Federica Mogherini è arrivata negli Stati Uniti con un corposo dossier sulla Libia. Un tema importante del tour diplomatico americano del ministro degli Esteri è, assieme al conflitto siriano, proprio la caotica situazione nel Paese nordafricano. Il segretario di Stato John Kerry ha fatto capire che sulla Libia gli Stati uniti si aspettano un maggior impegno da parte nostra. Stabilizzare l’ex Jamahiriya islamica è importante per gli americani (che temono che la Libia si trasformi un pericoloso buco nero geopolitico in Nordafrica) ma è la priorità della politica estera italiana. C’entrano le questioni legate al contrasto al terrorismo e all’immigrazione clandestina e, ovviamente, quelle che riguardano l’energia e la sicurezza degli approvvigionamenti di idrocarburi.
Marco Minniti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, aveva provato a riportare in primo piano la questione libica. Abbiamo sei mesi per salvare la Libia, evitando così una nuova Somalia davanti alla porta di casa, «si deve capire che quella libica è una partita strategica decisiva per la sicurezza del Mediterraneo e dell’Europa», ha avvisato il senatore Pd intervistato dal Sole24Ore. Già a Porta a porta il presidente del Consiglio Matteo Renzi, parlando di Libia aveva detto, tra le altre cose, che «l’Eni, quando le cose vanno bene in Libia guadagna circa quattro milioni l’anno». Ovviamente la questione e molto più vasta e articolata.
La Libia è il primo Paese per riserve di petrolio dell’Africa (qui tutti i dati dell’Energy Information Administration del governo americano). I legami energetici tra Roma e Tripoli sono profondi e strategici. L’Eni è presente in Libia dal 1959 ed è il primo operatore internazionale di idrocarburi. Secondo le statistiche del ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2012 il 20,8% del petrolio importato in Italia proviene dalla Libia. Il 23% delle esportazioni totali di petrolio libico è finito nel nostro Paese (la Germania che è seconda arriva al 13%), una quota simile ai livelli precedenti la rivolta scoppiata contro il regime di Muammar Gheddafi nel febbraio del 2011. Nei primi tre mesi del 2014 la produzione complessiva di petrolio è calata fino a 250 mila barili al giorno. Durante il regime di Gheddafi si arrivava a quasi 1,5 milioni giornalieri.
Dal caos libico il Cane a sei zampe ha molto da perdere. Nel 2012 la produzione in quota Eni è stata pari a 258 mila barili al giorno (qui i dati dell’ultimo Factbook). La situazione è ancora «volatile », ha detto il nuovo amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi nel corso dell’incontro con gli analisti sui risultati del primo trimestre. Il manager che ha preso il posto di Paolo Scaroni ha ammesso che «la situazione a marzo è un po’ peggiorata al seguito della chiusura di Wafa per 4 settimane e la produzione è scesa intorno a 170.000 barili al giorno ». Il traballante governo libico non è riuscito a disarmare o a inquadrare in una cornice ufficiale le diverse milizie che si sono opposte a Gheddafi nel corso della guerra civile. Così, per dimostrare la loro forza e ottenere potere contrattuale nelle trattative più o meno ufficiali con il governo centrale, hanno inscenato azioni di forza e l’occupazione di giacimenti e pipeline.
La situazione, però, potrebbe presto migliorare. Il 13 maggio sono stati riaperti i terminal di petrolio nella parte occidentale della Libia. Il portavoce della compagnia petrolifera libica Noc, Mohammed al Harari ha detto alla stampa che i miliziani che li occupavano hanno infatti messo fine alla loro protesta liberando i terminal di al Sharara, di al Fil e di al Wafa così come gli oleodotti collegati al porto di al Zawiya e l’oleodotto di Mellitah. Gli oleodotti e i terminal della parte occidentale della Libia erano stati chiusi lo scorso marzo e tra questi figurava il giacimento di al Sharara che produce 340mila barili di petrolio al giorno. Con la liberazione dei porti del golfo di Sirte nella zona est della regione del Cirenaica, dove si trova l’80% del greggio libico dovrebbero essere scongiurati i rischi per l’approvvigionamento e per un rialzo del prezzo del greggio sul mercato globale.
Secondo una notizia apparsa sul sito del Wall Street Journal il 13 maggio, l’accordo raggiunto tra il governo di Tripoli e le milizie che per mesi hanno controllato gli importanti giacimenti e le infrastrutture petrolifere nella parte occidentale del Paese (con una produzione giornaliera che si aggira attorno ai 500 mila barili al giorno) consentirà immediatamente il raddoppio della produzione giornaliera. Tuttavia, per Reuters, l’output di greggio resta ancora inchiodato a 235 mila barili al giorno.
Sotto Gheddafi, proprio gli introiti delle esportazioni di petrolio hanno garantito un flusso costante di valute straniere. Petrodollari che sono stati utilizzati anche per creare due fondi sovrani. Lafico (Libyan Foreign Investment Company) e Lia (Libyan Investment Authority), costituito nel 2006 con capitali trasferiti dalla stessa Lafico. Attraverso queste due strumenti di investimento direttamente controllate dal governo, la Libia è entrata con decisione nell’economia italiana. Unicredit, Eni, Finmeccanica, Fiat, Generali. Ma anche la Juventus, l’azienda tessile Olcese e Retelit, impresa di telecomunicazioni capace nel 2008 di vincere il bando per l’assegnazione delle frequenze Wimax in alcune regioni dell’Italia settentrionale. I libici sembrano puntare ancora forte sul nostro Paese. Stefano Agnoli del Corriere della Sera ha fatto notare che all’assemblea degli azionisti dell’Eni c’era Abdulrahman Ben Yezza, ex ministro del petrolio libico tra il 2011 e il 2012. Prima di lasciare il posto a Descalzi, a marzo Scaroni era volato a Tripoli dal primo ministro Abdullah al Thani. Un incontro necessario per garantire la produzione in Libia.