#Brasile2014, il Mondiale è un affare geopolitico

#Brasile2014, il Mondiale è un affare geopolitico

È sempre stato un passo a due: Europa e America Latina; e lo sarà anche questa volta. Ma vincerà una squadra europea perché possiede due primati: la strategia e la tecnologia. Ne è convinto Vitomir Miles Raguz, banchiere parigino e allenatore con tanto di patentino. Sul Wall Street Journal ha scritto un lungo articolo per motivare la sua previsione. Tutti, alla vigilia della Coppa del mondo si sono dedicati a scommettere, come è normale, e a divinare chi sarà la stella che farà la differenza. La maggior parte punta sul Brasile che gioca in casa (secondo le statistiche ciò aggiunge oltre un terzo di probabilità), e vede quattro squadre favorite: due europee, Germania e Spagna, due del sud America, Brasile naturalmente e Argentina. Con due outsider, il sorprendente Belgio e l’Uruguay che arrivano dai due continenti rivali.

A mano a mano che il football diventa lo sport globale (ancora non lo è perché ha un impatto minimo in colossi come l’India, anche se nel Nord America sta facendo passi da gigante) il gioco si fa più complesso e con esso anche il reticolo degli interessi. Nemmeno la corruzione che circonda da sempre la Fifa (l’ultimo scandalo riguarda l’assegnazione della competizione al Qatar) ne ha ridotto l’appeal.

Il Financial Times e il Wall Street Journal, le due testate che più influenzano i mercati, hanno dedicato pagine e pagine ai vari aspetti della Coppa del Mondo, compresi i più frivoli come la gara per gli abiti dei calciatori, senza contare la colossale guerra tra le multinazionali dello sport per produrre la palla tecnologicamente perfetta (con il rischio di commettere errori clamorosi come in Sud Africa dove si giocava con una sfera troppo leggera e troppo liscia, tanto da rendere imprevedibile la sua traiettoria).

Goldman Sachs ha cominciato per tempo ad annunciare la sua puntata sul Brasile. Non sorprende. La banca d’affari americana è quella che ha inventato i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e in quattro di essi il calcio è già il primo sport. Ma è anche quella che ha gettato una pioggia di miliardi sull’eterna promessa sudamericana, incurante delle continue delusioni. Altri colossi della finanza mondiale sono più cauti; in ogni caso nessuno resiste alle sirene di un gioco diventato un grande affare destinato ad avere ricadute non solo nel mondo degli affari, ma anche nella geopolitica.

La geopolitica del calcio è un pallino di Pascal Boniface, professore a Science Po e direttore dell’Istituto per le relazioni internazionale e strategiche di Parigi. Ha scritto recentemente un libro di successo (Football et Mondialisation), ma le sue analisi sono diventate popolari dopo la vittoria della Francia nel 1998, con la squadra delle tre B (Bleus, Blancs e Beurs), guidata dalla franco-algerino Zinedine Zidane, che sembrava un mélange ben riuscito, un esempio di integrazione piena. La vittoria del Front National sembra dire il contrario, anche se molti elettori di origine araba hanno votato per Marine Le Pen che ha giurato di non consentire mai e poi mai il matrimonio tra omosessuali. Ci sono più cose in cielo e in terra di quanto contenga ogni filosofia.

L’idea che il football sia una guerra condotta con altri mezzi, un surrogato delle armi, un veicolo diplomatico più efficace di lunghi discorsi e noiose risoluzioni dell’ONU, come pensa Boniface, o che possa diventare persino l’araldo della democrazia (Christopher Anderson della Cornell University sostiene che più un paese è democratico più probabilità ha di vincere la coppa del mondo), insomma tutte le teorie fiorite negli ultimi vent’anni, sono destinate a durare lo spazio di un mattino. È vero che la globalizzazione ha favorito il proselitismo calcistico, e la televisione lo ha reso davvero uno spettacolo mondiale. Questi sono due fatti evidenti. Ma più in là meglio non spingersi, ogni generalizzazione rischia di essere contraddetta. Del resto, persino la globalizzazione ha subito, con la crisi, qualche battuta d’arresto.

Anche per questo, l’analisi del finanziere-allenatore merita un’attenzione particolare. Miles Raguz ricorda che dagli anni ’70 in poi le maggiori innovazioni nel gioco sono venute dall’Europa, prima dall’Olanda poi dalla Spagna e le potenze continentali (Germania e Italia) le hanno assimilate a modo loro, seguite dalla Francia. L’Inghilterra è stata la più lenta ad allontanarsi dalla tradizione e anche per questo non ha mai ottenuto grandi risultati. In qualche modo, fino a quel momento ciascun paese adattava al calcio una sorta di strategia nazionale sia pur molto di base: l’attacco possente e sistematico della Germania faceva pensare all’avanzata delle Panzer-Division, l’assalto con le ali degli inglesi ricordava le cariche di cavalleria, anche le più disastrose come quelle di Balaklava, e il contropiede italiano era la variante sportiva di un paese costretto a difendersi e a spiazzare poi tutti con gesti improvvisi e talvolta scriteriati come l’invasione della Libia. Un imperialismo tardivo e presuntuoso, approfittando del dissolvimento di un impero (quello ottomano). Altri poi seguiranno nel secolo breve e sanguinario.

Dal calcio totale dell’Ajax nulla fu più come prima in Europa e gli europei acquisirono un vantaggio strategico sui sudamericani, brasiliani compresi, consolidato poi dal Bacellona di Guardiola. Ma accanto al modulo di gioco, gli europei hanno saputo utilizzare meglio anche la tecnologia e la scienza: dagli allenamenti alla dieta, si può dire che le varie branche della biologia e della medicina hanno dato un contribuito fondamentale al passaggio del calcio dall’adolescenza alla maturità. Il terzo fattore è stato la caduta delle barriere nazionali.

Simon Kuper e Stefan Szymanski nel loro libro Soccernomics, diventato un punto di riferimento per chi si occupa del football in modo professionale e non, mettono l’accento proprio sulla reazione a catena innescata dalla sentenza Bosman del 1995. I nostalgici così come i neoisolazionisti lamentano che i club europei sono ormai delle multinazionali e questo avrebbe ridotto il legame con i tifosi, quella chimica speciale che si creava con la squadra del cuore. Ma le cose non stanno affatto così. Gli stadi sono più pieni là dove i club sono multicolore, basti prendere l’Inghilterra. Non solo. Il confronto con talenti diversi di paesi e culture diverse, ha arricchito tutti, è stato un win-win game, un gioco dal quale ciascuno ha tratto vantaggio. I sudamericani hanno strutturato in modo diverso le loro squadre, gli africani applicano una strategia più razionale (anche grazie agli allenatori stranieri), cinesi, giapponesi, coreani hanno messo a frutto la loro rapidità e precisione. Mentre negli Stati Uniti, dopo decenni di tentativi, finalmente il soccer è esploso — lo ricordava l’Economist di questa settimana.

Ma proprio il potere diffusivo del “meticciato” non contraddice la teoria di Miles Raguz? Non è vero che oggi Europa e Sud America giocano in modo molto più simile? Non si è già visto negli ultimi campionati il potenziale delle squadre africane? O le sorprese che potranno arrivare dal mar della Cina? Sì, è vero, tuttavia esiste ancora una distanza enorme con gli inseguitori. Ecco, nel calcio si possono applicare le teorie dello sviluppo usate per capire l’evoluzione di paesi o imprese. L’Europa è l’incumbent, poi c’è il Sud America che ha creato un quasi duopolio. Via via arrivano i new comers e vogliono sottrarre ai primi due i privilegi (denaro, tecnica, organizzazione) che hanno segnato il loro successo. Le gerarchie calcistiche non sono lo specchio esatto di quelle economiche e di quelle politiche, naturalmente, però tendono a diventarlo a mano a mano che questo sport apparentemente bizzarro con ventidue uomini in mutande che inseguono una palla, si fa davvero mondiale.

La Germania è il paese dominante in Europa, la Spagna sembra stare agli antipodi, eppure proprio Madrid ha saputo reagire alla crisi in modo più ordinato e “teutonico” accettando, anche subendo, i diktat di Berlino. La Francia si è cullata nella sua prosopopea. L’Italia ha cercato di arrangiarsi senza farsi salvare da nessun paese. Un motivo d’orgoglio che andrebbe valorizzato anche se è costato molto, forse troppo. Dall’altra parte del mondo, il Brasile è la prima potenza latino-americana anche se adesso mostra tutte le sue intrinseche debolezze, come abbiamo scritto qui. L’Argentina dopo la bancarotta del 2001 ha cercato di seguire la via brasiliana (dalla soia per la Cina fino alle recenti scoperte petrolifere nel mare ai confini tra i due paesi) ma con minore capacità strategica. In entrambi i paesi la classe politica è il grande punto debole, con le sue scie di protezionismo, populismo e corruzione. Chi ha seguito un altro modello come il liberista Cile sembra arrivato anche lui al capolinea.

Lanciarci in voli pindarici politico-economici può apparire bizzarro. Eppure non si resiste alla tentazione. Se il Sud America rovesciasse il pronostico e pareggiasse il conto delle coppe (dieci contro le dieci europee) darebbe un colpo di acceleratore, favorirebbe il cambiamento culturale della classe dirigente? La risposta è più no che sì, però potrebbe valer la pena fare la prova. Dunque, ha ragione Goldman Sachs, puntiamo sul Brasile? Forse sì, a meno che l’Italia, contro tutte le macumbe tedesche, non arrivi in finale

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