Ricapitoliamo: grazie a un’indagine colossale, partita da una macchia di Dna sulle mutande di Yara Gambirasio, la vittima, si è arrivati a fermare Massimo Giuseppe Bossetti, muratore quarantaquattrenne di Mapello quale sospettato unico – secondo il ministro dell’Interno, già condannato, praticamente – dell’omicidio della tredicenne di Brembate di Sopra. Lo è in relazione a una prova che per molti è inconfutabile: il suo Dna, infatti, corrisponde al 99,99999987% con quello della macchia lasciata dal presunto assassino di Yara. C’è un problema, però: dopo essersi avvalso due volte della facoltà di non rispondere, Bossetti ha parlato e si è dichiarato innocente. Ha detto che quella sera era a casa con la famiglia e che il suo cellulare era spento perché scarico. Non solo: il Gip di Bergamo, Ezia Maccora, con una decisione piuttosto sorprendente, non ha convalidato il suo arresto anche se Massimo Giuseppe Bossetti deve rimanere in carcere, visti gli indizi di colpevolezza. Nel frattempo la madre del presunto assassino, intervistata dal Corriere della Sera, nega che Bossetti sia figlio illegittimo: «La scienza ha sbagliato». La domanda è una sola, a questo punto, e va oltre il caso dell’assassinio di Yara: se non ci fosse una confessione, se il suo alibi non dovesse cadere, basterebbe la sola corrispondenza tra il Dna di Bossetti e quello sulle mutande di Yara per condannarlo?
Cosa dice la legge? Il test del Dna è una prova o un indizio?
La legge in questo senso è molto chiara: la Corte di Cassazione penale, nel 2004, ha dichiarato che «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul Dna, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma secondo». In lingua umana: può essere considerata alla stregua di una prova e quindi sufficiente per condannare Bossetti.
Quindi Bossetti verrà condannato senza alcun dubbio?
Non è detto. Perché nella prova del Dna esistono zone d’ombra tali da poter mettere in dubbio l’attendibilità sia del test, sia quello del suo risultato. Nel suo saggio dal titolo Tra il certo e l’impossibile. La probabilità nel processo (Diritto e questioni pubbliche, 2010) l’autrice Francesca Poggi le mette in fila tutte.
Quali sono le zone d’ombra del test del Dna?
Partiamo dall’inizio. Come funziona questo test: per accertare se un individuo possa essere l’autore di un dato reato, si confronta il suo Dna con quello rinvenuto sulla scena del crimine o sul corpo della vittima, impiegando un procedimento che, per analogia con quello relativo alle impronte digitali, viene chiamato fingerprinting genetico. Siccome due soggetti qualunque, non legati da rapporti di parentela, hanno in comune circa il 99,9% del patrimonio genetico, la comparazione riguarda solo alcune sezioni di Dna, dette loci: sequenze monotone (cioè che presentano una ripetitività casuale di una coppia di basi), non codificando proteine, variano da individuo a individuo con una probabilità di corrispondenza casuale che si aggira attorno allo 0,0001%. Dopo un processo complicatissimo, in cui, tra le altre cose, si rendono confrontabili i risultati presi in laboratori diversi e si depurano i diversi Dna da parti corrotte e contaminate, si confrontano i genotipi. Nel caso collimino perfettamente o quasi (come nel caso di Bossetti) si dice che i Dna corrispondono.
Del Dna di Bossetti si dice che corrisponde al 99,99999987% con quello dell’assassino. Non è una corrispondenza più che certa?
Sì, lo è. Quel numero vuol dire che c’è uno 0,00000013% che la corrispondenza del Dna di Bossetti con quello rinvenuto sul luogo del delitto sia semplicemente figlia del caso. O, in altre parole, che la possibilità che la corrispondenza tra il Dna di Bossetti e quello sulle mutande di Yara sia casuale è nell’ordine di una su miliardi. L’errore, spiega la Poggi, semmai è un altro: confondere quella che in questo caso è una bassissima probabilità di corrispondenza casuale con una prova di colpevolezza. La Poggi definisce questa come la «fallacia dell’accusatore»: in altre parole l’imputato potrebbe essere innocente, pur essendo la fonte del materiale genetico. Insomma, anche se il DNA rinvenuto sulla scena del reato (o sul corpo della vittima) appartenesse all’imputato, ciò non implicherebbe che sia il colpevole, potendo ben esserci altre spiegazioni di tale rinvenimento.
Nel caso di Yara tuttavia sembrano esserci pochi dubbi. Com’è possibile che il Dna rinvenuto sulle mutande della ragazza non sia quello dell’assassino?
Il reperimento e la raccolta del materiale genetico sulla scena del crimine è un’operazione particolarmente delicata, che, se non compiuta accuratamente, rischia di condurre su strade sbagliate. C’è un esempio che in questi giorni stanno citando in molti, quello del caso del Fantasma di Heilbronn. La storia è questa: dal 1993, in Germania, si susseguono diversi omicidi in cui furono rinvenute tracce del medesimo Dna, appartenente a una persona di sesso femminile. I poliziotti allora pensarono a quel che pensereste anche voi: a un serial killer, che tuttavia non venne mai preso. Come mai? Semplicemente perché non esisteva. Infatti nel 2009 si scoprì, casualmente, che i bastoncini di ovatta usati per il prelievo del Dna, forniti da un’unica ditta, erano stati tutti contaminati col materiale genetico della stessa operaia. Nel caso di Yara, ad esempio, non si capisce ancora se il Dna rinvenuto sulle mutande della ragazza sia sudore, sangue o altro. Come spiega bene Federico Grosso, docente di Diritto Penale all’Università di Torino, nonché primo difensore di Anna Maria Franzoni, questo «è chiaramente un problema per l’impianto accusatorio che può diventare anche molto grave. La Cassazione ha fissato con molta nettezza il principio che la prova deve essere data “oltre ogni ragionevole dubbio”. Se non è più così, se la difesa sarà in grado di avanzare una ricostruzione alternativa dei fatti, questo potrebbe mettere in discussione l’intera costruzione».
Esistono molte possibilità di errore?
I periti tendono a negarlo, ma secondo la Poggi le possibilità di «falso positivo» possono essere diverse: problemi tecnici come un mal funzionamento degli enzimi o delle apparecchiature impiegate; o anche errori umani, dalle possibili contaminazioni, fino ad erronee interpretazioni del genotipo. Una ricerca condotta negli Usa nel 1995 ha stimato che nei profili del Dna il tasso di false positività si aggiri intorno all’1 su 100. Nel processo O. J. Simpson, uno dei laboratori che riscontrò una corrispondenza tra il Dna dell’imputato e quello ritrovato sulla scena del delitto dichiarò alla difesa che il suo tasso di false positività era di circa 1 su 200. In altre parole: più che una questione di «corrispondenza casuale» ciò a cui potrebbe appellarsi la difesa di Bossetti è la possibilità di «falso positivo». Non è un caso che, per cautelarsi, gli inquirenti l’abbiano rifatto due volte.
Se il test ha dato due volte lo stesso risultato, vuol dire che il rischio di falso positivo è minimizzato?
Anche in questo caso, dipende. Pur essendo una metodologia d’indagine che esiste da decenni, l’Italia è uno dei pochi paesi europei che non ha ancora una banca dati del Dna di cittadini pregiudicati. L’Europa ce la chiede dal 2005: in Inghilterra sono schedate 3 milioni di persone, in Francia mezzo milione, in Germania 500mila criminali, negli Usa i sospetti vengono schedati geneticamente da più di vent’anni. Da noi c’è una Banca dati nazionale del Dna presso il ministero dell’Interno, finalizzata all’archivio delle schede di condannati e indagati, «ma le schedature non sono ancora partite». In altre parole: come posso sapere quanto è probabile una certa corrispondenza casuale o la possibilità di un «falso positivo» se non so con quanta frequenza ricorre nella popolazione?