L’importanza (enorme) di chiamarsi Quit the Doner

L'importanza (enorme) di chiamarsi Quit the Doner

Attenzione: in questo articolo potrebbero esserci comportamenti che urtano la sensibilità di chi legge, 
troppe parole spese per niente, il nome proprio di un non-blogger che dovrebbe restare anonimo,
numerosi ritardi e due probabili Walter Veltroni.

(Nota plausibile da un reportage di Quit The Doner,
che però non fa ridere perché non so rispettare
i canoni di formattazione e quindi i tempi comici)

Un pezzo di Quit arriva di norma tra le quattro e le sei del mattino. E non va aperto. Non va aperto perché lo ha finito di scrivere al massimo otto minuti prima di mandarlo, e lo rimanderà altre tre volte prima di essere abbastanza soddisfatto della versione da chiedere solamente una decina di aggiustamenti ex post. Lo scrivo perché sono invidioso di lui. Sono invidioso di chi ancora scrive di notte, perché lo fa con la passione delle persone a cui bruciano le dita, quelli che hanno un’opinione e l’urgenza di trasmetterla al mondo, quelli che in quell’urgenza mettono tutte le conoscenze di una vita in una volta e poco importa quanto poi le idee che esprimono siano condivisibili. C’è, nel non-blogger conosciuto col nome di Quit the Doner, qualcosa che manca alla maggior parte dei giornalisti da welcome coffee e conferenze stampa in stanze di velluto. Quello in cui forse mi sto trasformando e che più mi spaventa, quello che lui mi ha restituito nel giro di circa quarantott’ore nella Torino stressata, fintamente gasata e cosciente di sé del Salone del Libro.

Ho letto Quitaly, ed è un libro che non merita lo pseudonimo. È un libro che avrebbe bisogno di un nome e un cognome sulla copertina, proprio come quell’articolo che tutti in questi giorni citano, l’articolo che lo ha incoronato a prima, grande, sincera, sboccata e tagliente, nemesi di Beppe Grillo. Che se fosse stato “firmato” avrebbe avuto tutto un altro senso, il senso di chi si perde tra le pagine e le colonne feroci, e che non fa nemmeno più tanto scalpore perché incarna il sentimento di chi ha un nome da difendere e quindi vive un passo indietro rispetto allo pseudonimo. Forse sarebbe stato lasciato perdere dallo stesso Grillo, che più di una volta ha puntato il dito sulla maschera, senza rendersi conto di essere maschera lui stesso e che lo pseudonominato Doner era stato molto più sincero di tanti sostenitori innamorati della pioggia di saliva che investe le prime file ai comizi, più che delle parole del non-comico (che è come dire non-blogger e qui il cerchio si chiude). Non merita uno pseudonimo, ma lo pseudonimo è quello che si merita. Quello pseudonimo che adesso è molto di più di quanto un qualsiasi nom de plume possa sognarsi in tutta una carriera.

«Comincerà a pesare, forse» mi dice Quit tra i tavolini di San Salvario, dopo aver ripetuto un centinaio di volte che «qui è come Parigi», in uno scatto di serietà, «ma è ormai è quello che sono. Forse avrei potuto sceglierne un altro, col senno di poi, o forse è proprio lui che mi ha portato fortuna, ma non credo che mi zavorrerà più di tanto». Sì, ma prima o poi vorrai essere un nome e un cognome. «E allora lo pseudonimo finirà, più o meno nello stesso momento in cui avrò l’ennesimo attacco isterico per sentirmi chiamare continuamente “blogger”, il mio primo romanzo lo firmerò Scurati».

«Non mi chiedere il perché del nome, vecchio»
«Va bene»

Ho letto Quitaly tra una telefonata e l’altra per capire dove incrociarci, tra qualche panino nel lounge espositori e innumerevoli litri d’alcol consumati a un paio di feste (durante le quali Quit cercava di convincermi di aver visto Veltroni). Ho letto Quitaly amplificato dal vero Quit alle prese con la vera umanità allo stato brado — della peggior specie, tra l’altro — nella privilegiata posizione di chi osserva l’osservatore, e in poche ore ho capito perfettamente cosa lo rende così meravigliosamente orientato, così capace di trovare sempre il punto morbido da cui attaccare l’argomento per farlo a pezzi da dentro. Capire dove sta il problema, sottolineare il problema e distruggere l’impalcatura senza che nessuno sappia mai nemmeno che ci sei entrato. Nella situazione più confusionaria possibile vedevo girare gli ingranaggi della polemica e quando finalmente si decideva a esternarla — non che ci volesse molto, in termini di tempo — era sempre qualcosa a cui non avevo pensato, o a cui avevo pensato ma che non avrei saputo argomentare in quel modo lì. «La vedi questa gente? La metà di loro vorrebbe leccarmi i lobi delle orecchie». Probabilmente no, ma il senso è perfettamente chiaro: il nemico è di fronte a lui in qualsiasi momento e non esiste un punto che non possa colpire, un bersaglio che possa mancare, una possibilità che si sia mai lasciato scappare.

Intendiamoci, non penso che Quit abbia sempre ragione, o che sia sempre dalla parte giusta della barricata — dove per “giusta” bisogna per forza leggere “mia” — ma in una folla nutrita sa riconoscere dove scagliare il colpo e ha tutti gli strumenti per farlo costantemente a portata di mano. È un osservatore, non un guardone, è un argomentatore, non un opinionista. È un giornalista, non un blogger (l’Eta Beta della satira, dice, ma penso sia un riferimento sordido al gonnellino da cui può uscire qualsiasi cosa). E questo è quello che lo distanzia di parecchie misure dalla vera stampa, dal giornalismo digitale, dal commento all’italiana, da chi di lui in questi giorni ha scritto solamente quello che trovava nelle biografie del suo sito e dei giornali che lo ospitano. Queste sono le cose che lo tengono attaccato al suo pseudonimo e gli danno il diritto di sottolineare il marciume, di buttarla in satira senza buttarla in vacca, non il fatto di nascondersi dietro un falso nome, perché ormai quel falso nome è più caratterizzante del suo nome vero, che suona strano a sentirglielo dire quando si presenta. «Diciamo che sono uno stagista a Linkiesta, va bene? Devo mantenere l’anonimato, ma non con gli addetti stampa» e poi puntualmente la sua identità veniva fuori e di solito gli andava molto meglio di quanto temesse — almeno in un caso è andata così.

Quit guarda l’Italia e ci passa attraverso come guarda la gente sciamare al salone, le vuole bene a modo suo. Fa quello che tutte le persone che hanno il diritto di scrivere su un giornale dovrebbero: non si risparmia niente, prova in continuazione a spremere fuori dalle situazioni più di quanto si veda dalla buccia e spesso capita che quello che avanza non sia buono nemmeno per insaporire il risciacquo del tè.

Quando leggo cose come Il declino dell’impero del botox mi chiedo sinceramente come abbiamo fatto a parlare per vent’anni di Berlusconi senza cogliere una serie di punti così fondamentalmente semplici come quelli che rileva lui, nuotando nel Paese reale. La stessa definizione di Paese reale risulta paradossale se non si guarda alla realtà del Paese con quegli occhi lì, «gli occhioni spropositamente grandi» con cui si immerge nel ciarpame senza nemmeno l’accortezza di turarsi il naso, per poi uscirne con un’idea. Che è molto di più di quanto si possa dire della maggior parte degli scrittori italiani contemporanei — non me ne vogliate, ma quest’uomo tira fuori l’anima e non posso non essere sincero — che provino a tracciare l’ennesimo spaccato di un Paese che non esiste, o che esiste soltanto nelle ricostruzioni da plastico in seconda serata. L’Italia ha gli occhiali a specchio e popola Gallipoli e in genere non gliene frega niente di niente di cosa c’è oltre le lenti. Quit, amico mio, ci hai preso in pieno.

L’Italia di Quitaly è la vera Italia, perché mai e poi mai vorrebbe essere raccontata da uno come Quit. Che parla schietto e incassa un “puerile” senza battere ciglio o incazzandosi come una bestia nel suo piccolo. Ma in fondo cosa importa? «Sono un ex senatore a vita del Pd» non è il suo modo di aggirare una domanda, o di evitare un’affermazione, ma di farti capire che comunque quello che c’è di importante non passa attraverso la sua realtà, ma dalla realtà oggettiva, e che il compito dell’osservatore, del non-blogger, è quello di inscatolare quella realtà, di commentarla per quello che è in quel momento perché quando si accenderà il dibattito, quando ne parleranno tutti gli altri, il momento sarà passato e avrà avuto ragione chi ha parlato per primo. Il talento di Quit sta in una rara forma di grafomiania positiva mischiata a una quasi totale maniacalità nello studio delle fonti, che spesso lo conduce a una verbosità patologica, ma che lo rende praticamente inattaccabile — ripeto, senza avere per forza ragione.

La cosa a cui più mi sono affezionato del dribblare ed evitare, dello sgusciare e svicolare attraverso la folla ottusa del salone con il non-blogger alle calcagna è che fosse lui a fare le domande. Chiedeva quello che gli veniva in mente per collocarsi in un ambiente che non padroneggiava e poi, quando finalmente ci fermavamo, produceva il suo pensiero. Questa è forse la cosa più importante che ho imparato dall’ex onorevole Doner: l’importanza di formarsi un’opinione, prima di dare la propria. E con un Paese come l’Italia è talmente facile sgranare il Grand Tour di giudizi senza farsi troppi scrupoli, che verrebbe da pensare che fare il contrario pur stando dietro pseudonimo comporti uno sforzo doppio. Triplo, se per natura siete polemici e avete la tendenza a farla lunga. Questo è quello che lo salva, che lo eleva, che lo rende obiettivo pur ponendosi sempre un passo sopra all’obiettività, questo, e il suo vero nome, che per ora è Quit, poi staremo a vedere.

«Oh, grazie»

(Cosa che potrebbe dire l’ex senatore Doner, se volesse)

«Prego, Enrico»

(Cosa che gli direi io se sapessi come si chiama)

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