Caro direttore, bisogna fare pulizia nel Made in Italy

Caro direttore, bisogna fare pulizia nel Made in Italy

Come la pensano gli italiani lo si può comprendere anche dalle lettere ai giornali. C’è un sito, in Italia, che, quotidianamente, pubblica le lettere più interessanti, www.carodirettore.eu, nato per iniziativa dell’Azienda di soggiorno e turismo di Bolzano. Linkiesta ne propone qualcuna, rimandando al sito i lettori che vorranno avere un panorama ancora più vasto di ciò che gli italiani scrivono ai giornali, quotidiani e periodici.

Bisognerebbe fare pulizia, nel Made in Italy

Mia moglie ha acquistato un capo di vestiario in un banchetto di cinesi presso un mercato settimanale. A casa, guardando l’etichetta, ha notato la scritta Made in Italy.In effetti si tratta di una fabbrica (dal nome “cinesissimo”) di Prato, dunque tecnicamente il Made in Italy ci sta. Io penso, tuttavia, che il marchio Made in Italy debba significare qualcosa di più che la mera indicazione del luogo geografico di produzione: la progettazione, il materiale, il controllo qualità e, non ultimo, il rispetto di certe regole del lavoro che da noi o nelle fabbriche estere da noi gestite assicurano un certo standard delle condizioni dei dipendenti. Non è sufficiente leggere quello che quasi quotidianamente si scrive in merito a materiali tossici, a lavorazioni di incerta qualità, a condizioni di sostanziale schiavitù e a tutto quanto viene scoperto nelle fabbriche cinesi disseminate nel nostro territorio? Non c’è, oltre tutto, il rischio di svalutazione verticale del marchio Made in Italy? Di questo passo, tra qualche anno ci troveremo nel paradosso dei prodotti cinesi Made in Italy e di quelli italiani made in China o in qualunque altro Paese dove la nostra produzione sarà dislocata!

Claudio Mostacci, Livorno, lettera al Corriere della Sera, 1 Giugno

E i militari impegnati all’estero, continuano a non poter votare

Il presidente della Repubblica si è più volte giustamente speso, fino alla vigilia, per invitare tutti noi italiani a votare nelle passate elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Dopo aver sottolineato altrettante volte che la presenza e ancora di più il comportamento dei nostri militari all’estero, contribuisce a dare spessore e credibilità alla nostra presenza diplomatica e politica nel mondo, non si è stati capaci di garantire a questi servitori dello Stato in uniforme di questo fondamentale diritto. A che cosa servono le varie gerarchie di responsabilità e la pletora di consiglieri militari, a tutti i livelli, se non si riesce ad assicurare il rispetto di coloro che ci consentono, servendo in armi il Paese là dove il Parlamento e il governo ritengono utile e necessaria la nostra presenza, di avvertire e affermare concretamente il sentimento nazionale che ci unisce? Siamo alla vigilia della celebrazione della fondazione della Repubblica. Davvero uno straordinario omaggio agli uomini in uniforme,che nelle diverse Forze Armate servono la Patria con impegno e responsabilità.

Gen. Gianalfonso D’Avossa, lettera a Repubblica, 1 Giugno

Beppe Grillo o Beppe “Grullo”?

il poeta e scrittore statunitense di origine tedesca Charles Bukowski ebbe a dire che il problema è che le persone intelligenti sono piene di dubbi mentre le persone stupide sono piene di sicurezza. Il mio pensiero è subito andato a Beppe Grillo, il Beppe Grillo al culmine dei suoi urlati proclami. Morale: dovremo allora ribattezzarlo Beppe Grullo?

Leone Pantaleoni, email al Corriere della Sera, 3 Giugno

Galera o assistenza al malati, equazione pericolosa e ingiusta

Caro direttore, ti scrivo non da giornalista, ma da persona qualsiasi che dà all’esperienza del volontariato, a volte anche sconvolgente, una fortissima valenza umana. Ti scrivo da persona amareggiata e, lasciamelo dire, anche indignata. Qualche tempo fa ho avuto modo di vedere la fotografia di Berlusconi che sedeva di fronte a un malato «per scontare la sua pena», si leggeva nella didascalia. Invece di andar recluso come da sentenza, lo Stato lo ha lasciato libero di scegliere una «diversa condanna»: ai servizi sociali che prevedono anche questo compito di assistenza.  Il punto non è lui, al suo posto poteva esserci qualsiasi altro condannato per qualsivoglia reato, il punto è che l’idea di «pena» non può essere associata a un lavoro di amore, di dedizione e, mi si creda, di grande gioia e di arricchimento prima di tutto per chi lo svolge. Fare volontariato per un credente è avvicinarsi a Dio attraverso la sofferenza, per un laico è restituire in parte il privilegio che la vita gli ha concesso, è un dovere civile per tutte le persone di buona volontà. Mai una penitenza. Ma l’aspetto più grave è il pessimo messaggio lanciato ai ragazzi, ai bambini che vanno accompagnati dai genitori a capire la sofferenza e ad aiutare con gioia chi ha meno perché ne facciano tesoro nel cammino per diventare adulti coscienti. Galera oppure purga sotto forma di assistenza ai malati è un’equazione pericolosa e ingiusta, una pena accessoria, una grave offesa fatta a chi è già tanto svantaggiato, a chi ha il diritto di vedersi accanto gente che ha scelto di amarli. Chi soffre non è un’alternativa furba alla reclusione.  E per favore non parliamo di riabilitazione per chi ha sbagliato, nessun condannato sceglie il volontariato per redimersi. Chi sbaglia, paghi: in carcere, in lavori di manovalanza, quelli sì in un istituto o in una onlus, o con una multa talmente salata in grado di aiutare concretamente chi non ha nulla.  E lasciamo che a occuparsi del dolore siano le persone migliori.  

Michela Tamburrino, email alla Stampa, 3 Giugno

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