Qualche settimana fa, è uscito sul New York Times un articolo dal folgorante titolo Bye Bye, Baby, rimbalzato anche in Italia sulle pagine di Repubblica. Non nascono più bambini, non solo nel ricco Occidente, ma in posti dove non ce lo saremmo aspettato, come Brasile, Corea, Iran, Polonia. Oltre metà degli umani vive in Paesi dove nascono meno di 2,1 figli per donna, la soglia che nel lungo periodo permette — a parità di altre condizioni — una popolazione stazionaria. Inoltre un nutrito gruppo di 40 Paesi, prima degli altri, sperimenteranno il declino già nei prossimi decenni: le diminuzioni più rilevanti sono previste per la Cina, la Germania, il Giappone, la Russia, l’Ucraina, la Romania, la Tailandia. Anche se questi fatti sono molto noti fra gli “addetti ai lavori” — ma non sempre altrettanto ai giornalisti — l’articolo esprime un disagio che ci coinvolge tutti, informati o no.
Il XX secolo è stato quello in cui l’umanità è passata da 1 miliardo di persone a 7 miliardi. Il XXI secolo, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, che sono il riferimento obbligato in materia, vedrà 8,1 miliardi di esseri umani nel 2025 e 9,6 (forse: la cautela è d’obbligo) nel 2050. Che relazione c’è fra diminuzione delle nascite e declino della popolazione? Non così diretta, come sembrerebbe a prima vista, soprattutto a livello di singolo Paese. Un’abbondante immigrazione può compensare la scarsità di nascite, come sta accadendo in Italia, diversamente dal Giappone, Paese per tradizione contrario alle mescolanze etniche, e perciò già ora in forte diminuzione (meno 244mila abitanti solo l’ultimo anno). Anche la crescente longevità influisce sulla consistenza della popolazione, perché – se le nascite alimentano il flusso di entrata — la dilazione delle morti ne rallenta il flusso di uscita. Niente declino demografico dunque, a livello globale: almeno fino alla fine di questo secolo la popolazione mondiale continuerà ad aumentare, sia pure a ritmi via via più ridotti: oggi la popolazione del mondo cresce ogni anno di 82 milioni l’anno, ma entro il 2050 tale crescita si ridurrà a 49 milioni all’anno. Fino a diventare un decremento? Forse, ma la distanza temporale è veramente troppa per formulare proiezioni attendibili.
Il metodo cui si fa ricorso è di presumere una graduale convergenza verso una situazione “media” di riferimento (2,1 figli per donna, speranza di vita lievemente crescente), ma è impossibile tener conto degli avvenimenti futuri che possono alterare il contesto. Ad esempio, i progressi della medicina, che non sono lineari, ma procedono con improvvise escursioni: “scoperte”, applicazione delle scoperte e loro diffusione su larga scala. Non era possibile prevedere ieri l’Aids, non è possibile conoscere oggi le eventuali terapie future contro l’invecchiamento che potrà metterci a disposizione la ricerca scientifica. Chi non si fa scrupolo di suggerire dove stiamo andando, è Hans Rosling, lo scienziato svedese fondatore di Gapminder, e protagonista di favolose conferenze TED. Guardate questo video della Bbc, dove in 4 minuti condensa cos’è successo in 200 anni alla popolazione di 200 Paesi.
Aumento del reddito pro-capite e allungamento della vita sono andati insieme, migliorando le condizioni – sia pure in misura diversa – un po’ dappertutto, anche se le distanze rimangono fortissime fra i Paesi e dentro i Paesi (vi sono aree della Cina come Shanghai, paragonabili all’Italia, e altre aree della Cina vicini al Pakistan). I due grafici delle Nazioni Unite qui di seguito ci spiegano in dettaglio le stesse cose.
Questo per il passato. In quest’altro video Rosling chiarisce ulteriormente quali prospettive ci aspettano: un’umanità che nel 2050 arriverà a 9 miliardi di persone (le nove scatole dell’Ikea), con l’Occidente che deve aspettarsi di essere una piccola minoranza numerica (un solo scatolone di colore celestino, circondato da otto scatoloni verdini), ma che può giocarsi il ruolo di “riferimento” del nuovo mondo: se saprà capire, e far capire a tutti, che uguaglianza e distribuzione sono problemi profondamente connessi con la possibilità stessa di sopravvivere come genere umano, nel mutato contesto ambientale. Ma se lo sviluppo (sociale, oltre che economico) è il tramite necessario di una demografia più sostenibile, Massimo Livi Bacci ci ricorda che inevitabilmente la crescita economica di popolazioni povere è destinata nel breve termine ad avere un impatto ambientale proporzionalmente più forte, perché basata prevalentemente sull’acquisizione di beni materiali, mentre solo dopo, in una fase successiva dello sviluppo, prevalgono i servizi immateriali.
La demografia continua ad essere un tema rilevante per l’equilibrio ambientale, anche se oggi non se ne parla più tanto. Se questo è il contesto globale, della bassa fertilità — argomenta l’articolo delNew York Times — si possono apprezzare anche i benefici: vantaggi ambientali (meno popolazione, tendenzialmente meno inquinamento), vantaggi di equità nei ruoli di genere, con donne più in grado di scegliere cosa fare nella vita, vantaggi economici: una maggiore produttività, perché si allargano i margini per dedicare una formazione intensiva a una forza lavoro meno abbondante, ma più qualificata. Costi e benefici tuttavia differiscono molto secondo i Paesi, e non è detto che i rischi siano maggiori dove la paura del declino trova maggiore ascolto. Ne è un esempio il documento The Next America del Pew Research, che spiega il futuro degli Stati Uniti: più grigio. Un europeo, specialmente se tedesco, italiano o spagnolo, sarebbe ben felice di avere una piramide delle età “rettangolare”, come quella disegnata nel Rapporto del Pew per gli Usa. La nostra piramide ha una pancia voluminosa (le generazioni adulte) e una base troppo smilza (i bambini che non ci sono): magari fosse rettangolare, significherebbe che le nuove generazioni sostituiscono le vecchie, senza lasciare vuoti. Il problema non è alimentare paure, che non aiutano nessuno. Ma nominare i problemi, questo sì. E certamente in un Paese come il nostro, le poche nascite rappresentano un problema. Non tanto e non solo per i bilanci previdenziali, ma perché indicano la non libertà nella vita di intere generazioni, donne e uomini che non possono diventare genitori, neanche se lo vogliono. E quindi l’assoluta necessità di riscrivere il patto fra le generazioni, senza che una escluda l’altra, ma trovando il modo di convivere senza farsi troppo male.