In un aureo libretto pubblicato il primo aprile 1921, il Codice della vita italiana, Giuseppe Prezzolini scriveva che nel nostro paese Paese «la roba di tutti – cioè pubblica – tempo pagato per lavorare, uffici, vagoni, biblioteche, musei – è roba di nessuno». Ecco, nella vastissima lista di intenti annunciati mercoledì dal premier Matteo Renzi sotto la voce “riforma della pubblica amministrazione”, è apprezzabile l’idea che il molto da cambiare nella Pa serva a renderla finalmente meno estranea e ostile a cittadini e imprese.
Detto questo, con un metodo che sta diventando regola e non eccezione con l’attuale governo, la conferenza stampa tenuta dal premier e dal ministro Madia dopo il Consiglio dei ministri si risolve al momento in ben 44 “titoli” di misure da assumere. Dunque la premessa obbligata è che per giudicarli davvero bisognerà necessariamente aspettare i testi del disegno di legge, a cui forse si affiancherà un decreto legge. Ed è scontato che, in campagna elettorale e con la conflittualità tra forze politiche e interna al Pd, distinguo, obiezioni e scontri siano obbligati.
Ma alcune cose si possono dire. Intanto, sul metodo per tradurle in testi definitivi. Poi, su ciò che sembra mancare rispetto alle attese. Infine, su alcuni dei “titoli” più promettenti. E su quelli che difficilmente troveranno attuazione.
Per prima cosa, il governo mostra di sapere bene che metter mano a una ricognizione e razionalizzazione generale della Pa e dei suoi oltre 3,2 milioni di addetti (si sommano poi quelli delle municipalizzate) è un’opera di Sisifo. Coraggiosa, ma immane. Di conseguenza i testi rimarranno in consultazione con le Autonomie, i sindacati, ogni pubblico dipendente e cittadino italiano, per 40 giorni sino all’approvazione dei testi definitivi, in un Consiglio dei ministri che si terrà il 13 giugno. Sorridiamo per un secondo sull’enfasi futurista che vibra nell’indirizzo a cui ciascuno potrà inviare le sue proposte – [email protected]. Dico “sorridiamo” volutamente per understatement, quello che manca programmaticamente al governo. Il punto è che tutte le misure che riguardano la Pa “decentrata”, non si adottano senza consenso delle Regioni, e che la consultazione generale “traveste” il duro confronto con sindacati e associazioni della dirigenza pubblica, che sono sul piede di guerra e pronti a impugnative di massa presso Tar, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale.
La lettera ai dipendenti pubblici (dal sito governo.it)
Proprio le impugnative spiegano quel che ieri è mancato, e cioè il nodo degli “esuberi” che Cottarelli cifrava in 85mila unità, e che Renzi ieri ha tenuto a escludere. Come sono scomparse le tabelle di riduzione delle retribuzioni dei dirigenti pubblici, al di là del limite dei 239mila euro lordi per quelli apicali, visto che è elevatissimo il rischio di incostituzionalità di limiti posti con legge, irrispettosi di quanto stabilito in regime di autonomia contrattuale. Il mondo pubblico è diventato – con la finzione per molti versi della contrattazione “privata” – assai più privato del privato nell’intoccabilità di ruoli e salari, e più che mai pubblico nell’intangibilità del “posto”.
Eppure, se sotto elezioni Renzi non vuole neanche citare la parola “esuberi”, almeno sei delle 44 misure, i cui titoli stanno nelle quattro fitte pagine che ogni dipendente pubblico riceverà dal governo, sono evidentemente proprio volte a gestire i sovrannumerari pubblici da smaltire. Come l’abrogazione dell’istituto del trattenimento in servizio oltre i limiti già raggiunti per la pensione, da cui Renzi immagina di ricavare oltre 10mila nuovi assunti giovani nella Pa a costo zero. E la modifica dell’istituto della mobilità volontaria e obbligatoria, del tutto impossibile da giudicare finché non si capisce come il governo intenda davvero normarla (la mobilità per i “pubblici” nell’ordinamento c’è, ma non è praticamente mai attuata dalla politica: ora si parla di modificare la mobilità introducendo ambiti territoriali di prossimità per farla valere, inutile dire che il rischio è di acculare altre asimmetrie di favore rispetto al lavoro dipendente privato, tanto che verrebbe da dire che prima della riforma della mobilità pubblica la politica centrale e periferica dovrebbe semplicemente mostrare di farvi ricorso…). Ancora: si pensa al demansionamento, come alternativa alla mobilità obbligatoria. E ancora l’introduzione dell’esonero dal servizio, per coloro vicini alla pensione da lasciare anche a casa a retribuzione molto ridotta (ingiudicabile, senza quantificazione di oneri). Poi, gli incarichi a tempo per i dirigenti. E infine il licenziamento per i dirigenti – c’è già, rarissimamente applicato – che rimangano però oltre un certo tempo privi di incarico (forti rischi di impugnativa, su questo).
Quel che si è capito è che il ministro Madia non rinuncia inoltre a più vasti prepensionamenti pubblici rispetto ai tetti della riforma Fornero, mentre Renzi nicchia: ma il governo deve sapere che su questo ogni asimmetria rispetto a lavoratori e disoccupati privati a vantaggio del pubblico scatenerà un sacrosanto finimondo. Inoltre,molte di queste misure su cui i sindacati faranno battaglia è davvero valutabile senza identificazione di costi.
A parte il delicatissimo capitolo di come individuare e gestire gli esuberi, in realtà molti dei titoli della riforma suonano in un riga accattivanti: alcuni necessari se davvero il governo intende realizzare sul serio almeno tre miliardi di risparmi a regime, altri essenziali per cambiare l’efficienza della Pa.
Per tagliare i costi, tutto dipenderà da se e come verranno realizzati i promessi accorpamenti degli oltre 20 enti di ricerca pubblici, la riduzione a poche decine delle attuali migliaia di stazioni appaltanti e di spesa, la riorganizzazione del sistema delle autorità a cominciare dalla soppressione della Covip – attenti su questo, il liberista che scrive ricorda che il mercato ha bisogno di regolazione indipendente, non di ritorno ai ministeri -, la centrale unica per gli acquisti per tutte le forze di polizia, l’accorpamento di Aci, Pra e Motorizzazione civile, il taglio a non oltre 40 di prefetture e sovrintendenze. Su tutto questo, nella consultazione generale e in Parlamento, è ovvio e certo che si scatenerà l’inferno: a tutela di lobby, spese e interessi.
Mentre, per una Pa meno ostile, misure come la riforma della sospensiva amministrativa sulle opere pubbliche, criteri meno scandalosi nell’attribuzione del salario di produttività oggi diviso a pioggia tra tutti, la restrizione dell’attuale regime bulimico del concerto ministeriale, il Pin unico per i rapporti digitali tra cittadino e amministrazione, atti normativi il più possibile autoattuativi senza bisogno di decreti e circolari, sono tutte misure che variano potenzialmente – a seconda di se e come attuate davvero – tra il buono e l’ottimo.
Alcuni caveat finali. La riduzione delle municipalizzate viene enunciata, ma il governo sa che su questo da solo non può decidere nulla: a meno che non si decida a tagli energici di trasferimenti per chi non riduce, accorpa e privatizza. L’abolizione dell’obbligo di iscrizione delle imprese alle Camere di commercio susciterà una reazione durissima dal sistema camerale e d’impresa. E infine l’obbligo di rendicontazione scritta e pubblica per ogni spesa sindacale, in un Paese in cui le confederazioni in barba alla trasparenza non pubblicano un bilancio consolidato, sarebbe (stato, ndr) davvero un’ottima maniera per festeggiare il Primo maggio. Ma ai sindacati non piacerà. E non solo questo punto, temiamo.