domanda diventa: ci si poteva aspettare qualcosa di diverso?
Direi di sì. Ci sono due strade, entrambe accuratamente evitate da Godzilla: una è la fuga dalla banalità e dalla superficialità. Anche un blockbuster può portare un messaggio forte, sia esso un’ode criptofascista come 300 o una ricerca particolare sui personaggi. Quest’ultima è sfruttata ad esempio in tutta la serie dei supereroi degli ultimi anni: si prende dai fumetti e dalle loro dinamiche narrative e psicologiche non scontate per dare un valore aggiunto a quelli che altrimenti sarebbero solo film di fantascienza. Ovviamente questo si può fare bene — la trilogia di Spider-Man di Raimi — oppure male — il tragico ultimo Wolverine.
Per illustrare la seconda strada vorrei introdurre un termine tecnico, un concetto che spero sia adottato presto nei manuali di cinema: “ignoranza”. Definiremo “ignoranza” il voluto accantonamento di ogni canone di serietà e di buon gusto, l’uso dell’ironia e dell’autoironia, la leva sui desideri e le aspettative più adolescenziali dello spettatore. Per questo Pacific Rim di Guillermo del Toro dà enorme soddisfazione agli estimatori dell’ignoranza: in una memorabile scena, per fare solo un esempio, un robottone gigante usa una nave come mazza. Era quello che chiedevo al film e quello che il film mi ha dato: mostri grossi, in piena luce, che si menano con robot altrettanto grossi. Ecco, a fronte di Pacific Rim, e nonostante i grattacieli sbriciolati, direi che il nostro Godzilla ha un tasso di ignoranza decisamente basso e una deplorevole mancanza di ironia.
Si esce da Godzilla piuttosto soddisfatti — mannaggia Hollywood, mi hai fregato ancora — perché quello che era prevedibile avere è stato fornito con dovizia di mezzi. Ma niente di più, e cominciamo ad essere un pubblico esigente. Voto: 7+.
Appunti tecnici – Attenzione – sezione con qualche spoilerino
Ci sono poi un paio di cose che, anche a un semplice appassionato dei temi del nucleare, non possono che suonare assai strane. Stiamo pur sempre parlando di un film in cui c’è un mostro lungo a occhio centocinquanta metri — con il passare del tempo e dei film, le dimensioni di Godzillacrescono — per cui non ci si attendeva certo un affresco neorealista; ma è l’occasione di parlare un po’ dell’affascinante mondo delle radiazioni e delle armi nucleari.
La prima riguarda il fatto che Godzilla e i Muto si cibano e sono attratti dalle radiazioni nucleari e nel corso del film fanno diversi spuntini mangiando — intere — singole bombe. Ora, in un moderno missile balistico intercontinentale o in una bomba nucleare da caricare su un aereo, il core radioattivo è sigillato all’interno della testata. Le radiazioni che emette sono schermate dal metallo e dagli altri materiali che lo circondano: un rilevatore molto sensibile può quindi servire a trovare una bomba entro qualche decina di metri, ma stando a qualche studio reperibile su Internet (è del 1990; gli USA non sviluppano nuove armi nucleari dal 1992) le radiazioni emesse da un’arma nucleare sono indistinguibili dal fondo naturale entro qualche decina di metri al massimo. Insomma, usarle come esca è davvero una pessima idea, ed è altrettanto improbabile che per Godzilla e i Muto riescano a capire che qualche tonnellata di metallo sia in realtà una merenda appetitosa.
Il livello di radiazioni disperse nell’ambiente in seguito a un incidente come quello che si vede all’inizio del film nella centrale fittizia di Janjira, in Giappone (con espliciti riferimenti al disastro di Fukushima del 2011) deve essere per forza molto alto. Ammettendo anche che il mostro si attacchi, senza danneggiarlo, al vessel che contiene il combustibile nucleare, la rottura delle tubature e del circuito di raffreddamento liquido — i reattori di Fukushima sono raffreddati e moderati ad acqua — e la distruzione dell’edificio del reattore rilascia grandi quantità di vapore radioattivo nell’aria. È quindi molto improbabile che il livello delle radiazioni nell’abitato a qualche chilometro dalla centrale, a pochi anni dall’incidente, scenda a zero secco come mostrato nel film, o addirittura che non ci sia mai stato come suggerisce il personaggio di Bryan Cranston.