Week end antiazzardo, per giocatori e familiari

Week end antiazzardo, per giocatori e familiari

«Si può, sì, scommettere in solitudine, ma non si può guarire da soli». A parlare sono Nella Mazzone e Silvia Taliente, psicologhe dell’associazione Spia, Sentieri di psicologia integrata e applicata, tra le ideatrici del “week end antiazzardo” nel chiostro di Sant’Agostino a Loano, in provincia di Savona. Si tratta di un modello sperimentale di cura dalla dipendenza da gioco, un’esperienza full immersion di tre giorni che coinvolge anche i familiari del giocatore. Perché, dicono, «il segreto e l’isolamento alimentano le menzogne, le promesse mancate, il senso di colpa, la vergogna, e poi le accuse, la sfiducia, la rabbia, l’impossibilità di comprendere quale sia la proporzione corretta del disastro». Il primo week end era previsto per il ponte del primo maggio, ma non è stato raggiunto il numero minimo di partecipanti (3), così la partenza è stata rimandata a giugno.

Secondo i numeri del rapporto Azzardopoli dell’associazione Libera, i dipendenti dal gioco in Italia sarebbero 800mila, quasi 2 milioni invece i soggetti a rischio. Intorno a ogni giocatore, spiegano Mazzone e Taliente, ci sono cinque persone che soffrono e subiscono danni: «L’azzardo è un problema etico, culturale e sanitario», che «comporta danni gravissimi, non solo per l’aspetto economico e patrimoniale, ma soprattutto nei rapporti familiari e sociali. Il giocatore ha la mente polarizzata sul gioco, è assente con i figli, partner, genitori, amici». E anche nei casi in cui ancora non ci si trova a doversi indebitare, «si gioca il futuro, la possibilità di fare progetti di vita e anche la quotidianità, una vacanza, un acquisto, la cura dentistica».

La famiglia, insomma, è coinvolta tanto quanto il giocatore. Da qui la necessità di farla partecipare al percorso di cura, soprattutto per evitare pregiudizi e convinzioni sbagliate. «Quando il giocatore riesce ad accedere a un percorso di cura può scattare un meccanismo per cui tutti pensano che ormai è fatta», continua Mazzone. «Il giocatore che torna a casa si aspetta il trattamento riservato al figliol prodigo e al contempo i familiari si aspettano una persona nuova che ha capito i suoi errori e non ricadrà più. Questo in realtà dà adito a incomprensioni e false aspettative che facilitano la ricaduta». Qualche esempio: «I familiari che continuano ad affidare denaro, per le bollette e spese varie al giocatore perché deve essere responsabile. Oppure la moglie diventa furiosa di fronte al fallimento della piccola ditta artigiana del marito: “Se la banca non avesse preteso il rientro in così poco tempo mio marito non sarebbe sulla strada …’’, senza tener conto del fatto che i soldi il marito li avrebbe avuti e non sarebbe stato messo alle strette dalla banca se non li avesse giocati». Da questi esempi, spiegano le psicologhe, «possiamo dire che gli scivolamenti della logica, che giustificano l’azzardo nel giocatore, si trovano in modo speculare nel suo sistema familiare». Per cui, «tutto il sistema deve essere bonificato, un solo elemento non può farcela da solo».

La formula week end permetterebbe quindi un’«interruzione della routine d’azzardo». Ed «essendo una parentesi breve, non crea l’illusione che i temi dell’azzardo abbiano un posto altrove, dove rimangono confinati». La lotta, insomma, al di là del week end, deve essere quotidiana: «L’iperteso la pastiglia la prende tutti i giorni, il giocatore e la sua famiglia dovranno applicare le strategie di difesa dall’azzardo tutti i giorni». 

Nella tre giorni, il tempo è rigorosamente strutturato con due percorsi psicologici – verbali e non verbali – paralleli e contemporanei rivolti al giocatore e al suo familiare accompagnatore. I gruppi, invece, che si svolgono in moduli di 4 al giorno più alcune attività corali, «hanno un focus molto definito in modo da svelare e smontare i meccanismi pseudo-logici e pseudo-affettivi alla base dell’azzardo e delle relazioni familiari, per suggerire/ricercare insieme la strategia di resistenza». La spesa non è poca: 750 euro a testa, cioè 1.500 euro a coppia con il familiare. «Con la parte di fatturazione sanitaria, circa il 40% del totale detraibile dalle tasse», precisano. 

E dopo il week end cosa succede? «Abbiamo previsto contatti di collaborazione con i punti di riferimento di chi fosse già in cura presso SerT o professionisti o partecipasse a gruppi di auto mutuo aiuto ma sentisse il bisogno di un lavoro intensivo con un familiare», rispondono le psicologhe, «e per chi invece non avesse mai avuto contatti di cura prevediamo una precisa informazione sulle possibilità nel suo territorio. L’obiettivo è quello di riuscire a entrare in contatto non solo con i giocatori patologici ma soprattutto con quella enorme area ‘grigia’ rappresentata dai giocatori a rischio ma non ancora diagnosticati come patologici». Perché accade come nei colpi di sonno alla guida: «Non ci si addormenta di colpo, è un processo in progressione di cui si fa fatica ad accorgersi. Soprattutto perché oggi l’offerta di azzardo è diventata così potente da indurci a considerare innocente e normale un vero e proprio nemico sociale».

E il rischio riguarda tutti. Non c’è una tipologia per il giocatore d’azzardo. «È una patologia trasversale: uomini e donne di ogni età e ceto sociale, anche gli adolescenti che si avvicinano spinti dalla curiosità. Gli anziani, in particolare, sono fortemente coinvolti: le offerte di azzardo fanno leva sul bisogno di socialità, sul desiderio del maggiore benessere economico che può derivare dalla grossa vincita, sull’apparente innocenza di un gratta-e-vinci che dà l’illusione di divertimento senza perdere nulla, in realtà a pochi euro per volta intacca la pensione». Non si salverebbbero nemmeno i bambini, «che vengono inconsapevolmente avviati al gioco magari regalando loro un gratta-e-vinci o chiedendo loro di ‘grattare’». Non solo. «Sempre più spesso si assiste a bambini, anche piccolissimi, a cui viene dato il cellulare o il tablet perché possano giocare e stare tranquilli», spiegano le psicologhe. «Il problema è che le circa 2.200 app studiate apposta per i bambini, con giochi di vario genere, inducono un’abitudine a interfacciarsi con uno schermo, piuttosto che agli stimoli ambientali, come dentro a una bolla, dove la realtà non penetra e dove il meccanismo di gioco non ha nulla a che vedere con l’abilità, ma piuttosto con la capacità di reazione immediata a uno stimolo. Il che significa che non solo i bambini sempre più sono incapaci di relazionarsi con l’ambiente, ma che vengono abituati sin da piccoli al ‘meccanismo bolla’, esattamente il meccanismo difficile da scardinare e che agisce sul dipendente da gioco. Oggi si pigia sul bottone video dello smartphone o del pc, domani sul pulsante della slot».