Stati disuniti d’Europa. Soprattutto sui diritti civili. A guardare questioni come unioni di fatto, matrimoni omosessuali, divorzio e adozioni, il Vecchio continente sembra un grande Arlecchino sdraiato. Con il risultato che i cittadini dei Paesi rimasti indietro, come l’Italia, sono costretti a spostarsi nei Paesi più “avanzati”. Ed è nato un vero e proprio business dei diritti, soprattutto in Spagna, che da Zapatero in poi è diventata la Bengodi dell’emancipazione in Europa.
Unioni omosessuali
Partiamo dai diritti degli omosessuali. In Italia non esiste alcun riconoscimento legale delle unioni omosessuali. Né è possibile l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso. E anche dopo la sentenza della Corte costituzionale del 9 aprile scorso, alla fecondazione eterologa possono accedervi solo le coppie eterosessuali, sposate o stabilmente conviventi, con una sterilità accertata da documenti medici. Rispetto a molti Paesi europei, l’Italia resta ancora fanalino di coda. «Il gap è ancora molto ampio. Scontiamo una certa arretratezza, soprattutto se paragonati a Paesi come la Spagna, l’Olanda e anche la Germania», spiega Lorenzo Puglisi, avvocato e presidente dell’associazione Family Legal, che assiste diversi italiani che si rivolgono all’estero per fare ciò che in Italia non si può. E per questo ha aperto anche una sede distaccata del suo studio a Madrid. «Di coppie omosessuali in Italia si parla da tanto. Nel 2007, già ai tempi del governo Prodi, si cominciò a parlare di Pacs. Ma ad oggi ancora non siamo mai riusciti a regolamentare le coppie di fatto, e non solo quelle omosessuali. Certo, si sono trovati alcuni escamotage, ad esempio rivolgendosi ai fondi patrimoniali. Ma alcuni diritti come l’assistenza medica del partner o i diritti pensionistici, in particolare per quanto riguarda la pensione di reversibilità, non vengono ancora riconosciuti». Oltre all’Italia, in Europa le unioni omosessuali non sono regolamentate neanche in Polonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Lituania, Lettonia, Estonia, Grecia e Malta. Gli altri Paesi, anche quelli che non hanno approvato il matrimonio vero e proprio, prevedono comunque istituti giuridici simili o inferiori.
La Comunità europea, dal canto suo, già dal 1994 ha emanato una risoluzione che affermava “la parità di diritti per gli omosessuali nella Comunità”, invitando gli Stati membri a eliminare le leggi che “criminalizzano e discriminano i rapporto sessuali tra persone dello stesso sesso”. E lo stesso Parlamento europeo in una risoluzione del 1996 ha invitato “tutti gli Stati membri a riconoscere la parità dei diritti agli/alle omosessuali in particolare istituendo, là dove ancora non sono previsti, contratti di unione civile intesi a sopprimere tutte le forme di discriminazione di cui gli/le omosessuali sono ancora vittima, segnatamente in materia di diritto tributario, regimi patrimoniali, diritti sociali ecc.”. Concetti rafforzati poi in una risoluzione del 2000, in cui lo stesso Parlamento ha chiesto agli Stati membri di garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali. Tre anni dopo, con la risoluzione sui diritti fondamentali nell’Ue, oltre alla richiesta di riconoscere le coppie di fatto, gli Stati membri sono stati sollecitati ad attuare il diritto al matrimonio e all’adozione di minori da parte di coppie omosessuali. Cosa che, nonostante gli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, non è stata ancora attuata da tutti.
Adozioni da parte di coppie gay
Diverso è il caso della possibilità, per le coppie omosessuali, di adottare bambini. Non in tutti i Paesi europei che regolamentano le unioni gay, però, sono legali anche le adozioni. Accade in Francia, ad esempio, ma anche in Austria e in Finlandia. E in Italia, mentre la politica sembra aver dimenticato la questione unioni civili, sempre più coppie omosessuali vanno all’estero per adottare un figlio. Secondo l’associazione Family Legal, una coppia gay su dieci nel nostro Paese varca i confini con questo obiettivo, con un forte aumento nell’ultimo anno di quelle che si sono trasferite definitivamente all’estero. «Da anni assistiamo a quello che viene chiamato forum shopping», spiega Puglisi, «cioè la tendenza a spostarsi in Stati la cui giurisdizione è più favorevole. A pochi chilometri dai nostri confini ci sono Stati che hanno legislazioni molto lontane dai nostri standard». Per le adozioni, «i principali Paesi di destinazione in Europa sono Spagna e Olanda, fuori dall’Europa Canada e Stati Uniti». Il Regno Unito, che dal 2002 ha aperto alle coppie omosessuali la possibilità di adozione, ha una legislazione più rigida che richiede un legame con il territorio e una stabilità prolungata, e quindi è meno ambito. Per Spagna e Olanda, il procedimento invece è più semplice e meno burocratizzato, ma non meno serio. In Spagna, ad esempio, dove secondo i dati ufficiali dell’associazione di famiglie LGBT Galehi ci sarebbero 300mila figli con un genitore omosessuale, «per poter inoltrare la domanda di adozione è necessario essere residenti da almeno 3 anni, che però iniziano a decorrere dal deposito presso la casa comunale della documentazione necessaria a stabilirsi in loco, e non dalla stipula di un contratto di affitto. Poi è necessario provare anche un consolidato legame con il territorio, avendo ad esempio un lavoro nel Paese. Solo se vi sono queste due condizioni, può essere avviato l’iter di verifica di conformità della coppia, con passaggi quindi simili a quelli previsti in Italia per le coppie sposate eterosessuali». E il costo eocnomico di questo “esilio” non è certo per tutte le tasche. «Ci vogliono dai 40 ai 50mila euro in totale», dice Puglisi. E a farlo, non a caso, sono soprattutto coppie benestanti – manager di multinazionali, dirigenti d’azienda – che in alcuni casi si trasferiscono all’estero definitivamente.
Per chi invece torna, una volta conclusa l’adozione, per la quale si dovrà aspettare un anno e mezzo circa, solo uno dei due partner all’anagrafe potrà essere considerato come genitore adottivo. Nel caso di una coppia lesbica, sarà la madre biologica ad avere la patria potestà. Con tutto quello che questo comporta, perché se il genitore considerato tale dalla legislazione italiana ad esempio viene a mancare, l’altro che resta per il figlio è un perfetto estraneo. Stessa cosa avviene se la coppia si dovesse separare.
Fecondazione eterologa e utero in affitto
Il pellegrinaggio in giro per l’Europa alla ricerca della legislazione più favorevole alle proprie esigenze non si ferma solo alle coppie omosessuali. Dal 2004, nel nostro Paese la fecondazione eterologa, cioè con il seme o l’ovulo di una persona esterna alla coppia, è stata vietata. Lo scorso 9 aprile, la Corte costituzionale ha smontato anche quest’ultimo tassello della legge 40. Ma solo per le coppie eterosessuali e nei casi di infertilità certificata.
In dieci anni, questo divieto ha generato un vero e proprio “esilio procreativo”, da parte di chi ha cercato di scavalcare il divieto italiano rivolgendosi all’estero. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio sul turismo procreativo, solo nel 2011 le coppie italiane che hanno deciso di andare all’estero per un trattamento di procreazione assistita sono state 4mila. E non solo omosessuali. Essendo vietato il ricorso a gameti esterni alla coppia, quando uno dei due partner soffriva di sterilità totale bisognava per forza spostarsi nei Paesi in cui la fecondazione è permessa. La scelta del Paese di destinazione varia in base al trattamento che si cerca. Ci sono Stati in cui è permessa solo la donazione di gameti maschili, altri in cui è consentita la donazione di gameti sia maschili sia femminili ma solo per coppie sposate, altri ancora in cui è possibile anche ricorrere alla donazione degli embrioni, altri ancora in cui è permessa la tecnica della maternità surrogata (qui il documento del Parlamento europeo che raccoglie le diverse legislazioni dei Paesi europei).
Per la fecondazione eterologa, la Spagna è il Paese principe, anche se non permette la maternità surrogata. E non a caso in tutto il Paese sono spuntate numerose cliniche che permettono l’accesso all’inseminazione artificiale, sia omologa sia eterologa, sia per le coppie sposate sia per i conviventi, purché vi acconsentano in modo libero e cosciente. Gli ultimi dati dicono che il 63% delle coppie che in Spagna fa la ovodonazione è italiana. Con costi superiori a 10mila euro per coppia, più il viaggio, l’albergo e le altre spese per vivere in un Paese straniero.
Per la maternità surrogata, invece, quando cioè una donna si fa carico di una gravidanza, per conto di una coppia sterile, omosessuale o di un single, fino al parto, i Paesi più battuti dagli italiani sono Ucraina e Stati Uniti. Con differenze notevoli. «Noi sconsigliamo l’Ucraina», dice Puglisi, «perché le autorità giudiziarie sono meno affidabili. Ed è importante trovare una donna adatta a donare il suo utero, perché se mai si dovesse pentire, la legge italiana gli consentirebbe di venire in Italia ed essere riconosciuta come genitore. Negli Stati Uniti, dalla Florida alla California, certamente ci sono maggiori garanzie, ma si spende di più, dagli 80 ai 100mila euro, mentre in Ucraina si spendono al massimo 25mila euro». Ma a Kiev per praticare la maternità surrogata i richiedenti devono essere sposati, con un documento che certifichi la sterilità della madre. Quindi, non è consentita alle coppie omosessuali. La pratica dell’utero in affitto è permessa anche in Gran Bretagna, purché però non ci sia passaggio di denaro.
Divorzio breve
Ma in Italia è difficile anche divorziare. La legge italiana sul divorzio, approvata nel 1970 e poi sottoposta a referendum abrogativo nel 1974, prevede due fasi prima di arrivare all’annullamento legale del matrimonio. La prima fase è la separazione, per la quale è prevista una durata non inferiore ai tre anni dalla comparsa dei coniugi davanti al presidente del Tribunale. Dopo tre anni, si comincia l’iter per il divorzio. Prima di sposarsi un’altra volta, quindi, servono due sentenze, due giudizi, due difensori da pagare. Nel caso in cui la separazione sia consensuale, cioè quando ex marito ed ex moglie concordano su tutto (cosa molto rara), l’attesa è di circa cinque anni. Ma nella maggior parte dei casi, prima di ottenere il divorzio bisogna aspettare dai dieci ai dodici anni. Ecco perché anche per dirsi addio, mentre nella Commissioni giustizia si avanzano diverse proposte di legge sul divorzio breve (quella presentata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, ad esempio, prevede di separarsi passando solo dall’avvocato, senza presentarsi davanti al giudice) che fanno ben sperare, si preferisce andare all’estero.
Oltre che in Italia, lo scoglio dei tre anni di separazione esiste in pochi altri Paesi, come l’Irlanda del Nord, Malta e qualche Stato dell’America Latina. In Stati come Finlandia, Svezia o Austria, la separazione invece non esiste. In altri, come Spagna, Germania e Francia, esiste solo la “separazione di fatto” per un certo periodo di tempo prima di chiedere il divorzio vero e proprio. Ma non si tratta di due giudizi distinti, che in Italia allungano invece i tempi. E i costi. In Svezia la richiesta di divorzio viene accettata automaticamente se a presentarla sono entrambi i coniugi. Si aspettano sei mesi, invece, se uno tra marito e moglie si oppone. In Francia bisogna attendere al massimo due anni. Stessa cosa per Inghilterra e Olanda. Negli Stati Uniti, addirittura, le separazioni consensuali si fanno per posta senza passare dall’aula di tribunale.
«In Italia siamo rimasti troppo indietro», dice l’avvocato Puglisi, «i tre anni di separazione non hanno più ragion d’essere. Anche perché si è visto che la maggior parte dei coniugi in questi tre anni non torna insieme. Bisogna accorciare i termini ed eliminare i due step». Come in Spagna, Olanda e Romania, dove molti italiani si rivolgono per divorziare in poco tempo. Con un aumento, spiega Puglisi, «di almeno il 30% delle richieste dal 2012 a oggi».
I requisiti richiesti sono la residenza o il domicilio di almeno uno dei due coniugi. In Romania, la residenza si ottiene in una sola giornata, e dopo sei mesi si può divorziare. Più complicato, invece, per la Spagna, che richiede l’empadronamiento, cioè il documento che attesta la residenza, e per averlo bisogna dimostrare di avere un appartamento in affitto o di proprietà. E tra l’Italia e questi Paesi è nato un business, con diversi studi italiani che hanno creato sedi all’estero e viceversa. Con tutti i pericoli che questo comporta. «In Romania, ad esempio, molti si sono improvvisati avvocati divorzisti senza neanche esserlo, e permettono di separarsi a prezzi stracciati, con soli 1.500 euro». Il prezzo medio, per portare a termine la pratica all’estero, invece, è tra i 5 e i 6mila euro. Sempre meglio di un calvario di anni e anni tra le aule di tribunale italiane.
E la fine del matrimonio sarà valida anche in Italia, grazie al regolamento europeo numero 2201 del 2003 che rende valide anche le sentenze emesse negli altri Paesi europei. Non solo, il cavillo per sfuggire alle lungaggini italiane può essere anche un altro, un regolamento del Consiglio Ue del 2010 che prevede una cooperazione “rafforzata” tra una quindicina di Stati, tra i quali Belgio, Bulgaria, Italia, Spagna, Grecia, Germania, Francia, Portogallo, Romania, sulla legge in materia matrimoniale. Se uno dei due coniugi è straniero, è possibile chiedere al giudice italiano di applicare direttamente la legge dello Stato straniero di uno dei due coniugi. Meglio, quindi, preferire un coniuge spagnolo o romeno. Non si sa mai.