L’Italia stenta a riprendersi. Nell’ultimo anno, il pil si è contratto ancora dell’1,9 per cento. Nel mercato del lavoro sono stati persi 478mila posti. Per la prima volta dall’inizio della crisi la riduzione dei consumi è stata maggiore di quella del reddito. E anche gli investimenti sono diminuiti, forse perché in Italia avviare un’impresa costa il triplo della media Ue. Sono alcune delle informazioni contenute nel rapporto annuale 2014 dell’Istat che fotografa la situazione del Paese.
I più colpiti dalla crisi sono i giovani, soprattutto quelli meridionali, mentre l’indice di vecchiaia della popolazione è tra i più alti al mondo. L’80% dei ragazzi cerca lavoro per conoscenze e non attraverso i canali tradizionali e in cinque anni in 100mila sono andati via dall’Italia a cercare fortuna. Anche le donne hanno risentito della situazione congiunturale: molte sono entrate nel mercato del lavoro a causa della crisi occupazionale dei partner, ma senza ottenere condizioni migliori di conciliazione vita-lavoro. La spesa sociale dei Comuni, in effetti, risulta in diminuzione rispetto all’anno precedente.
Il rapporto debito/Pil è salito al 132,6% nel 2013, con un aumento di oltre 29 punti dal 2007, circa 12,5 punti oltre il massimo del 1996. Alcuni spiragli di ripresa arrivano solo dai consumi e dalla crescita del fatturato delle imprese, soprattutto grazie all’export.
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Ecco il rapporto in pillole:
L’evoluzione dell’economia italiana
L’economia italiana
Nel 2013, il Pil in volume italiano si è contratto nuovamente (-1,9%), riportando il livello dell’attività economica leggermente al di sotto di quello del 2000; nel quarto trimestre si è registrato un timido segnale di ripresa economica dopo nove trimestri consecutivi di contrazione dell’attività (+0,1% su base congiunturale). Tuttavia, la stima flash relativa al primo trimestre del 2014 ha evidenziato una nuova flessione (-0,1%).
La spesa per consumi delle famiglie è calata per il terzo anno consecutivo (-2,6%), seppure con un’intensità minore rispetto a quella del 2012 (-4%). Il reddito disponibile delle famiglie consumatrici in termini reali (cioè il potere di acquisto delle famiglie) ha registrato in media d’anno un calo dell’1,1% (rispetto al -4,6% del 2012).
Le esportazioni nette hanno fornito un contributo positivo alla crescita economica (per 0,8 punti percentuali): le esportazioni di beni e servizi sono cresciute nel 2013, seppure marginalmente, rispetto all’anno precedente (0,1%), le importazioni hanno invece registrato un nuovo calo
(-2,8%).
Nel 2013 l’inflazione è calata nettamente, in un quadro caratterizzato dal perdurare della fase di recessione economica e di debolezza della domanda di beni di consumo. Nella media del 2013, il tasso di crescita dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività si è più che dimezzato, scendendo all’1,2% dal 3% del 2012.
La fase di rallentamento dell’inflazione è proseguita nel 2014. La variazione tendenziale dell’indice nazionale dei prezzi al consumo è scesa a marzo allo 0,4%, per poi risalire allo 0,6% in aprile.
Il mercato del lavoro
Nel 2013 l’occupazione è diminuita di 478 mila unità (-2,1% rispetto al 2012), è il calo più elevato dall’inizio della crisi. Contemporaneamente, il tasso di disoccupazione ha continuato a crescere, dal 10,7% del 2012 al 12,2%.
Nell’industria in senso stretto, l’occupazione si è contratta in misura marcata (89 mila occupati in meno, -1,7%). L’utilizzo della Cassa integrazione guadagni nel settore (da 71 a 64,6 ore effettivamente utilizzate per mille ore lavorate) ha contributo a un lieve recupero delle ore effettivamente lavorate per dipendente (+0,2% l’indicatore per le imprese con almeno dieci dipendenti).
Le costruzioni hanno registrato il calo maggiore: l’occupazione si è ridotta di 162 mila individui
(-9,3%, -9% in termini di input di lavoro).
Nei servizi, la riduzione degli occupati è stata pari a 191 mila unità (-1,2%).
La diminuzione dell’occupazione ha riguardato in particolare i contratti a termine (-6,1%). Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è cresciuto fortemente nell’anno (+4,5 punti percentuali, toccando il 40%) e l’incidenza della disoccupazione di lunga durata (la quota di disoccupati in cerca di lavoro da più di un anno) è salita al 56,4%.
In marzo, si sono osservati i primi segnali di ripresa dell’occupazione (+0,3%), circa 73 mila occupati in più rispetto a febbraio (dati destagionalizzati).
Il tasso di disoccupazione si è stabilizzato nei primi tre mesi dell’anno attorno a quota 12,7% (ultimo dato destagionalizzato relativo a marzo).
Le prospettive occupazionali sono in miglioramento per la manifattura, e in linea con la media di lungo periodo, mentre permangono sotto questa soglia nelle costruzioni e, in misura più significativa, nel settore dei servizi.
I settori produttivi
Nel 2013, la produzione industriale ha segnato una nuova flessione (-3,2%). Tuttavia, nel quarto trimestre si è registrata una variazione positiva su base congiunturale (+0,6) dopo 10 trimestri di contrazione.
Nel corso dei primi mesi del 2014, gli indicatori anticipatori hanno mostrato segnali di recupero. Sia il clima di fiducia dei consumatori sia quello della manifattura hanno evidenziato un deciso rafforzamento, tornando sui livelli di luglio 2011; in miglioramento è risultata anche la fiducia del comparto del commercio al dettaglio, mentre nelle costruzioni ha continuato a prevalere l’incertezza.
Nel 2014 gli indicatori di attività industriale mostrano segnali di moderato incremento. Alla marcata crescita dell’indice generale della produzione in gennaio (+1% su base congiunturale, in termini destagionalizzati) è seguita sia in febbraio sia in marzo una flessione (0,4 e 0,5% rispettivamente), dovuta al calo del comparto energetico. Al netto di questo si registra per l’insieme della manifattura un aumento dello 0,8% su base trimestrale e un calo dello 0,5 per l’ultimo mese.
Questi andamenti non si sono però ancora tradotti in una maggior diffusione del recupero di attività tra i settori manifatturieri: la quota di settori in crescita, dopo i picchi nei mesi di agosto e ottobre, prossima al 60%, nel bimestre dicembre-gennaio si è infatti attestata a circa il 57%.
Nei primi mesi del 2014 è proseguito rispetto all’ultimo trimestre 2013 l’aumento del fatturato, trainato principalmente dalla domanda estera (+0,9% nella media dei primi tre mesi dell’anno al netto della stagionalità), torna positivo anche il contributo fornito da quella interna (+0,3%).
La debolezza della domanda interna in questo primo scorcio d’anno si rileva anche nei dati degli ordinativi: in calo quelli interni (-1,1% nella media dei primi tre mesi rispetto al quarto trimestre 2013), in crescita quelli esteri (+2,5%).
Prospettive per l’economia italiana nel prossimo biennio
Nel 2014 si prevede un aumento del prodotto interno lordo (Pil) italiano pari allo 0,6% in termini reali. Per il biennio successivo, la crescita dell’economia italiana si attesterebbe all’1% nel 2015 e all’1,4% nel 2016. Queste previsioni sono tuttavia soggette a rischi e incertezza derivanti dall’andamento della domanda globale, dalle condizioni di accesso al credito e dagli effetti delle politiche economiche.
Nel 2014 la crescita del Pil sarebbe guidata in larga misura dal contributo della domanda interna al netto delle scorte (+0,4 punti percentuali).
Quest’ultima troverebbe sostegno nella risalita della spesa per consumi delle famiglie (a sua volta supportata da un incremento del reddito disponibile nominale superiore all’inflazione) e dal recupero dei tassi di accumulazione, grazie alle aspettative di ripresa del ciclo economico, nell’ipotesi di una graduale distensione delle condizioni di accesso al credito.
Negli anni successivi, aumenterebbe il supporto fornito dalle componenti interne di domanda (+0,9 punti percentuali nel 2015, +1,3 punti percentuali nel 2016) grazie al rafforzamento della dinamica dei consumi e degli investimenti.
La domanda estera netta sosterrebbe la crescita nel triennio di previsione in misura più contenuta che nel recente passato (rispettivamente per due decimi di punto nel 2014 e per un decimo di punto percentuale nel 2015 e nel 2016).
Le importazioni di beni e servizi tornerebbero a crescere nel periodo di previsione, sostenute dalla ripresa della spesa per consumi privati e, soprattutto, degli investimenti produttivi e delle esportazioni.
L’export beneficerebbe del consolidarsi della domanda internazionale e dell’atteso deprezzamento del tasso di cambio dell’euro.
Riduzione del potere d’acquisto delle famiglie e comportamenti di consumo e risparmio
Nel 2013 è tornata ad aumentare la propensione al risparmio (ovvero il risparmio lordo sul reddito disponibile), risalita al 9,8% dopo il minimo storico dell’8,4% toccato nel 2012.
Per la prima volta dall’inizio della crisi, nel 2013 la riduzione dei consumi è stata maggiore di quella del reddito. Dopo qualche anno di contrazione dei redditi reali e probabilmente in seguito al diffondersi della percezione che la crisi non era conclusa, sembra che le famiglie abbiano smesso di finanziare la spesa contraendo il risparmio.
È emersa una tendenza a riportare il rapporto tra consumo e reddito su livelli più contenuti, maggiormente in linea con la situazione prevalente negli altri paesi.
Nella prima fase della recessione le famiglie con forti vincoli di bilancio hanno iniziato a contrarre i propri livelli di spesa; nel 2012, invece, la spesa in termini nominali si riduce anche per i nuclei con livelli di spesa più elevati.
Tra il 2007 e il 2012, solo le famiglie di ritirati dal lavoro hanno conservato livelli medi di consumo mensile positivi. Nel 2011 e nel 2012 si è ridotta in misura marcata la spesa delle famiglie di lavoratori autonomi e di operai, specie di quelle monoreddito e con un elevato numero di componenti. Nel 2012 si è registrato il primo importante calo della spesa per le famiglie del Nord, dopo che negli anni precedenti i cali più marcati avevano riguardato le famiglie nel Mezzogiorno.
Gli investimenti del settore privato: l’impatto delle condizioni di incertezza e di liquidità
Dopo la forte contrazione del 2012 (-8%), gli investimenti hanno continuato a scendere nel 2013, seppure a ritmi meno accentuati (-4,7%). La caduta è stata amplificata dall’elevato livello d’incertezza e dalle condizioni di scarsa liquidità che caratterizzano l’attuale fase della crisi.
Il calo degli investimenti è stato determinato dall’andamento delle componenti in costruzioni e in macchine e attrezzature (-6,7% e -6,3% rispettivamente), mentre gli investimenti in mezzi di trasporto hanno registrato un marcato incremento (+12,9%).
In una simulazione si ipotizza che il valore dell’indice dell’incertezza per l’Italia sia uguale a quello registrato dalla media di Francia, Germania e Spagna e le condizioni di liquidità per il biennio 2012-13 esibiscano una caduta più contenuta di quella effettivamente verificatasi, ritornando gradualmente vicino ai livelli pre-crisi.
I risultati della simulazione mostrano come gli investimenti in Ict (tecnologie dell’informazione e comunicazione) siano la componente più sensibile alle mutate condizioni di incertezza e liquidità; gli investimenti in macchinari, attrezzature e fabbricati non residenziali avrebbero invece subìto un effetto negativo più contenuto.
La differenza positiva tra il livello degli investimenti totali nel regime simulato e in quello attuale è del 4,7%. Per l’intero periodo, la crescita degli investimenti avrebbe avuto un impatto positivo sia sul Pil (+0,4%) sia sulle unità di lavoro (+0,2%).
Fattori congiunturali e strutturali alla base dell’evoluzione del saldo negli scambi con l’estero
Il saldo commerciale dell’Italia ha raggiunto lo scorso anno i 30,4 miliardi di euro (quasi 85 miliardi al netto dei prodotti energetici), con un forte miglioramento rispetto al 2012.
L’andamento del 2013 è stato determinato da una serie di fattori di natura prevalentemente congiunturale (la debolezza della domanda interna e la dinamica dei prezzi delle materie prime energetiche) ma anche da tendenze strutturali (il maggior contenuto di importazioni della domanda finale rispetto al passato).
Il grado di penetrazione delle importazioni di merci e servizi (misurato dal rapporto tra il valore delle importazioni e quello della domanda nazionale), che riflette nel medio-lungo periodo la capacità di attivazione delle importazioni da parte della domanda interna, risulta nella media 2012-13 su un livello sostanzialmente più elevato rispetto a quello del precedente decennio.
È cresciuta anche la propensione a esportare (rapporto tra il valore delle esportazioni e il valore della produzione) per i prodotti manufatti, dal 33,7% nel 2008 ad oltre il 40% nel 2013.
A fronte di un’eventuale ripresa della domanda interna e di un incremento nei prezzi internazionali delle materie prime, l’avanzo commerciale sarebbe destinato a deteriorarsi rapidamente se non controbilanciato da una sostanziale e persistente ripresa dell’export, sostenuta da imprese con una maggiore capacità competitiva sui mercati internazionali.
Nei primi mesi del 2014 le esportazioni italiane in valore hanno mostrato una dinamica positiva sui mercati Ue, con un leggero incremento rispetto agli ultimi due mesi del 2013 (+0,2%, dati destagionalizzati), più marcato se confrontato con i due mesi corrispondenti dello scorso anno (+4,3%).
Al contrario, la dinamica delle vendite sui mercati extra Ue è risultata in riduzione: nei primi tre mesi del 2014 il valore dell’export è caduto sia rispetto al quarto trimestre 2013 (-0,5%), sia rispetto al primo (-1,8%).
La recente dinamica dei prezzi al consumo in Italia e i possibili rischi di deflazione
Alla luce dei dati più recenti, la diminuzione dell’inflazione emerge come fenomeno esteso a tutti i paesi dell’aerea euro, sebbene con sostanziali differenze per durata e intensità.
Rispetto ai paesi Uem, in Italia il processo di riduzione dell’inflazione ha preso avvio con relativo ritardo, ma è risultato più accentuato. Il differenziale inflazionistico tra l’Italia e l’Uem, pari a otto decimi di punto percentuale nella media del 2012, si è rapidamente ridotto nel corso del 2013, risultando in media d’anno negativo per un decimo di punto.
Tuttavia, considerando la sola componente di fondo (al netto dei beni energetici e degli alimentari non lavorati), la discesa dell’inflazione nel corso del 2013 è risultata più lenta e sostanzialmente in linea con la media dei paesi dell’area dell’euro.
Sul rallentamento della dinamica inflazionistica hanno inciso in misura preponderante l’andamento dei prezzi internazionali dei beni energetici e il calo dei prezzi dei beni intermedi; tra i beni di consumo, quelli durevoli hanno in genere mostrato un andamento declinante.
Tali andamenti hanno riguardato tutto il processo di formazione dei prezzi, a partire dalla dinamica dei prezzi dei prodotti industriali importati.
Per quanto riguarda le attese di breve termine, la dinamica dei prezzi al consumo dovrebbe continuare a essere caratterizzata da bassi tassi di crescita. Le condizioni di domanda internazionale potrebbero favorire, nei prossimi mesi, un moderato recupero delle quotazioni delle materie prime energetiche e industriali.
Anche se il rischio di deflazione appare poco probabile, uno scenario di crescita molto contenuta dei prezzi costituisce per l’Italia, e più in generale per tutti i paesi maggiormente coinvolti nel processo di risanamento, un problema da non sottovalutare.
Secondo la Banca Mondiale, avviare un’impresa in Italia richiede sei giorni, alla stregua della Francia, molti meno che nel Regno Unito, Germania e Spagna (da 12 a 24), ma costa il triplo rispetto alla media Ue in termini di capitale minimo e costi procedurali.
Tempi e costi della giustizia civile sono ancora penalizzanti per le imprese italiane: la risoluzione delle dispute è più lunga (1.185 giorni, il doppio della media Ue) e più costosa che nei principali paesi Ue.
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La struttura produttiva italiana è ancora molto frammentata: nel 2012 sono attive circa 4,4 milioni di imprese che impiegano circa 16,7 milioni di addetti (una media di 3,8 addetti per impresa). Il peso preponderante delle imprese con meno di 10 addetti (95% delle unità produttive, circa 46% dell’occupazione) caratterizza l’Italia nel contesto europeo, insieme all’elevato grado di imprenditorialità (64 imprese ogni 1.000 abitanti).
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Rispetto ai paesi Ue, l’Italia mostra una quota elevata di export afferente alle piccole e medie imprese (circa il 54%), molto superiore a quella delle altre grandi economie europee.
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Le imprese estere controllate dalle multinazionali italiane occupano 1,7 milioni di addetti. La loro presenza è in aumento tra il 2007 e il 2011: +1.600 unità (pari a +8,1%) e +250 mila addetti esteri (+18,4%).
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Il nostro Paese stenta ad attrarre investimenti diretti esteri (Ide). Nel 2011 sono circa 13 mila 500 le imprese a controllo estero; esse occupano quasi 1,2 milioni di addetti e spiegano il 13,4% del valore aggiunto del sistema produttivo (meno che in Francia, Germania e Spagna).
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L’Italia investe in Ricerca e Sviluppo (R&S) una quota di Pil distante dall’obiettivo definito da Europa 2020 (1,25% a fronte dell’1,53%). Il ritardo è vistoso anche nella spesa delle imprese (0,7% del Pil contro 1,3% della media Ue27). Quasi un quarto di questa spesa si deve a multinazionali estere.
Nel 2013 i livelli dell’attività produttiva sono rimasti inferiori a quelli del 2008, in particolare nelle costruzioni (-28% di valore aggiunto) e nella manifattura (-17,5%), meno nell’agricoltura e nei servizi (rispettivamente -6,4 e -3,9%).
La mappa dell’efficienza produttiva
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Nuove fonti statistiche integrate consentono di stimare una mappa dell’efficienza delle imprese italiane. Tenendo conto della specializzazione produttiva, l’adattamento fra tecnologia del settore e dimensione premia le piccole e medie imprese rispetto alle grandi (rispettivamente +4,1, +3,6 e +2,3 punti rispetto alla media nazionale). La metà delle microimprese (meno di 10 addetti) mostra livelli di efficienza superiori di 1,9 punti percentuali alla media nazionale.
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Sul piano territoriale (e tenuto conto della specializzazione produttiva) l’efficienza media delle imprese delle regioni del Nord si colloca al di sopra della media nazionale, sebbene con un’accentuata variabilità: +3,5 punti per il Trentino Alto-Adige, +1,6 per la Lombardia, fino a +0,2 punti della Liguria. Le regioni del Centro e del Sud rimangono invece al di sotto della media nazionale, passando da -0,03 punti della Toscana e -0,08 punti del Lazio a
-2,4 punti del Molise e -2,6 della Calabria. Tuttavia, in tutte le regioni almeno una impresa su due registra un grado di efficienza superiore al valore medio nazionale.
La domanda di lavoro
Nella prima parte del 2013 la riduzione tendenziale del monte ore lavorate, pari al 2,3%, è dovuta per circa due terzi alla contrazione delle posizioni lavorative e per il rimanente terzo alla diminuzione delle ore lavorate pro capite. Nel quarto trimestre 2013 le ore lavorate pro capite sono cresciute dello 0,4% rispetto alla fine del 2012, ma l’ulteriore riduzione delle posizioni lavorative (-1,4%) non ha arrestato il calo del monte ore lavorate (-1%).
A fine 2013, il ricorso alla Cassa integrazione guadagni (Cig) è ancora elevato nell’industria: circa 72 ore di Cig per mille ore lavorate nelle imprese con almeno 500 addetti, 59 in quelle di dimensione inferiore. Nei servizi, l’utilizzo è molto meno rilevante (non più di 20 ore Cig per mille lavorate), ma la Cassa integrazione è in costante aumento dalla fine del 2008 a oggi, soprattutto nelle imprese con meno di 500 dipendenti.
I dati relativi a circa 800 mila imprese con dipendenti dell’industria e dei servizi (rappresentative di circa il 60% degli addetti al sistema produttivo) confermano le difficoltà nel triennio 2011-2013: le posizioni lavorative sono scese del 6,7% nell’intero periodo (quasi 586 mila unità in meno), dell’1,8% nel periodo 2011-2012 e del 4,9% fra il 2012 e il 2013. Il calo occupazionale ha colpito le imprese di tutti i settori: -8,4% nelle costruzioni (oltre 58 mila unità in meno); -7% nei servizi alle imprese (oltre 110 mila unità) e in quelli alla persona (oltre 45 mila unità), -6,5% nell’industria in senso stretto (oltre 163 mila unità), -6,3% nel comparto del commercio, trasporti e pubblici esercizi (oltre 208 mila unità). In tutte le province italiane la percentuale di posti distrutti è superiore a quella di posti creati.
Tra il 2011-2012 e il 2012-2013 diminuisce il contributo positivo delle imprese che aumentano l’occupazione: da +5% del 2012 (circa 433 mila unità in più) a +4,3% del 2013 (+364 mila unità), ma aumenta molto la distruzione di posizioni lavorative delle imprese in flessione: dal 6,8 al 9,3%, con una espulsione di oltre 588 mila unità nel primo anno e di circa 795 mila nel secondo. Il peggioramento dell’occupazione nel 2013 deriva quindi più dall’aumento dell’impatto negativo delle imprese in flessione che dalla riduzione dell’effetto espansivo delle imprese in crescita.
Oltre una posizione lavorativa su tre create tra il 2012 e il 2013 è nel settore commercio/trasporti/pubblici esercizi; quasi una su quattro nell’industria; poco più di una su cinque nei servizi alle imprese. Quasi il 55% delle posizioni create nell’ultimo anno si deve alle microimprese (meno di 10 addetti), il 5,5% alle piccole (10-49 addetti), il 13,5% alle medie (50-249 addetti) e il 26,5% alle grandi (250 addetti e oltre). La composizione delle perdite occupazionali per dimensione d’impresa è molto simile a quella dell’occupazione creata, con quote rispettivamente pari a 51,8%, 6%, 15,4% e 26,8%).
Secondo un’indagine ad hoc sulla domanda di lavoro nelle imprese, nel 2013 le aziende della manifattura e dei servizi hanno assunto personale con contratto da lavoratore dipendente rispettivamente nel 40,6 e nel 36,5% dei casi. Tali quote sono superiori a quelle registrate per i contratti esterni (22,6 e 22,4%). Circa due terzi delle medie e delle grandi imprese manifatturiere, e oltre il 50% delle piccole, hanno dichiarato di avere assunto giovani (meno di 30 anni). Nei servizi avviene il contrario: hanno assunto giovani il 63% delle piccole imprese, il 77% delle medie e il 51,7% delle grandi.
Tra i provvedimenti in grado di portare, nell’attuale contesto congiunturale, a un aumento del numero di occupati, le imprese segnalano anzitutto una riduzione del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro (oltre il 71% nella manifattura e oltre il 76 nei servizi). Seguono la riduzione degli oneri burocratico-amministrativi (60,5% nella manifattura e oltre 66% nei servizi), la riduzione dei vincoli al licenziamento (52,6 e 49,8%), maggiori incentivi all’assunzione (43,8 e 52,1%), un miglioramento nei servizi per l’impiego (39,7 e 48,3%), un intervento sulle condizioni di accesso al credito (37,5 e 40%), l’ampliamento della contrattazione aziendale (34,3 e 37,3%).
Nonostante la crisi, tre imprese su 10 hanno mostrato forti segnali di espansione occupazionale tra il 2011 e il 2013. Questi top performers operano su scala internazionale, hanno relazioni produttive con altre imprese, tendono a fare innovazioni organizzative e di processo, investono in capitale umano, e (soprattutto) utilizzano in modo efficiente i fattori produttivi. L’efficienza è premiante per le aziende dei servizi (fa aumentare la probabilità di risultare tra i top performers di circa 6,5 punti percentuali) e, in misura più modesta, per quelle del commercio (circa 1,5 punti).
L’attività internazionale delle imprese come fattore di crescita
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In anni di domanda interna stagnante, gli stimoli alla crescita dipendono dalla capacità delle imprese di competere sui mercati internazionali.
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Tra il 2008 e il 2013 si è ridotto il peso delle vendite dirette verso l’Unione europea (dal 59,7 al 53,7%) ed è aumentato quello dei paesi emergenti, in particolare dell’Asia orientale (dal 6 all’8,3%) e dell’America centro meridionale (dal 3,3 al 3,7%).
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In Italia il ruolo dell’intermediazione commerciale nell’export è ancora limitato (14% del totale) e molto inferiore a quello dei principali paesi europei.
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Circa il 71% degli operatori all’export è attivo in più di cinque paesi, ma quasi due terzi del valore dei beni esportati (64%) si deve al 21% di imprese presenti in oltre 25 paesi. Dalla caduta del commercio internazionale del 2009, la crescita più sostenuta dell’export (+37%) è stata registrata da chi esportava in oltre 15 paesi.
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La diversificazione produttiva è meno estesa di quella geografica: il 53,6% degli operatori opera in almeno 6 paesi, vendendo fino a 10 prodotti, mentre solo il 13,6% esporta oltre 10 prodotti in almeno 15 paesi.
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In tutti i settori le imprese esportatrici sono più efficienti di quelle domestiche: il differenziale di efficienza è più ampio nei settori dei beni di consumo (i valori mediani dell’efficienza di esportatrici e non esportatrici sono pari rispettivamente a 4,3 e 2,8 punti) e dei beni d’investimento (3,7 e 2,7 punti), mentre è più contenuto nei beni intermedi (2,9 e 2,6 punti). A un livello più disaggregato, la differenza è maggiore nei comparti delle pelli (4,2 e 2,2 punti), dell’abbigliamento (4,6 e 2,7), dell’alimentare (3,4 e 2,2), dell’ottica ed elettronica (5,1 e 3,2), delle bevande (3,4 e 2,2 punti).
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Le imprese a controllo nazionale realizzano oltre il 70% delle esportazioni e circa il 44% delle importazioni. Le multinazionali estere hanno invece un ruolo rilevante nella farmaceutica (75% delle esportazioni e 90% delle importazioni) nella chimica e nel settore petrolifero (tra il 43 e il 48% sia per i flussi di export che di import). Il loro peso è invece limitato nel tessile-abbigliamento-pelli, nell’industria del legno e in quella dei mobili (meno del 10% dei flussi).
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In molti settori manifatturieri il fatturato realizzato all’estero dalle multinazionali italiane è destinato prevalentemente al mercato locale: apparecchiature elettriche (73,8%), autoveicoli (72,1%), lavorazioni di minerali non metalliferi (71,3%), macchinari (58,7%), farmaceutica (66,2%) e alimentare (68,4%). In tutte queste attività, la restante parte di fatturato è diretta in altri paesi esteri, e solo meno di un sesto viene esportata in Italia. In molti comparti del Made in Italy, invece, quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono riesportate in Italia, in particolare nei settori tessile e abbigliamento (58,2%), pelle e cuoio (39%), mobili (37,5%). Trattandosi in prevalenza di beni finali, lo stimolo alla produzione nazionale è marginale ed emerge un rischio di potenziale concorrenza con analoghe produzioni interne.
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La produzione estera delle affiliate di imprese italiane è riesportata anche in altri mercati. Di più nel caso dei settori pelle e cuoio (43,5%), legno, stampa (45,7%), petrolifero (44,9%).
Il mercato del lavoro negli anni della crisi
Nell’Unione europea dal 2008 al 2013 il numero degli occupati si è ridotto di circa 5,9 milioni (-2,6%). Il tasso di occupazione 15-64 anni è diminuito di 1,6 punti percentuali, attestandosi al 64,1%.
Nello stesso periodo, in Italia l’occupazione è diminuita di 984 mila unità (-973 mila uomini e -11 mila donne), con una flessione del 4,2% e un calo più forte nell’ultimo anno (-478 mila occupati). Il tasso di occupazione scende al 55,6% (dal 58,7% del 2008). Nel Mezzogiorno il calo è più forte
(-583 mila unità, -9%), con il tasso di occupazione pari al 42%, a fronte del 64,2% del Nord e del 59,9% del Centro.
Il calo dell’occupazione nei cinque anni è quasi esclusivamente maschile (-6,9% a fronte di -0,1% per le donne); tuttavia nel 2013 torna a calare anche l’occupazione femminile (-128 mila unità, pari a -1,4% rispetto al 2012).
Il tasso di occupazione degli stranieri si riduce di 9 punti, attestandosi al 58,1%; per gli uomini il tasso è al 67,9%, per le donne al 49,3% (rispettivamente -14 e -3,4 punti), nonostante la crescita, tra il 2008 e il 2013, degli stranieri occupati (+246 mila unità tra gli uomini e +359 mila tra le donne).
La crisi ha colpito fortemente l’industria in senso stretto e il settore delle costruzioni (-482 mila e
-396 mila occupati nei cinque anni). Tuttavia, nell’ultimo anno il calo è divenuto più consistente anche nel terziario, con una riduzione di occupazione (-191 mila unità) concentrata soprattutto nei servizi generali della Pubblica amministrazione e nel commercio.
Tra le professioni, le più colpite sono quelle operaie, con una contrazione nel 2008-2013 del 15,1% (-958 mila unità). Tra le professioni qualificate, diminuiscono dirigenti, piccoli o grandi imprenditori (-442 mila unità nel complesso, pari a -42%) e tecnici (-423 mila persone, -9,6%).
Aumentano invece gli occupati in professioni non qualificate (+350 mila unità, tra cui 319 mila stranieri) insieme a quanti svolgono professioni esecutive nelle attività commerciali e dei servizi (+467 mila unità). In quest’ultimo aggregato la crescita riguarda esclusivamente le donne (+287 mila italiane e +199 mila straniere).
Tra il 2008 e il 2013, gli occupati permanenti a tempo pieno (lavoro standard) sono diminuiti di quasi 1,4 milioni (-7,7%). Cala anche il lavoro atipico (-177 mila occupati, -6,4%), mentre cresce quello parzialmente standard, ossia il lavoro permanente a tempo parziale (+572 mila unità, +22,1%). La quota del part time involontario (sul complesso dei lavoratori part time), arriva al 71,5% tra gli uomini e al 58,1% tra le donne.
Anche se nel 2013 poco più della metà degli atipici ha un contratto che dura meno di un anno, per molti si protrae la condizione di precarietà: 527 mila atipici svolgono lo stesso lavoro da almeno cinque anni (erano il 18,3% nel 2008, il 20,2% nel 2013).
Diminuiscono i cassaintegrati che perdono il lavoro l’anno successivo: dal 30,7% del 2011-2012 al 25,5% del 2012-2013; diminuisce anche la permanenza in Cig (dal 34,1% al 32,9%) mentre aumenta il rientro in occupazione (dal 35,3% al 41,6%).
Tra il 2008 e il 2013 nel complesso della Ue28 i disoccupati sono aumentati del 56,5%, raggiungendo quota 26 milioni 200 mila nel 2013 (+9 milioni 460 mila) mentre il tasso di disoccupazione Ue28 sale al 10,8% (dal 7% nel 2008). In Italia, tale indicatore si attesta al 12,2% nell’ultimo anno (+5,4 punti percentuali rispetto al 2008); l’aumento ha riguardato soprattutto il Mezzogiorno (19,7%, +7,7 punti). Aumenta anche il tasso di mancata partecipazione (21,7% nel 2013,+6,1 punti sul 2008), quasi otto punti in più di quello europeo (14,1%).
Il numero di disoccupati in Italia è raddoppiato dall’inizio della crisi, nel 2013 arriva a 3 milioni 113 mila unità. In quasi sette casi su 10 l’incremento è dovuto a quanti hanno perso il lavoro, con l’incidenza di ex-occupati che arriva al 53,5% (dal 43,7% del 2008).
Cresce la disoccupazione di lunga durata che raggiunge il 56,4% del totale (45,1% nel 2008). Si riducono gli ingressi nell’occupazione dalla disoccupazione: se nel periodo pre-crisi (2007-2008) su 100 disoccupati 33 avevano trovato un lavoro un anno dopo, nel periodo 2012-13 questi scendono a 24.
Per ogni disoccupato, c’è almeno un’altra persona che vorrebbe lavorare. Nel 2013 il totale delle forze lavoro potenziali, ovvero gli inattivi più vicini al mercato del lavoro, arriva a 3 milioni 205 mila, con un incremento di 417 mila unità. Complessivamente, nel 2013 sono 6,3 milioni gli individui potenzialmente impiegabili. Aumentano anche gli scoraggiati, che tra le forze di lavoro potenziali sono 1 milione 427 mila individui.
I giovani tra difficoltà di ingresso e scarse opportunità
I giovani sono il gruppo più colpito dalla crisi: i 15-34enni occupati diminuiscono, fra il 2008 e il 2013, di 1 milione 803 mila unità, mentre i disoccupati e le forze di lavoro potenziali crescono rispettivamente di 639 mila e 141 mila unità. ll tasso di occupazione 15-34 anni scende dal 50,4% del 2008 all’attuale 40,2%, mentre cresce la percentuale di disoccupati (da 6,7% a 12%), studenti (da 27,9% a 30,7%) e forze di lavoro potenziali (da 6,8% a 8,3%). Le differenze di genere sono importanti: il tasso di occupazione è al 34,7% tra le donne e raggiunge il 45,5% tra gli uomini.
Anche i divari territoriali sono marcati: al Nord il tasso di occupazione è pari al 50,1% (-12,1 punti percentuali dal 2008), contro il 43,7% del Centro (-10,4 punti) e il 27,6% del Mezzogiorno (-8,4 punti).
Le differenze territoriali sono importanti anche per le quote di disoccupati (15,3% nel Mezzogiorno contro 9,3% nel Nord) e di forze di lavoro potenziali (14,3% contro 4%). Sempre nel Mezzogiorno è leggermente più elevata la quota di studenti (32%, contro il 31,4% del Centro e il 29,3% del Nord).
Tra quanti vivono ancora con i genitori, la percentuale di disoccupati e forze di lavoro potenziali diminuisce al crescere del titolo di studio dei genitori (12,3% tra i figli di laureati e 37,7% tra i figli di genitori con al più la licenza elementare).
Per cercare lavoro i giovani 15-34enni ricorrono prevalentemente alla rete informale di parenti e conoscenti (81,9%), inviano curriculum (76,3%), utilizzano Internet (63,6%) e consultano le offerte sui giornali (51,5%). Inoltre, il 39,8% sceglie un canale di intermediazione; il 29,3% il centro pubblico per l’impiego e il 20,8% altre agenzie private. Rispetto al 2008 crescono considerevolmente il ricorso a Internet (22,1 punti percentuali in più) e al centro per l’impiego (+5,8 punti), specie nel Nord.
Le azioni di ricerca considerate più efficaci da chi ha iniziato a lavorare nel 2013 sono la rete di parenti e amici (lo dichiara oltre un terzo), la richiesta diretta a un datore di lavoro (26,3%) e le precedenti esperienze di stage o tirocinio svolte presso l’azienda (11,8%). Particolarmente bassa la percentuale di chi ha trovato lavoro grazie al centro pubblico per l’impiego (appena l’1,4%) o con altre agenzie private (5,4% dei neo-occupati).
Il lavoro atipico riguarda il 25,4% dei 15-34enni, il 31,7% dei laureati. Nel 2013 si accentua la perdita di occupazione tra gli atipici: il 16,4% di quanti nel I° trimestre 2012 avevano un lavoro atipico, si trova, dopo un anno, in condizione di disoccupato o forza di lavoro potenziale (nel periodo pre-crisi erano circa il 10%).
La partecipazione al mercato del lavoro è strettamente legata all’istruzione. Tra gli uomini di 30-34 anni, l’80% di laureati o diplomati è occupato contro il 67,4% di quelli con al più la licenza media; se laureate, le donne sono occupate nel 73,6% dei casi contro il 37,5% di quelle che hanno al più la licenza media.
Nel 2013, nella media Ue28 tra coloro che hanno 20-34 anni e hanno concluso il percorso di istruzione e formazione (diploma e laurea) da uno a tre anni, il 75,4% è occupato, contro il 48,3% dell’Italia. La differenza nella quota di occupati tra Italia e Ue28 è alta soprattutto per i neodiplomati (40,8% contro 69,5%), più contenuta per i neolaureati (56,9% contro 80,7%).
Nel 2013 i giovani 15-29enni non occupati e non in formazione (Neet) raggiungono i 2,4 milioni, in crescita costante (+576 mila unità dal 2008). Tale aumento è dovuto quasi esclusivamente ai giovani che vogliono lavorare (+544 mila unità). Tra i Neet vi sono infatti circa 1 milione di disoccupati, 723 mila forze di lavoro potenziali e solo 684 mila inattivi che non cercano e non sono disponibili al lavoro (per lo più madri con figli piccoli). La percentuale dei Neet sui giovani 15-29enni arriva al 26% (35,4% nel Mezzogiorno contro il 19% nel Nord).
Nel 2012, oltre 26 mila italiani di 15-34 anni hanno lasciato il Paese, 10 mila in più rispetto al 2008, meno di quanti ne sono rientrati. Il flusso di uscita dei laureati è di 6 mila 340 unità, con un saldo di -4 mila 180 unità. Le mete di destinazione privilegiate sono Regno Unito, Germania (circa 900 emigrati in ciascun paese) e Svizzera (726).
Diminuisce il tasso di occupazione dei giovani stranieri (dal 58,5% al 47,1%) e aumentano le quote di disoccupati e forze di lavoro potenziali (rispettivamente da 6,3% a 13,4% e da 5,1% a 8,5%). La percentuale di giovani stranieri che studiano è più bassa della media nazionale (15,7%), mentre è più alta quella di quanti non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare (15,3%), specie fra le donne (26,2%), madri in quasi otto casi su dieci.
Le persone di 50 anni e più tra prolungamento della vita lavorativa e ricerca di un nuovo lavoro
Tra gli over50 crescono sia gli occupati (1 milione 70 mila unità in più, +19,1%) sia coloro che vorrebbero lavorare e non trovano il lavoro (+261 mila disoccupati e +172 mila forze di lavoro potenziali, rispettivamente +147% e +33,4%), mentre diminuiscono gli inattivi che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare (-448 mila, -4,1%). Ne consegue una polarizzazione tra quelli che permangono nell’occupazione, soprattutto per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, e chi resta fuori dal processo produttivo e non riesce a rientrare al lavoro.
Al netto delle uscite per pensione, la quota di occupati che l’anno successivo si trova senza occupazione o in Cassa integrazione passa dal 5,5% del 2007-2008 al 7,7% del 2012-2013 (8,9% nel Mezzogiorno).
Tra gli occupati 55-64enni, più coinvolti dalle riforme previdenziali, il tasso di occupazione cresce progressivamente negli anni della crisi (8,3 punti in tutto, attestandosi al 42,7%), tanto da superare quello dei giovani 15-34enni (40,2%, -10,2 punti rispetto a cinque anni prima), anche se i profili lavorativi delle due generazioni non sono facilmente sovrapponibili, per skill e esperienze.
Tra le persone con almeno 50 anni nel 2013 i disoccupati arrivano a 438 mila unità e il tasso di disoccupazione al 6,2% (3,1 punti in più rispetto al 2008). Il 73,9% dei disoccupati over49 ha perso la precedente occupazione e la quota di quanti cercano lavoro da un anno o più sale al 61,4% (in confronto al 56,4% del totale dei disoccupati). Le forze di lavoro potenziali raggiungono 688 mila unità (+33,4% in confronto al 2008). Se si considera l’insieme di disoccupati e forze lavoro potenziali, ammontano a oltre 1 milione gli over 49 che vorrebbero lavorare.
L’adeguatezza delle competenze nel mercato del lavoro
L’Italia presenta una delle più basse incidenze di laureati: il 16,3% delle persone di 25-64 anni contro il 28,4% dell’Ue28. Pur registrando una minore riduzione del tasso di occupazione (-2,8 punti in confronto ai 5,3 dei diplomati e ai 3,8 di chi ha al massimo la licenza media), i più istruiti stentano a collocarsi nel mercato del lavoro in una posizione adeguata alle proprie competenze.
Se si confronta il titolo di studio posseduto dagli occupati e quello richiesto per la professione svolta, è possibile individuare tre gruppi di occupati: coloro che svolgono una professione adeguata al titolo di studio posseduto (65,6% del totale), coloro che, rispetto a quello richiesto per svolgere la professione sono sottoistruiti, cioè posseggono un titolo di studio inferiore (2,7 milioni di occupati, il 12.5% del totale) o sovraistruiti, vale a dire hanno un titolo di studio superiore (4 milioni 875 mila occupati, il 22% del totale).
La sovraistruzione è in crescita rispetto al periodo pre-crisi (il 23% in più rispetto al 2007), ed è più elevata per le donne (25,3% contro il 21,2% degli uomini), tra i giovani 15-34enni (34,2%) e gli stranieri (40,9%).
Essere donne e madri al tempo della crisi
Nel 2013 in Italia, il tasso di occupazione femminile 15-64 anni è pari al 46,5% (-12,2 punti rispetto al valore medio della Ue28). In cinque anni (2008-2013), a fronte della forte riduzione dell’occupazione maschile (-973 mila unità, -6,9%) le donne occupate sono diminuite di 11 mila unità (-0,1%). La sostanziale tenuta dell’occupazione femminile è il risultato di un insieme di fattori: da un lato il contributo delle occupate straniere, aumentate di 359 mila unità a fronte di un calo delle italiane di 370 mila (-4,3%), dall’altro la crescita delle occupate con 50 anni e più (+613mila, circa il 30% in più) e, infine, l’incremento di quante entrano nel mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner.
Aumentano, infatti, le famiglie con donne breadwinner, ovvero quelle in cui la donna è l’unica ad essere occupata: sono il 12,2% delle famiglie con almeno un componente 15-64 anni (erano il 9,4% nel 2008), in confronto al 26,5% di quelle con unico breadwinner uomo (stabile rispetto a cinque anni prima).
Tra le donne straniere, a fronte dell’aumento delle occupate di 15-49 anni (+233 mila in più rispetto al 2008, +38,4%), si registra un calo del tasso di occupazione (dal 51,4% al 47,1% del 2013). In presenza di figli la situazione delle straniere è ancora più critica: le madri straniere 15-49enni hanno un tasso di occupazione (42,4%) di gran lunga inferiore non solo a quello delle madri italiane (56,2%), ma anche a quello delle donne straniere che vivono sole (78,3%) o in coppia senza figli (55%).
Peggiora la situazione di conciliazione dei tempi di vita delle donne. Cresce la quota di donne occupate in gravidanza che non lavora più a due anni di distanza dal parto (22,3% nel 2012 dal 18,4% nel 2005), soprattutto nel Mezzogiorno dove arriva al 29,8%. Le più esposte al rischio di lasciare o perdere il lavoro sono le neo-madri che lavoravano a tempo determinato (45,7% nel 2012), quelle con titolo di studio basso (30,8%, rispetto al 12,3% delle laureate), le lavoratrici del Mezzogiorno (29,8%). Inoltre, aumenta la quota di occupate con figli piccoli che lamentano le difficoltà di conciliazione (dal 38,6% del 2005 al 42,7% del 2012).
Poco più della metà delle neo-madri continua a contare prevalentemente sull’aiuto dei nonni quando è al lavoro, ma cresce il ricorso al nido (35,2%, contro il 27,4%), soprattutto se privato (la cui fruizione passa dal 13,9% del 2005 al 21,1% del 2012).
La crisi peggiora i divari territoriali
Il Mezzogiorno perde più occupazione rispetto al resto del Paese fin dall’inizio della crisi. Il tasso di occupazione maschile del Mezzogiorno, già inferiore di quasi dieci punti alla media nazionale nel 2008, continua a diminuire con un ritmo più accentuato, attestandosi al 53,7% nel 2013. Le donne, invece, mostrano in tutto il periodo un tasso di occupazione particolarmente basso nel Mezzogiorno, dove lavora solo una donna su tre.
Il calo dell’occupazione si ripercuote sulla composizione familiare e la presenza di occupati all’interno delle mura domestiche. Nel Mezzogiorno, da un lato si riducono ulteriormente le famiglie con almeno un componente tra 15 e 64 anni e senza pensioni da lavoro che possono avvalersi di due o più occupati in casa (dal 25,2% al 21,4%); dall’altro, crescono quelle in cui non è presente alcun occupato (dal 14,5% al 19,1%).
Se nelle regioni del Centro-Nord la crescita delle famiglie con almeno un componente in età lavorativa senza pensionati da lavoro e con la sola donna occupata si associa alla sostanziale stabilità di quelle con solo l’uomo occupato, nel Mezzogiorno l’incremento delle donne breadwinner (che arrivano al 10,1% del totale nel 2013, con un aumento del 33,1% rispetto a cinque anni prima) si associa alla riduzione delle famiglie in cui è solo l’uomo a lavorare (-4,5%, che scendono così al 30,2%).
Le regioni del Mezzogiorno aumentano ulteriormente la loro distanza dal resto del Paese anche considerando il tasso di mancata partecipazione, che nel 2013 raggiunge il 36,7% contro il 13,2 del Nord, con incrementi importanti dal 2008 (+7,1 punti percentuali e +5,9 punti rispettivamente).
Una lettura longitudinale delle dinamiche dell’occupazione
Se si considerano gli occupati tra 16 e 61 anni nel 2009, si identificano gruppi di individui con profili diversi nei tre anni successivi. L’86,1% di quanti lavorano nel 2009 è occupato anche nei tre anni successivi (“sempre occupato”), il 6,8% è non occupato solo in una delle tre interviste successive alla prima (“per lo più occupato”) e, infine, il 7,1% sperimenta almeno due stati di non occupazione nelle tre interviste successive (“per lo più non occupati” o “mai più occupati”).
Anche al netto di altri fattori considerati, il rischio di uscire, temporaneamente o ripetutamente, dall’occupazione è più alto per gli atipici, fra coloro che risiedono nel Mezzogiorno, fra le donne e i giovani con meno di 34 anni. Inoltre, tale rischio è considerevolmente più alto tra coloro che percepiscono redditi da lavoro più bassi.
All’aumentare del titolo di studio si riduce invece il rischio di passare verso stati di non occupazione ripetuta. Inoltre, rispetto ai meno istruiti, per i diplomati è anche meno probabile avere un solo stato di non occupazione in una delle tre occasioni successive.
I percorsi lavorativi femminili si caratterizzano per una maggiore vulnerabilità: il 17,5% delle occupate nel 2009 ha sperimentato almeno uno stato di non occupazione nei tre anni considerati, contro l’11,3% degli uomini.
Gli occupati con meno di 34 anni che perdono il lavoro almeno una volta tra il 2009 e il 2012 raggiungono il 20,4%, contro una media del 13,9%.
Le tendenze demografiche e le trasformazioni sociali
Si vive sempre più a lungo ma resta bassa la propensione ad avere figli. Nel 2012 la speranza di vita alla nascita è giunta a 79,6 anni per gli uomini e a 84,4 anni per le donne (rispettivamente superiore di 2,1 anni e 1,3 anni alla media europea del 2012). Allo stesso tempo nel nostro Paese persistono livelli di fecondità molto bassi, in media 1,42 figli per donna nel 2012 (media Ue28 1,58).
L’indice di vecchiaia è tra i più alti al mondo. Al 1° gennaio 2013 nella popolazione residente si contano 151,4 persone over65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Tra i paesi europei solo la Germania ha un valore più alto (158), mentre la media Ue28 è 116,6.
Dal 2008 si è invertito il trend di crescita della natalità in atto dal 1995. Nel 2013 si stima che saranno iscritti in anagrafe per nascita poco meno di 515 mila bambini, circa 64 mila in meno in cinque anni e 12 mila in meno rispetto al minimo storico delle nascite registrato nel 1995.
Le donne italiane in età feconda fanno pochi figli (in media 1,29 per donna) e sempre più tardi (a 31 anni in media il primo figlio). Inoltre sono sempre meno numerose per via dell’uscita dall’esperienza riproduttiva delle “baby-boomers” e, più in generale, delle nate fino alla metà degli anni ’70. In termini numerici, queste generazioni sono circa il doppio delle coorti di donne più giovani che stanno entrando nel pieno della loro storia riproduttiva.
La popolazione femminile straniera in età feconda sta rapidamente “invecchiando”: la quota di donne straniere in età 35-49 anni, rispetto al totale delle donne straniere in età feconda (15-49 anni), è aumentata di 6 punti percentuali dal 2005 al 2013, passando dal 41 al 47%. Pur mantenendosi su livelli di fecondità decisamente più elevati di quelli delle donne italiane, il numero medio di figli per donna delle cittadine straniere (2,37 nel 2012) è anch’esso in rapida diminuzione e il loro contributo alla fecondità complessiva della popolazione si va progressivamente riducendo.
Gli ingressi di cittadini stranieri si sono attenuati con la crisi, 321 mila nel 2012 (il 27,7% in meno rispetto al 2007), mentre è in aumento il numero di stranieri che lasciano l’Italia, circa 38 mila cancellazioni nel 2012 (+17,9% rispetto all’anno precedente).
Sono sempre più numerosi gli italiani che si trasferiscono all’estero: aumentano gli espatri e calano i rientri. Nel 2012 gli italiani di rientro dall’estero sono circa 29 mila, 2 mila in meno rispetto all’anno precedente; al contrario, è marcato l’incremento dei connazionali che decidono di trasferirsi in un paese estero. Il numero di emigrati italiani è pari a 68 mila unità, il più alto degli ultimi dieci anni, ed è cresciuto del 35,8% rispetto al 2011.
Le migrazioni interne dal Mezzogiorno verso il Centro-nord comportano un ingente trasferimento di capitale umano: permane infatti un saldo migratorio sempre negativo che, in media, nel decennio 2003-2013 è pari a 87 mila unità all’anno.
Prosegue l’aumento del numero di famiglie mentre diminuisce la loro dimensione. Dal 2006 al 2013 il numero totale di famiglie cresce del 7,6%, passando da 23 milioni (in media 2006-2007) a 25 milioni (in media 2012-2013). Contemporaneamente, prosegue la diminuzione del numero medio di componenti per famiglia, che si attesta nel 2011 a 2,4, con punte massime in Campania (2,8) e minime in Liguria (2,1).
Alcune famiglie, tuttavia, si ricompattano. Un fenomeno emergente è proprio la crescita, tra il 2006-2007 e il 2012-2013, delle famiglie con due o più nuclei, che nell’ultimo periodo sono pari a 370 mila unità. Le persone di 15 anni e più che vivono in famiglie con più nuclei sono 1 milione e 567 mila (+ 438 mila unità nell’ultimo quinquennio). La ricompattazione delle famiglie si va realizzando con il rientro dei figli nei nuclei genitoriali dopo separazioni, divorzi, emancipazioni non riuscite o attraverso la coabitazione con parenti.
La rete di parentela si modifica in seguito alle trasformazioni demografiche e sociali e sarà sempre meno in grado di fornire aiuti ai suoi membri più fragili. L’invecchiamento della popolazione comporta un aumento dei bisogni di cura da parte dei grandi anziani e per periodi della vita sempre più dilatati ma, allo stesso tempo, diminuiscono le persone che possono fornire aiuti.
L’Italia è settima tra i 28 paesi Ue per la spesa per la protezione sociale (29,7% del Pil nel 2011 contro il 29% della media europea). L’Italia è però uno dei paesi che destinano la quota più elevata alla previdenza (oltre il 52% della spesa per la protezione sociale del 2011 contro il 40% della media Ue28).
Il sistema sanitario nazionale: un difficile equilibrio tra efficienza e qualità
L’incremento costante degli anziani fa aumentare la fascia di popolazione più esposta a problemi di salute di natura cronico-degenerativa. Oltre la metà della popolazione ultrasettantacinquenne soffre di patologie croniche gravi. In particolare, nella classe di età 65-69 anni e 75 e oltre, le donne che soffrono di almeno una cronicità grave rappresentano, rispettivamente, il 28 e il 51%.
Il diabete, i tumori, l’Alzheimer e le demenze senili sono le patologie che mostrano una dinamica in evidente crescita rispetto al passato. Gli uomini soffrono di almeno una cronicità grave nel 36% dei casi nella classe di età 65-69 e nel 57% tra quelli ultrasettantacinquenni.
La dinamica della cronicità grave è dovuta all’invecchiamento. Se depurato dall’effetto dovuto all’incremento del contingente di persone anziane, il tasso resta infatti stabile (14,6% nel 2005 contro 14,9 nel 2012), con differenze di genere a sfavore degli uomini (16% contro 13,9% delle donne).
Nel 2012, la spesa sanitaria pubblica è pari a circa 111 miliardi di euro, inferiore di circa l’1% rispetto al 2011 e dell’1,5% in confronto al 2010. Durante la crisi, dal 2008 al 2011, le prestazioni a carico del settore pubblico si sono ridotte, compensate da quelle del settore privato a carico dei cittadini. Infatti, il valore della produzione pubblica (valutata a prezzi 2005) è rimasto invariato, mentre quello del settore privato è cresciuto dell’1,7%.
Nel settore della sanità pubblica diminuisce il deficit della Aziende sanitarie, migliora l’appropriatezza organizzativa e clinica, ma persistono le disuguaglianze di salute e di accessibilità alle cure.
Lo svantaggio del Mezzogiorno è strutturale, le condizioni di salute sono peggiori rispetto al resto del Paese. La speranza di vita è di 79 anni per gli uomini e 83,7 anni per le donne.(nel Nord rispettivamente 79,9 e 84,8 anni). La prevalenza di cronicità grave, al netto della struttura per età, si attesta al 16,1%, contro il 14,2% registrato nel Nord del Paese.
Anche i divari socio-economici sono strutturali. Nel 2012 le persone di 65 anni e oltre con risorse economiche scarse o insufficienti dichiarano di stare male o molto male nel 30,2% dei casi contro il 14,8% di chi ha risorse economiche ottime o adeguate. Il rischio di cronicità grave è più elevato tra le classi sociali più modeste: chi ha una condizione economica familiare scarsa o insufficiente ha un rischio di 1,6 volte superiore alla famiglia con risorse economiche ottime o adeguate.
Nel 2012 l’11,1% dei cittadini dichiara di aver rinunciato alle cure (accertamenti o visite specialistiche non odontoiatriche, interventi chirurgici o acquisto di farmaci). Tale quota sale al 13,2% fra le donne mentre a livello territoriale è più elevata nel Mezzogiorno (15% circa).
L’accessibilità alle cure sanitarie è più difficile per chi ha risorse economiche scarse o inadeguate. Nel 50,4% dei casi, chi rinuncia ad una prestazione sanitaria lo fa per motivi economici, nel 32,4% a causa delle liste di attesa o eccessiva distanza dalle strutture.
La situazione economica delle famiglie
Cala la spesa per consumi. Molte famiglie che fino al 2011 avevano utilizzato i risparmi accumulati o avevano risparmiato meno (la propensione al risparmio è scesa dal 15,5% del 2007 al 12% del 2011) hanno ridotto i propri livelli di consumo nel 2012 per mantenere i loro standard. La contrazione dei livelli di consumo si è verificata nonostante l’ulteriore diminuzione della propensione al risparmio (pari all’11,5%) e il crescente ricorso all’indebitamento (nel 2012, le famiglie indebitate superano quota 7%).
L’indicatore di povertà assoluta, stabile fino al 2011, sale di ben 2,3 punti percentuali nel 2012, attestandosi all’8% della popolazione. La grave deprivazione, dopo l’aumento registrato fra il 2010 e il 2012 (dal 6,9% al 14,5% della popolazione) registra un lieve miglioramento nel 2013, scendendo al 12,5%.
Il rischio di persistenza in povertà, ovvero la condizione di povertà nell’anno corrente e in almeno due degli anni precedenti, è nel 2012 tra i più alti d’Europa (13,1 contro 9,7%). Si tratta di una condizione strutturale: le famiglie maggiormente esposte continuano a essere quelle residenti nel Mezzogiorno, quelle che vivono in affitto, con figli minori, con disoccupati o in cui il principale percettore di reddito ha un basso livello professionale e di istruzione.
Il rischio di persistenza nella povertà raggiunge il 33,5% fra le famiglie monogenitori con figli minori. Nel Mezzogiorno è cinque volte più elevato che nel Nord, tre volte più elevato tra gli adulti sotto i 35 anni, due volte più elevato tra i disoccupati e gli inattivi.
I trasferimenti sociali sono una parte significativa, soprattutto tra i poveri, del reddito disponibile. Nel 2012, quasi il 38% delle famiglie ha ricevuto trasferimenti sociali, per un ammontare pari a circa il 12% del reddito familiare disponibile. Al netto di tali trasferimenti, il rischio di povertà sarebbe di cinque punti percentuali superiore a quello osservato (24,4% contro 19,4%). Il rischio di povertà persistente salirebbe invece dal 13,1 al 17,8%.
Gran parte delle famiglie ha un solo percettore di reddito. La fase di crisi economica ha mutato la struttura del reddito familiare: nel 2011, il 45,1% delle famiglie ha al suo interno un solo percettore di reddito (42,4% nel 2007), il 41,2% ne ha due e il 12,8% tre o più.
I trattamenti pensionistici concorrono, più che in passato, a determinare le condizioni economiche delle famiglie. Tra il 2007 e il 2011, aumenta anche il contributo al reddito familiare di ogni singolo pensionato, pari in media al 43% (due punti percentuali in più).
Spesa sociale dei Comuni
Nel 2011, per la prima volta dal 2003, la spesa sociale risulta in diminuzione rispetto all’anno precedente. Le risorse destinate dai Comuni alle politiche di welfare territoriale ammontano a circa 7 miliardi 27 milioni di euro, al netto della compartecipazione alla spesa da parte degli utenti e del Sistema Sanitario Nazionale, con una diminuzione dell’1% rispetto al 2010.
Fra il 2010 e il 2011 la spesa pro-capite diminuisce in quasi tutte le regioni italiane ma, in rapporto ai valori preesistenti, il calo più consistente si osserva al Sud (-5%), dove i valori medi erano già nettamente al di sotto della media nazionale. Al Nord-ovest e al Nord-est la spesa diminuisce rispettivamente del 3 e dell’1%, mentre aumenta dell’1% sia al Centro che nelle Isole. Una persona residente al Sud beneficia mediamente di una spesa sociale annua di circa 50 euro per i servizi e gli interventi offerti dai Comuni, contro i 160 euro del Nord-est.
Nel 2011, la spesa corrente impegnata dai Comuni per gli asili nido, al netto della compartecipazione pagata dagli utenti, è stata pari a 1 miliardo e 245 milioni di euro; quella impegnata per i servizi integrativi per la prima infanzia, che include i cosiddetti “nidi famiglia”, risulta di poco inferiore ai 60 milioni di euro, comprensiva degli oltre 9 milioni e mezzo a carico delle famiglie.
L’offerta di asili nido e di servizi integrativi per la prima infanzia mostra ampi divari territoriali. I bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5% del Sud al 17,1% del Nord-est, mentre la percentuale di Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 24,3% del Sud all’82,6% del Nord-est.
La spesa rivolta ai disabili aumenta di circa 35 milioni di euro dal 2010 al 2011 (+ 2,2%). Anche in questo caso le differenze territoriali sono molto rilevanti: mediamente un disabile residente al Nord-est usufruisce di servizi e interventi per una spesa annua pari a 5.370 euro, contro i 777 euro del Sud.
La spesa dei Comuni rivolta agli anziani è in diminuzione rispetto all’anno precedente, sia in valore assoluto che come quota percentuale sul totale della spesa sociale: si passa da 1 miliardo 492 milioni del 2010 a 1 miliardo 388 milioni del 2011 (-7%) e dal 20,9% al 19,8% della spesa sociale complessiva.
In calo anche la spesa dei Comuni per la povertà e il disagio (-2% dal 2010 al 2011), nonostante risultino in crescita le difficoltà economiche nella popolazione.
Il ruolo del non profit ne settore della sanità e dell’assistenza sociale
Il settore del non profit svolge un ruolo crescente nell’ambito della Sanità e dell’Assistenza sociale, tuttavia alcune evidenze segnalano delle potenziali fragilità. In particolare, l’eterogeneità della distribuzione territoriale mette in luce una carenza nel Mezzogiorno mentre l’eterogeneità nella dimensione delle istituzioni, misurata in termini di numero di dipendenti, rivela una realtà parcellizzata con una elevata frequenza di piccole unità, soprattutto nel Mezzogiorno.
Il numero delle istituzioni non profit attive prevalentemente nella Sanità e nell’Assistenza sociale è cresciuto rispetto al 1999 del 13,4% nel primo comparto e del 29,5% nel secondo.
La distribuzione sul territorio delle istituzioni non profit attive nella Sanità e nell’Assistenza sociale continua ad essere molto eterogenea; il Mezzogiorno presenta le incidenze più basse rispetto alla popolazione residente: in media 49,8 istituzioni ogni 100 mila abitanti rispetto a 66,5 del Centro-Nord.
La maggior parte del finanziamento delle istituzioni non profit attive nel settore della Sanità e dell’Assistenza è di natura pubblica: nel settore della Sanità è pari al 68,3% delle entrate, di cui il 65,5% proviene da contratti e convenzioni e il 2,8% da contributi a fondo perduto; nel settore dell’Assistenza è pari al 56,5% delle entrate, di cui il 52,4% frutto di contratti e convenzioni e il 4,1% di contributi a fondo perduto. Dal punto di vista delle risorse, le istituzioni nei due settori sono fortemente dipendenti dai finanziamenti pubblici. In un periodo di contrazione della spesa pubblica, come quello attuale, la sopravvivenza di molte realtà del non profit potrebbe essere a rischio.
Le istituzioni attive nel settore della Sanità erogano prevalentemente servizi relativi alla donazione di sangue, organi, tessuti e midollo e al soccorso (33,6%) e trasporto sanitario (19% delle unità attive nel settore). A caratterizzare il settore dell’Assistenza sociale in termini di servizi offerti sono gli interventi per l’integrazione sociale dei soggetti deboli o a rischio (27,5% del totale delle unità attive nel settore) e il sostegno socio-educativo (indicato nel 24,2% dei casi).
I conti pubblici negli anni della crisi
La crisi iniziata nel 2008 ha causato un sensibile deterioramento delle condizioni della finanza pubblica nei paesi europei: l’indebitamento netto della PA nel complesso dell’area dell’euro ha raggiunto il 6,4% del Pil nel 2009 ed è sceso gradualmente negli anni successivi, raggiungendo il 3% solo nel 2013.
Durante la crisi, il rapporto debito pubblico/Pil è salito nell’area euro di oltre 26 punti percentuali, dal 66,2% nel 2007 al 92,6% nel 2013, superando di 19 punti percentuali il picco storico raggiunto alla metà degli anni novanta.
In Italia il rapporto debito/Pil è salito al 132,6% nel 2013, con un aumento di oltre 29 punti dal 2007, circa 12,5 punti oltre il massimo del 1996.
L’evoluzione negativa dei conti pubblici è dipesa soprattutto dagli effetti della recessione economica, da un aumento della spesa per interessi e, in misura minore, dall’attuazione di politiche fiscali discrezionali espansive.
In Italia, il percorso di risanamento fiscale riprende dal 2010, in seguito all’attuazione della procedura di infrazione per deficit eccessivo, e si rafforza sensibilmente a partire dalla metà del 2011, in risposta al brusco aumento del premio di rischio richiesto dai mercati per sottoscrivere il nostro debito pubblico.
La dimensione delle manovre fiscali attuate complessivamente in Italia dal 2010 è stata notevole (pari a -15 miliardi per il 2011, a -75 miliardi per il 2012 e a -92 miliardi per il 2013), ma gli effetti sul miglioramento dei conti pubblici sono stati in gran parte limitati dal cattivo andamento dell’economia, che ha raffreddato in particolare la dinamica delle entrate.
La dinamica delle spese, meno sensibili al ciclo economico rispetto alle entrate, ha registrato andamenti coerenti con gli obiettivi, risultando sostanzialmente stabile tra il 2010 e il 2013, in seguito alla riduzione soprattutto della spesa per il personale (-7,9 miliardi), degli investimenti fissi lordi (-6,6 miliardi) e dei consumi intermedi (-3,3 miliardi) e nonostante l’aumento della spesa per interessi.
Regole europee e azioni dei governi
Le risposte alla crisi da parte dei paesi dell’Unione europea sono state eterogenee e hanno avuto conseguenze diverse sia sugli indicatori di finanza pubblica sia sull’intensità dello sforzo di sostegno al sistema economico. La differenziazione tra i saldi primari di bilancio dei paesi Ue nel 2013 è più che raddoppiata rispetto al 2007.
Tra i paesi dell’Unione, in Italia è stato registrato nel 2013 l’avanzo fiscale primario (al netto della spesa per interessi) più elevato, superiore al 2% del Pil. Diversamente da quasi tutti gli altri paesi, l’azione pubblica negli anni dal 2007 al 2012 è risultata complessivamente restrittiva.
Durante la crisi l’aumento del rapporto debito/Pil in Italia è stato determinato principalmente dalla spesa per interessi e dalla bassa crescita economica, controbilanciando gli effetti delle manovre fiscali. Tra i paesi dell’Unione europea, gli interventi discrezionali hanno contribuito al contenimento della dinamica del rapporto debito/Pil solo in due casi: in Italia, dove le severe manovre di bilancio hanno favorito, nel periodo 2007-2012, una riduzione pari a 9,5 punti percentuali, e in Finlandia, per una riduzione di 6 punti percentuali.
La spesa per interessi ha rappresentato la principale causa della crescita del rapporto debito/Pil in tutta l’area, in particolare in Grecia (28,1 punti percentuali) e in Italia (24,9 punti).
Secondo gli indicatori elaborati dalla Commissione europea per valutare la sostenibilità del debito, l’azione di consolidamento della finanza pubblica attuata negli anni della crisi ha portato in Italia ad una significativa riduzione dei rischi di sostenibilità futura del debito, per effetto di rilevanti miglioramenti della posizione iniziale di bilancio e delle riforme pensionistiche.
Il principale elemento di rischio per la sostenibilità del debito pubblico nel nostro Paese risulta attualmente essere la bassa dinamica del Pil e il differenziale tra tassi di interesse e tasso di crescita reale dell’economia. Ne consegue l’opportunità di attuare adeguate politiche per favorire la crescita economica di breve e di lungo periodo.
Nei prossimi anni, un vincolo importante per le politiche fiscali è rappresentato dal pareggio del saldo strutturale di bilancio. Quest’ultimo è infatti molto più stringente rispetto al limite del 3% sul rapporto deficit/Pil previsto dal Patto di stabilità e crescita.
Il saldo strutturale è un indicatore non osservabile che viene calcolato sulla base di un altro indicatore stimato: il prodotto potenziale. A parità di altre condizioni, una stima più elevata della crescita potenziale comporta un migliore saldo strutturale e richiede pertanto politiche fiscali meno severe.
Le più recenti stime del prodotto potenziale incorporano gli effetti della crisi, tanto da ipotizzare come conseguenza una consistente erosione della capacità produttiva nel nostro Paese. Le previsioni programmatiche presentate nel Documento di economia e finanza 2014, elaborate sulla base di tali stime, indicano il raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale nel 2015, con un indebitamento netto pari al 2,6% del Pil nel 2014 e all’1,8% nel 2015.
Una diversa stima del prodotto potenziale potrebbe consentire di raggiungere il pareggio strutturale con livelli più elevati di indebitamento netto. Nell’ipotesi estrema che la capacità produttiva nel nostro Paese non si sia modificata durante la crisi, il vincolo del bilancio strutturale in pareggio potrebbe ad esempio essere rispettato in presenza di un rapporto deficit/Pil pari al 3% nel 2014 e di poco inferiore nel 2015.
Convergenza fiscale nei paesi dell’Uem
Allo scoppio della crisi, permanevano ancora differenze sostanziali tra i sistemi fiscali dei paesi europei, nonostante il processo di lenta convergenza in atto.
Gli anni della recessione economica hanno lasciato in eredità una maggiore convergenza fiscale tra i paesi dell’Unione relativamente all’imposizione sul lavoro e un ampliamento della già elevata eterogeneità relativa all’imposizione sul capitale. Risultano invece sostanzialmente invariate le differenze relative alla tassazione sui consumi.
L’Italia ha ampliato la distanza rispetto alla media dell’Uem riguardo alla tassazione sul capitale, la cui aliquota effettiva si colloca nel 2011 al 33,6%, quasi 5 punti percentuali sopra la media. L’aliquota sui redditi da capitale a carico delle imprese, in particolare, si è ridotta in misura nettamente inferiore rispetto alla media dell’eurozona, e nel 2011 è pari al 24,8%, inferiore solo alla Francia (26,9%). Per quanto riguarda l’aliquota implicita sui redditi da capitale delle famiglie e dei lavoratori autonomi, fra il 2007 e il 2011 l’Italia è passata dal 16,9 al 17,3%.
Nel 2011, l’Italia presenta una tassazione dei consumi tra le più basse d’Europa e una tassazione su lavoro e capitale tra le più alte.
Effetti redistributivi di tasse e trasferimenti sui redditi familiari
L’Italia è uno dei paesi europei con la maggiore disuguaglianza nella distribuzione dei redditi primari, guadagnati dalle famiglie sul mercato impiegando il lavoro e investendo i risparmi. Le minori opportunità di occupazione e lo svantaggio retributivo delle donne e dei giovani sono fra le cause più importanti di questa disuguaglianza.
Nonostante l’intervento pubblico operi una redistribuzione dei redditi di mercato di apprezzabile entità, non inferiore a quella dei paesi scandinavi, in Italia il livello di diseguaglianza rimane significativo anche dopo l’intervento pubblico.
Il sistema pubblico italiano redistribuisce il reddito primario soprattutto a favore del 40% delle famiglie con redditi medio-bassi e bassi, che dopo l’intervento pubblico si ritrovano con un reddito disponibile maggiore del reddito di mercato. Vengono invece ridotti i redditi del restante 60% di famiglie, comprese quelle con redditi medi.
Per effetto della redistribuzione, la distanza fra le famiglie ricche del quinto più alto e quelle povere del quinto più basso in media si dimezza: dai 97 mila 750 euro di differenza fra i redditi di mercato annui passa ai 48 mila 900 euro fra i redditi disponibili.
Il grosso della redistribuzione avviene tramite le pensioni, mentre il contributo dei trasferimenti non pensionistici alla riduzione della disuguaglianza è meno rilevante.
Il prelievo tributario concorre a ridurre la disuguaglianza soprattutto per effetto delle detrazioni per lavoro e per carichi familiari, che concorrono alla redistribuzione in misura maggiore della struttura delle aliquote e degli scaglioni.
Le detrazioni per lavoro e per familiari a carico perdono parte della loro efficacia redistributiva per effetto dell’incapienza, che si verifica quando il reddito è così basso da non consentire di avvalersi pienamente dei benefici delle detrazioni. Inoltre, l’assetto individuale dell’imposta implica, a parità di reddito, un maggiore carico tributario per le famiglie monoreddito.
Un’imposta negativa sui redditi familiari più bassi costituisce uno strumento di contrasto della povertà, che consente di concentrare la spesa sui più bisognosi, tenendo conto della numerosità della famiglia e delle economie di scala. L’imposta negativa, in pratica, determina una soglia di esenzione (no tax area) dei redditi familiari, al di sotto della quale le famiglie non solo non pagano imposte, ma ricevono un sussidio monetario.
Simulazioni effettuate con il modello Istat di microsimulazione sulle famiglie suggeriscono che un intervento pari all’1% del Pil (15,5 miliardi) consentirebbe di ridurre consistentemente il tasso di povertà.
L’integrazione fino a 780 euro mensili dei redditi personali più bassi per tutti gli adulti, oltre a risultare molto più costoso (circa 90 miliardi) si tradurrebbe in una dispersione di risorse a favore dei non poveri, con il 61% della somma destinata a individui che vivono in famiglie non povere.
Effetti distributivi dei provvedimenti fiscali sulle imprese
Durante la crisi finanziaria, numerosi paesi Ocse hanno utilizzato la leva fiscale per sostenere investimenti e occupazione. In particolare, sono state introdotte misure di alleggerimento del carico fiscale sui redditi delle imprese, sul costo del lavoro e di incentivi all’innovazione, finanziate con aumenti dell’imposizione indiretta.
Il principale provvedimento introdotto in Italia negli anni recenti è l’Ace, che rende deducibile dal reddito imponibile il rendimento figurativo degli apporti di nuovo capitale proprio e degli utili reinvestiti, al pari degli interessi passivi. Tale misura ha lo scopo di riequilibrare il trattamento fiscale delle fonti di finanziamento.
L’introduzione dell’Ace ha rappresentato un importante passo in avanti verso un sistema di prelievo più neutrale rispetto alle scelte di finanziamento delle imprese. In pratica, comporta una sostanziale riduzione del costo dell’investimento finanziato con capitale proprio e la completa eliminazione del cuneo di imposta ad esso associato. Il recente potenziamento dell’Ace (Legge di stabilità 2014) consente di annullare pienamente il divario con il capitale di debito già a partire dall’anno d’imposta 2015.
In Italia, nel dicembre 2011 è stato adottato un pacchetto di misure che comprende, oltre all’introduzione dell’Ace, l’aumento della deduzione dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) per i giovani e le donne, l’estensione della deduzione dell’Irap gravante sul costo del lavoro dall’imposta societaria (Ires).
Questi provvedimenti comportano una riduzione dell’aliquota effettiva sui redditi ante imposte, per la componente Ires, dal 28,2 al 27,5%, ovvero un livello pari all’aliquota legale stimata con il modello di microsimulazione dell’Istat sulle imprese (Matis).
Sul piano settoriale, i benefici si concentrano sulle imprese dell’industria in senso stretto che hanno visto ridurre l’aliquota di oltre 2 punti percentuali.
Il calo della pressione fiscale è superiore per le imprese esportatrici (-2,7 punti percentuali) rispetto alle non esportatrici (-0,6 punti percentuali) e aumenta con la dimensione dell’impresa.
A livello territoriale, la riduzione del prelievo è più rilevante per le imprese localizzate nelle regioni settentrionali, mentre per quelle del Mezzogiorno il peso della tassazione rimane pressoché invariato.
Considerando anche la componente Irap gravante sugli utili societari, l’aliquota effettiva mediana raggiunge i 32,8 punti percentuali. Il peso della tassazione è superiore per le imprese appartenenti al commercio, ai servizi ad alta intensità di conoscenza, le imprese con fatturato compreso tra 500 mila e 2 milioni di euro e con meno di 10 addetti, le società indipendenti, quelle esportatrici e le imprese localizzate nel Nord-ovest e nel Centro.
Nel 2012, secondo anno di applicazione dell’Ace, il 20% delle imprese industriali e commerciali si è avvalsa del meccanismo agevolativo, beneficiando di uno sgravio pari a circa 0,8 punti percentuali. Nel 2015 la percentuale di beneficiari salirà al 31,4% del totale imprese e lo sconto d’imposta potrà raggiungere i 2,9 punti percentuali rispetto all’aliquota legale.
Tra il 2015 e il 2020, la piena entrata a regime dell’Ace comporterà benefici per quasi la metà dei contribuenti, con un taglio medio di 8,5 punti percentuali dell’aliquota legale.
I potenziali beneficiari risultano più numerosi tra le imprese manifatturiere, e in particolare tra quelle appartenenti a settori a più elevata intensità tecnologica. La percentuale di beneficiari aumenta con la dimensione dell’impresa, ed è più elevata per le imprese multinazionali, i gruppi fiscali e le imprese localizzate nelle regioni settentrionali.
Sotto il profilo distributivo, il prelievo dell’imposta regionale sulle attività produttive è prevalentemente concentrato nelle imprese di grandi dimensioni. In particolare, le imprese con più di 500 addetti, che rappresentano lo 0,2% delle società, contribuiscono al gettito Irap con una quota pari al 29% del totale imposta.
A livello territoriale, i maggiori contribuenti sono localizzati nel Nord-ovest (42%).
Con riferimento ai settori di attività economica, partecipano in misura più elevata al gettito le imprese appartenenti all’industria in senso stretto (34%) e agli altri servizi (32%).
Considerando gli effetti delle deduzioni vigenti sul lavoro dipendente, la deduzione dell’Irap gravante sul costo del lavoro dall’Ires e il taglio del 10% delle aliquote Irap recentemente approvato, nel 2014 il peso dell’Irap sul costo del lavoro è pari all’1,35% per il complesso delle imprese, variando dall’1,08% per le imprese con fatturato fino a 500 mila euro all’1,43% per le imprese con oltre 50 milioni di fatturato.