Alla fine tutto si gioca su una contrattazione. Tra agenzia italiana del farmaco Aifa e Ministero della salute da una parte, e le aziende farmaceutiche produttrici dei nuovi e rivoluzionari farmaci per la cura dell’epatite C dall’altra. In ballo la copertura con la terapia per i circa 2 milioni di italiani affetti da epatite C, perché se anche in Italia il farmaco fosse venduto a un prezzo simile a quello imposto in America, difficilmente il nostro sistema sanitario sarebbe in grado di assicurare l’innovativa terapia, in grado di eradicare il virus nel 95% dei casi, subito, a tutti.
Facciamo un passo indietro. A dicembre del 2013 dagli Stati Uniti arriva la notizia di un nuovo e rivoluzionario farmaco contro l’epatite C appena approvato dalla Food and Drug Administration (Fda). Si tratta del sofosbuvir, un antivirale (tecnicamente un inibitore di proteasi di nuova generazione, in grado di bloccare la replicazione del virus Hcv, responsabile dell’epatite C) ideato dalla piccola ditta americana Pharmasset e poi acquisito per lo sviluppo da Gilead Sciences (venduto con il nome commerciale di Sovaldi, nei primi tre mesi del 2014 ha fruttato 2,3 miliardi di dollari, un record per la commercializzazione di un farmaco nel suo primo trimestre). In America viene venduto al prezzo di 84 mila dollari per un ciclo di 12 settimane e 168 mila dollari per 24 settimane, a seconda del genotipo del virus infettante (ne esistono sei diversi, quello per cui il farmaco sembra più efficace è il tipo 1, il più diffuso in Italia). Insomma circa mille dollari al giorno di terapia. Simeprevir, altro inibitore di proteasi di nuova generazione, viene invece venduto dalla Janssen al costo di 66 mila dollari circa per di 12 settimana di terapia. Costi inaccessibili per i cittadini ma anche per i sistemi sanitari dei paesi più ricchi. La rivista Jama in un editoriale spiega come nonostante in America sia consuetudine che le ditte produttrici dei farmaci stabiliscano il prezzo dei farmaci anche in base alle spese di ricerca e sviluppo, in questo caso il divario tra spese di produzione dei farmaci (dai 68 ai 136 dollari per 12 settimana di trattamento con sofosbuvir, e tra i 130 e i 270 dollari con simeprevir) e il prezzo di vendita, sia impressionante.
A metà gennaio viene approvato anche dall’Ema (European Medicines Agency), l’ente regolatorio europeo, e subito dopo arriva in Germania, al costo di circa 40 mila euro per 12 settimane. Il suo arrivo è previsto a breve anche in Italia, ma con che prezzo ancora non si sa. Al momento Aifa sta, infatti, trattando l’importo del primo farmaco di nuova generazione con la ditta produttrice.
«Il prezzo è previsto alto ma ancora non sappiamo quanto sarà in Italia – spiega a Linkiesta Evangelista Sagnelli, professore di medicina e chirurgia presso la Seconda università degli studi di Napoli (Sun) – dipende molto dall’Aifa, e da quanto riuscirà a contrattare per avere un prezzo inferiore, in modo da poter trattare un maggior numero di persone». L’Italia inoltre è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di casi di infezione, e proprio questi alti numeri potrebbero permetterci di contrattare per ottenere prezzi più bassi e arrivare a coprire tutti.
«La previsione di un costo elevato fa sì che debba anche essere considerato con attenzione anche chi deve essere trattato prima – prosegue Sagnelli – i casi più urgenti o chi ha una maggiore capacità di successo perché risponde alla terapia. Parliamo di una malattia a lungo decorso, con delle fasi di accelerazione, più o meno avanzate, per questo i pazienti che hanno più probabilità di evolvere verso la cirrosi o adenocarcinoma avranno una priorità, così come anche i pazienti trapiantati con recidive. Ovviamente dovranno essere trattati tutti i pazienti, ma scaglionati nel tempo in base alle esigenze cliniche».
Il prezzo dei farmaci è probabilmente destinato a subire un ridimensionamento nel 2015, quando sul mercato arriveranno altri farmaci, della stessa famiglia, ma ancora più efficaci. Antonella Cingolani, vicepresidente Donne in Rete onlus, e dirigente medico presso l’Istituto malattie Infettive Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma, spiega a Linkiesta che fino al 2013 la cura per l’epatite C, consisteva nella somministrazione combinata di interferone pegilato e la ribavirina. «Una terapia molto impegnativa per il paziente, perché di lunga durata e con pesanti effetti collaterali. Con una capacità di successo che non superava il 40 per cento dei casi. Nel 2013 sono arrivati due nuovi farmaci (telaprevir e boceprevir) che somministrati unitamente ai primi due, in un triplice terapia, hanno portato a percentuali di successo decisamente più elevate ma a scapito di effetti collaterali ancora più marcati, con bassa maneggevolezza della terapia stessa (oltre agli effetti collaterali, anche un numero di compresse elevato). Con l’arrivo di sofosbuvir, ma ancor di più con i farmarci che arriveranno negli anni a venire si ridurranno notevolmente non solo i tempi di terapia e gli effetti collaterali ma anche si andrà verosimilmente verso l’eradicazione del virus in oltre il 95% dei casi. Il costo elevato è in parte dovuto anche al mercato: nel momento in cui c’è solo un farmaco disponibile il prezzo può essere alto, nell’arco di 4-5 anni appena arriveranno anche gli altri, immagino che scenderà».
I farmaci delle generazione ancora successiva, quelli il cui arrivo è previsto per il 2015, dovrebbero invece essere usati in combinazione tra di loro, doppia o tripla, e dovrebbero eliminare del tutto l’utilizzo di interferone e della ribavirina. «L’arrivo di sofosbuvir è un ulteriore passo avanti rispetto alla terapia attuale, ma non è la soluzione per l’epatite c, almeno secondo me. Ci arriveremmo quando avremo più farmaci in commercio, cosa auspicabile tra qualche anno. A quel punto tutta la popolazione sarà facilmente raggiungibile dai farmaci e si avrà un probabilità di successo terapeutico, quindi di guarigione, del 90-100 per cento».
Il virus dell’epatite C, l’Hcv, a differenza di quello dell’Hiv, può essere completamente eliminato grazie alla terapia farmacologica. Una volta ridotta a zero la replicazione virale, se questa rimane tale, cioè a zero, anche in assenza di terapia, per parecchi mesi, allora il virus si può dire eradicato. «Che non significa che il paziente non avrà più bisogno di essere seguito dai centri clinici – sottolinea Cingolani – perché c’è una parte dei pazienti per cui la malattia epatica progredisce anche in presenza di una risposta virologica. I controlli successivi vanno sempre fatti». Di positivo però resta il fatto che l’eradicazione del virus, da una buona percentuale di persone infette, porterà anche a una riduzione dei casi in Italia. Per ridurre i contagi e i casi di infezione infatti, l’unica soluzione è aumentare l’accesso al trattamento e al test.
Il ministro della salute Beatrice Lorenzin ha già dichiarato che chi avrà bisogno del farmaco lo avrà, senza restrizioni economiche. Poi andranno seguite delle linee guida, delle indicazioni mediche scientifiche che serviranno per regolamentarne l’utilizzo, su cui le regioni stanno lavorando. Il compito dei medici insieme alle associazioni di pazienti sarà quello di individuare le priorità, cercando di capire chi sono le tipologie che gioveranno di più dei farmaci che arriveranno fra un paio d’anni e chi invece dovrà essere trattato prioritariamente. Per Sagnelli si tratta di un momento di grande importanza per le persone affette da epatite C, «perché finalmente dopo anni, si intravede una cura efficace e meno invasiva. Per questo ognuno dovrà fare la sua parte e i medici dovranno stare dalla parte dei cittadini».