«Oh, facciamo un articolo sulle band più disagiate del momento? Una roba bella scura, triste e senza speranza?»
«Ma no, Cristo, facciamone uno sulle band alternative che fanno canzoni allegre senza derapare nel dozzinale?»
Ecco, questo è un dialogo che si ripete più o meno ogni mese: meglio l’alternative triste o quello allegro? E ogni volta si sfiora la rissa. Alla fine abbiamo deciso di venirci incontro e di prendere le cose con filosofia. Nello specifico, con Platone e la sua Biga Alata. Per capirci: nel Fedro, Platone paragona l’anima a una biga trainata da due cavalli, uno nero e uno bianco. Il primo punta verso il mondo sensibile, la terra corrotta che la luce della speranza non è in grado di raggiungere; il secondo spinge verso l’iperuranio, il mondo delle idee, dove alberga l’essenza delle cose e il contraltare di tutti i mali.
Musicalmente parlando, il cavallo nero è il malessere, una finestra sulla vita scura quanto la sera di un giorno infrasettimanale in cui non sei riuscito a combinare nulla di produttivo. La testa è in preda a loop di inutilità e la rappresentazione che trovi per la tua situazione mentale è quella Downward Spiral che Trent Reznor aveva descritto vent’anni fa. La soluzione per uscirne, in quel disco dei Nine Inche Nails, era il suicidio; e allora tu compi il tuo mettendo su Country Feedback. E quando la voce di Michael Stipe finisce di macellarti con quel «It’s crazy what you could’ve had», sei pronto per una notte di sonno in cui i demoni la faranno da padrone.
Il cavallo bianco, per contro, è il benessere. Non la gioia ebete degli stolti, quanto l’urgenza esplosiva degli scatenati, quella che ti coglie quando alla fine di una settimana devastante capiti per caso in un pub, becchi amici che non vedevi da tempo e dalle casse arriva inattesa A Pillar of Salt dei Thermals. È la rabbia catartica che ti trascina dentro al pogo generato da All Outta Angst dei NOFX e ti risputa fuori spogliato dall’armatura di preoccupazioni che hai indossato per settimane. È l’improvvisa fiducia nel mondo, in te stesso e negli altri che arriva quando i Death Cab For Cutie indovinano un’altra perla.
Ecco, un bravo auriga dovrebbe saper domare la coppia di cavalli in modo da rimanere sospeso tra queste due sfere di influenza, in modo da tangerle senza mai atterrare. Per aiutarvi a diventare bravi nocchieri nell’insidioso panorama alternative contemporaneo, abbiamo selezionato tre gruppi pieni di tristezza e tre intrisi di felicità. Fate buon viaggio, e occhio alle redini.
I GRUPPI PER STARE MALE
The Antlers
Dopo un paio di dischi di riscaldamento, nel 2009 Peter Silberman decide che è il momento di passare da un folk lo-fi registrato in cameretta a un impianto da band orchestrale. Una robetta semplice, insomma. Ingaggia un polistrumentista e un batterista e gli Antlers si auto-producono un disco clamoroso, che va esaurito in tempo zero e permette loro di firmare per la Frenchkiss Records, che lo ristampa immediatamente. Sperimentale, arty, stratificato, zuppo di melodia, se Hospice fa male è per la storia che racconta: la relazione emotiva tra un tizio che lavora in una casa di cura per malati terminali e una paziente malata di cancro alle ossa. Una spirale lirico-musicale che ti trascina giù a colpi di paure, romanticismo, sofferenza e traumi. Ora, a distanza di tre anni dall’ultimo disco, Burst Apart, la band di Brooklyn sta per tornare con un nuovo album, Familars, atteso per metà giugno e anticipato dal singolo Palace, in cui i nostri sfoderano tutto il loro arsenale pesante fatto di ricordi, infanzia, morte e isolamento.
Lumbar
The First and Last Days of Unwelcome è un disco di fine 2013 che abbiamo scoperto a inizio 2014 e ci ha accompagnato quando volevamo rendere ancora più bui i mesi freddi dell’anno. La storia che c’è dietro album e band è devastante. Aaron Edge (Brothers Of The Sonic Cloth, Iamthethorn, Roareth, Rote Hexe) convince altri due amici stacanovisti della musica pesa e malata — Mike Scheidt (YOB, VHÖL) e Tad Doyle (Tad, Brothers Of The Sonic Cloth) — a intraprendere un nuovo progetto musicale più doom e sludge possibile. I due accettano, sapendo che da un paio d’anni Aaron non è al massimo della forma. Soffre di un dolore alle mani e alle gambe che con il passare del tempo non fa che peggiorare, al punto da non riuscire più neanche a fare cose semplici come lavare i piatti o andare in bici. Dopo una serie di controlli medici arriva la diagnosi più estrema: sclerosi multipla. I giorni di agonia e depressione e i pensieri di suicidio lo portano a scrivere il materiale per il disco, che gli altri due completano in studio mentre lui è a paralizzato a letto. Il nome scelto per il progetto, Lumbar, si riferisce alle punture cui Aaron è stato sottoposto per diagnosticargli il suo male e i sette pezzi che compongono l’album sono un viaggio di dolore e angoscia lungo una settimana.
Sun Kil Moon
Mark Kozelek è dagli anni ’90 che ce la mette tutta per farti scavare nel malessere. Prima con i Red House Painters e quel loro rock talmente lento e minimale che a volte ti trovavi a chiederti se eri ancora vivo mentre li ascoltavi, poi con il progetto Sun Kil Moon, che disco dopo disco è probabilmente arrivato ora all’apice della tristezza. Benji è un album spogliato di tutto, gli arpeggi della chitarra viaggiano circolari in un vortice in slow motion su cui sono poggiate storie e sentimenti privi di ogni patina. C’è un sacco di morte nell’album. In I Watched The Film The Song Remains The Same, per esempio, Kozelek racconta di un weekend passato con gli amici a guardare quel film e di come poi, nell’ordine: un suo amico viene investito da un camion dopo essere caduto dal motorino, muore la sua compagna di banco dei tempi della scuola e infine anche sua nonna passa a miglior vita. In I Can’t Live Without My Mother’s Love la morte è invece lo spettro che prima o poi si porterà via sua madre, cosa cui Kozelek non riesce a immaginare di sopravvivere. E se non ne avete abbastanza, ci sono anche pezzi che raccontano di stragi ( Pray for Newton), monotonia (Truck Driver) e ritardi mentali (Micheline). Se amate l’oscurità, avete trovato il vostro profeta.
I GRUPPI PER STARE BENE
Titus Andronicus
I Fast Animals and Slow Kids hanno dichiarato di essere i più grandi fan italiani dei Titus Andronicus. Il che non stupisce: una cosa che hanno in comune con i cinque ragazzi del New Jersey è la capacità di spingere tonnellate di malessere e disagio attraverso le larghe e catartiche maglie dello sfogo, trasformando quella che fermenta come un’urgenza distruttiva in un’esplosione di gioiosa follia che non lascia spazio per altro (se non forse per i postumi). Quello dei Titus Andronicus è un particolare blend di indie-rock, punk e folk, un pennello di fiele che scorre rapido su una tela ingolfata di colori accecanti. Attualmente la band sta preparando il quarto disco, una sorta di opera rock da 30 pezzi, che il frontman della band descrive come «una complicata metafora sulla mania depressiva, che fonde elementi di filosofia, psicologia e fantascienza esplorando la condizione critica dei demoni interiori di protagonista disturbato». Insomma, manco a farlo apposta: malessere e benessere come facce di una stessa medaglia.
State Radio
Chi ancora crede che il reggae sia un genere sterile, si merita di essere legato a una sedia e obbligato ad ascoltare uno dietro l’altro i dischi di questo trio di Sherborn, Massachussetts. Nati nel 2002 dalle ceneri dei già ottimi Dispatch, gli State Radio sono al momento una delle poche band in grado di cucinare pezzi di pregiata fattura mettendo in pentola reggae, blues e punk come se non ci fosse un domani. Merito anche e soprattutto del frontman Chadwick Stokes, che oltre a essere un ottimo polistrumentista e un rispettato attivista politico, è in grado di scrivere canzoni capaci di inoculare serenità anche nel cranio dei peggiori disfattisti.
Fang Island
Quando gli hanno chiesto perché le canzoni dei Fang Island siano tutte così allegre, tanto da far venire il dubbio che siano state composte direttamente in una piscina di Prozac, Jason Bartell ha dichiarato: «I am pretty ding-dong-doodily-delighted, all the time» che è un po’ come se Ned Flanders rispondesse: «Sono sempre piuttosto allegrin allegrello». Musicalmente parlando, considerando la scena da cui emergono (e nella quale continuano a piantar radici), i Fang Island sono una bestemmia. Nei loro dischi si trovano intuizioni math-rock subito stemperate in ritmiche punk-rock, caleidoscopiche progressioni armoniche schiaffeggiate da una voce stile Chimpmunks, tanto che quando credi di aver capito che diavolo di genere facciano questi tre scoppiati di Rhode Island, loro ti sorprendono con un riff che sembra una suoneria del Nokia 3310, o con una ruffianata in quattro quarti che saprebbe rubare la piazza a una band indie da disco-pub londinese. Qualcuno ha provato a cavare dal cappello il nome Happy-Core e, considerando che l’ultimo disco si intitola Major (un chiaro riferimento al fatto che le tonalità sono quasi sempre in maggiore), probabilmente ci ha azzeccato.