Miti e verità sulla burocrazia europea

Miti e verità sulla burocrazia europea

Nonostante ormai da molti anni le istituzioni europee regolino e influenzino molti aspetti della vita dei cittadini degli Stati membri, non sempre se ne conoscono con precisione il funzionamento e le dimensioni. Nell’attuale campagna elettorale ciò ha comportato il diffondersi di dati e informazioni contrastanti sui quali è giusto fare luce in vista del voto di domenica prossima. 

Leggi statali di ispirazione europea

Iniziamo con un dato che sembra essere entrato in modo trasversale nelle dichiarazioni di euroscettici ed eurofili senza distinzione di parte politica o nazionalità. Tale dato riguarda la percentuale delle leggi degli Stati membri che sono state create su spinta o ispirazione dell’Unione europea, un dato che è stato ribattezzato da noi «Il Mito di Delors». Jacques Delors – presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995 – in un discorso davanti al Parlamento Europeo nel 1988 profetizzò infatti che «entro dieci anni l’80 percento della legislazione nazionale in materia di economia, e forse anche in materia di tasse e stato sociale sarà di origine comunitaria»

A distanza di 16 anni questa percentuale – pur con qualche variazione– è tornata a comparire ripetutamente nelle dichiarazioni dei politici europei, di solito per denunciare l’eccessiva invasività delle istituzioni comunitarie nelle politiche nazionali. In pochi mesi l’hanno citata il francese Jean – Marie Le Pen e il nostro Magdi Allam, mentre il britannico Nigel Farage, lo spagnolo Mariano Rajoy, il tedesco Martin Schultz e la lussemburghese Viviane Reeding ne hanno dato una versione leggermente diversa (75% il primo e 70% gli altri tre). 

Ma cosa c’è di vero? 

In realtà, dati alla mano, ben poco. La prima che ha cercato di vederci chiaro è stata la professoressa Annette Elisabeth Toeller, la quale sul blog EUROPP della London School of Economics ha riportato un riassunto delle principali ricerche in questo ambito concludendo che «ciò che si scopre è che questi studi hanno rivelato percentuali piuttosto basse di legislazioni nazionali europeizzate. 15,5% per la Gran Bretagna, 14% per la Danimarca, 10,6% per l’Austria, tra il 3% e il 27% per la Francia, tra l’1% e il 24% per la Finlandia, e il 39,1% per la Germania».

Le oscillazioni che contraddistinguono il dato per alcuni Stati sono causati dalle diverse interpretazioni utilizzate su cosa sia una «legge nazionale di ispirazione comunitaria». Una versione «ristretta» di questa definizione considera infatti solo le mere implementazioni delle direttive europee, mentre nelle versioni più allargate vengono considerate anche leggi che hanno al proprio interno almeno alcuni passaggi ispirati al diritto comunitario. Da tenere conto, infine, anche l’importanza e gli effetti delle leggi ispirate dall’Unione europea, e non solo il loro semplice numero. Molte di esse, infatti, riguardano ambiti strategici e molto delicati come l’economia, la finanza, la sicurezza alimentare, l’ambiente o le regole di produzione di certi beni. Per l’Italia esiste uno studio sul tema contenuto nel libro di Sylvain Brouard, Olivier Costa e Thomas Koenig, The Europeanization of domestic legislatures che però riporta dati aggiornati soltanto fino al 2006. Nel 2006, appunto, in Italia erano di «ispirazione dell’Unione europea» ben il 70% delle leggi di iniziativa governativa ma solo il 25% di quelle di iniziativa parlamentare.

La legislazione comunitaria, insomma, è all’origine di una fetta importante – non solo dal punto di vista numerico – delle nostre leggi nazionali, anche se siamo ben lontani da quell’80 percento profetizzato da Delors.
 

Le dimensioni della burocrazia europea

Procediamo ora con altri dati sulle istituzioni europee emersi in questi mesi di campagna elettorale. A fare capolino troviamo l’aspro dibattito fra euro sostenitori ed euroscettici sulle dimensioni della burocrazia europea e i suoi sprechi. Colpisce, fra tutte, la dichiarazione dell’“euro-supporter” britannico Nick Clegg il quale  rispondendo all’euroscettico Nigel Farage su questo tema ha affermato che «l’Unione europea ha meno impiegati del Consiglio della Contea del Derbyshire». Per chi ha poca famigliarità con la geografia britannica, il Derbyshire è la ridente provincia campagnola che circonda la città di Derby, nell’Inghilterra centro-orientale. Come potete immaginare né Derby né il suo «shire» rivestono particolare importanza politica o economica per la Gran Bretagna e tantomeno per l’Unione europea. Ma, nonostante questo, sarà vero che il piccolo parlamento del Derbyshire ha più impiegati dell’Unione europea? 

In effetti, quasi. Stando ai documenti riportati sul sito internet della piccola contea, infatti, il personale impiegato dal Derbyshire sarebbe di 36.519 persone, mentre stando ai dati forniti dall’Ue la Commissione europea ne occuperebbe 33.000. A questi però vanno aggiunti i 9.500 dipendenti delle altre istituzioni europee a cominciare dal Parlamento, per un totale di 42.500. Il Derbyshire perde dunque la partita con l’Unione europea di circa 5.000 impiegati, anche se il raffronto resta comunque piuttosto sorprendente

I meccanismi dell’Unione

Proseguiamo analizzando alcune dichiarazioni sui meccanismi dell’Unione e in particolare quelli che porteranno alla nomina del prossimo Presidente della Commissione europea. Come molti avranno notato, quest’anno per la prima volta i partiti europei hanno presentato dei propri candidati per questa posizione seguendo le riforme introdotte dal Trattato di Lisbona. Saranno dunque le elezioni del Parlamento a determinare il nome del prossimo presidente della Commissione? 

Secondo la candidata alla presidenza del Partito dei Verdi Ska Keller, se venisse scelto un nome diverso da quello del candidato del partito uscito vincitore dalle elezioni si andrebbe incontro addirittura a una violazione del Trattato di Lisbona. Ma è esattamente così?

Non proprio. Su questo punto è più preciso il candidato presidente dei Liberali Europei Guy Verhofstadt, il quale in un recente intervento ha spiegato che «il trattato è molto chiaro. [Per eleggere il Presidente della Commissione] si ha bisogno della maggioranza assoluta del Parlamento. E una maggioranza qualificata del Consiglio [europeo]. […] Sono loro che decidono, ma [il Presidente eletto] deve essere qualcuno che ha alle proprie spalle una maggioranza nel Parlamento. […] E penso che per la prima volta ciò che vediamo non è un’elezione diretta ma almeno una indiretta influenza dei cittadini»

In effetti il Trattato di Lisbona dice proprio questo: «Tenendo conto dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver tenuto le appropriate consultazioni, il Consiglio europeo, decidendo a maggioranza qualificata, propone al Parlamento un candidato per la Presidenza della Commissione. Questo candidato deve essere eletto dalla maggioranza dei membri del Parlamento europeo».  

Non di elezione diretta si tratta dunque, nonostante i cambiamenti apportati dal Trattato di Lisbona al fine di rendere più democratici i processi di selezione delle cariche europee. È ancora possibile infatti che nessuno dei candidati oggi in competizione venga alla fine effettivamente designato Presidente della Commissione.  

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