Il Pan del Diavolo viene dalla Sicilia ed è il nome dissacrante dietro di un gruppo formato da due giovani palermitani: Pietro Alessandro Alosi (voce, chitarre e grancassa) e Gianluca Bartolo (chitarre e seconde voci). Dopo Sono all’osso e Piombo, polvere e carbone, sono tornati sulle scene il 3 giugno con il terzo disco, FolkRockaBoom.
Proprio in quella data, in occasione del Miami festival li abbiamo incontrati per parlare del nuovo disco. Preparatevi perché verrete catapultati in un viaggio fatto di West, Texas, valigie da fare, eroi solitari, mediterraneo e molto, moltissimo Sud.
Dalla copertina si inizia a percepire il vostro immaginario, un film western ma un po’ Sin City.
Questo vuol dire che l’abbiamo azzeccata. Nella copertina, dallo scorso disco, cerchiamo di mettere sempre qualcosa di horror. C’era questo disegnatore che aveva già fatto un disegno per noi che non era mai stato pubblicato e ci è piaciuto moltissimo. Non è qualcosa che abbiamo commissionato, abbiamo poi scoperto che il disegnatore era lo stesso che aveva inventato la maschera di Salmo e che le cose che faceva ci piacevano molto. Allora l’abbiamo chiamato e lui ci ha risposto che era un nostro fan e che sarebbe stato felice di lavorare sulla copertina.
Avete registrato tutto il nuovo album in presa diretta con Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori e avete realizzato mix e mastering a Tucson in Arizona.
La creazione di questo disco parte dalla fine del 2012. Abbiamo cominciato a scriverlo reduci dell’esperienza del live con i Sacri Cuori. Abbiamo sentito il bisogno di farlo noi, di pensare da soli al grosso, allo scheletro e di creare un’ossatura che potesse reggere bene tutti i brani. Antonio Gramentieri è stato il terzo occhio, è una persona di cui ci fidiamo ciecamente e ci ha dato una mano a interpretare alcune scelte sonore e a concretizzarle. A quel punto siamo arrivati a Tucson dove abbiamo incontrato Craig Schumacher (già al lavoro con Calexico, Giant Sand, Bob Dylan).
Come siete entrati in contatto con lui?
Avevamo una serie di alternative, una serie di persone con cui volevamo lavorare. Basta guardare i credits dei dischi che ti piacciono per capire chi potrebbe essere la persona più adatta. Volevamo lui, l’abbiamo chiamato e ha dato esattamente il timbro, il suono che volevamo noi e che ci immaginavamo.
E la prima parte di registrazioni in presa diretta dove le avete fatte?
L’abbiamo fatte al Duna studio in provincia di Ravenna, uno studio attrezzato per il tipo di registrazione che volevamo fare noi. Abbiamo fatto una parte lì e delle piccole parti in altri studi sempre in Romagna.
Quindi Romagna e Arizona. A questo proposito, quali viaggi e quali paesaggi sono entrati in questo lavoro?
Questi pezzi sono ambientati innanzitutto in Sicilia, posto dal quale non possiamo prescindere mai. C’è anche tutta la parte Toscana di Volterra, un posto assolutamente fiabesco, dove ci siamo rinchiusi a scrivere fra una data e l’altra. Abbiamo preso una stanza lì e una sala prove e le abbiamo utilizzate per tanto tempo, lì sono nate molte canzoni. Poi c’è l’Emilia Romagna dove abbiamo registrato e ovviamente l’America. Siamo stati anche molto in tour, abbiamo fatto un centinaio di date in Italia e questo ci ha permesso di girarcela tutta. L’anno scorso siamo andati per la prima volta negli Stati Uniti, siamo tornati molto caldi e molto in fermento ed è stato a quel punto che abbiamo chiuso l’album.
Il titolo dell’album, FolkRockaBoom, sembra definire un genere vostro e personalissimo, ma che cosa c’è veramente dentro questa parola?
Be’, per noi è innanzitutto il titolo di un album. Ci sono però almeno tre significati dentro questa parola: il primo è proprio il titolo dell’album che cerca di inquadrare quello che facciamo a livello di genere. Il secondo è il brano che racconta una storia diversa, in cui FolkRockaBoom diventa uno slogan, un grido. Il terzo è il significato vero cioè l’esplosione del genere folk rock nel mondo negli anni ’60 con Dylan, i The Byrds e molti altri.
Nel video di FolkRockaBoom seppellite Elvis, quasi un’immagine simbolica. Di chi è stata l’idea?
L’idea è venuta a Sterven [Sterven Jonger, regista del video], non c’è alcun riferimento simbolico, ovviamente, non c’è la presunzione di seppellire un personaggio come Elvis.
Il video l’abbiamo girato a Palermo, a Poggioreale, nelle zone delle montagne di Capogallo. Ambientazioni desertiche, luoghi dove non c’è più niente, l’idea era di scegliere delle belle inquadrature e dei bei paesaggi. Abbiamo deciso di girarlo a Palermo perché volevamo dare alla nostra città un ruolo in questo album, oltre a quello embrionale che sempre ha.
Deserti, paesaggi western e America, la Sicilia è un nuovo West?
In realtà il disco racconta principalmente della nostra vita, di quello che facciamo, non solo della ricerca dell’America, del West e degli spaghetti western.
In Mediterraneo dite: «Questo non è l’oceano, questo è il Mar Mediterraneo».
Sì, perché la Sicilia è la nostra terra nel bene e nel male e quando c’è una guerra è la nostra guerra, quella che viviamo tutti, quella nostra del mediterraneo. È lo spostare l’occhio, il punto di vista, portare il fuoco su di noi per raccontare una storia nostrana.
Voi siete lontani dalla vostra terra, non vivete più a Palermo. Nei vostri pezzi si sente un po’ di Saudade.
Sì, i nostri pezzi ne sono pieni ma non solo di quello ma anche di viaggi, nostalgia, Dio, speranza.
Vivere fuggendo parla di scelte: «Poi, ho incontrato tutte le persone della mia vita in pizzeria. Scoprire ancora di odiarli. Falsi sorrisi che hanno messo su famiglia». Ma ha anche atmosfere surreali come «Ho una ragazza dentro il frigo, io la amo senza scongelarla».
È un po’ la canzone delle catastrofi ma anche una canzone tenera e delicata, una canzone in cui succede tutto. Dentro ci sono uragani, catastrofi, ragazze dentro il frigo, i tuoi peggiori nemici che ritrovi in giro. La canzone si pone una domanda, si chiede chi sta sbagliando, qual è il punto di vista giusto. Siamo noi fuori dalla retta via e stiamo sbagliando tutto o viceversa?
Qual è la risposta?
La canzone si chiude con un delay in cui la domanda viene ripetuta e gira all’infinito.
In Io mi do c’è un «no» liberatorio che si ripete per tutta la canzone. Che cosa ha dentro questo “no”?
Questa è una presa di posizione rispetto alla domanda di Vivere fuggendo: «Chi sta sbagliando cosa». In questo caso siamo certi di essere quelli che si stanno mettendo in gioco con le proprie forze e le proprie risorse contro chi invece comodamente seduto su una poltrona ha tutto a portata di mano e non fa altro che sbagliare e fare male. È una canzone abbastanza arrabbiata.
I Peggiori dice: «Così è l’amore, io ti seguo fuori tempo, non rimetto mai niente a posto». Una canzone che parla di un amore folle e vorace, che ti divora.
Sì, questa è la visione dell’amore che abbiamo, racconta un po’ il rincorrersi, citando Rino Gaetano: «e i minuti rincorrersi senza convivenza», questo inseguirsi può essere killer. Il protagonista della canzone viene ucciso da questo.
Nessuna certezza è l’inno dei disillusi, di chi non crede più a nulla, il credo di un protagonista solitario.
Sì, è sicuramente un personaggio molto solitario e Nessuna Certezza è la canzone dei disillusi ma anche dell’avventura. A noi piacciono moltissimo i romanzi di Stevenson o comunque un certo tipo di romanzi d’avventura in cui i protagonisti sono sempre solitari. Storie in cui sono gli unici rimasti eppure riescono nel loro campo a spuntarla. Il nostro campo è quello della musica e la certezza che cerchiamo, come dice il testo di questo pezzo, la cerchiamo nelle canzoni e da nessun altra parte.
Parliamo di sound, rispetto all’album precedente, Piombo, polvere e carbone, avete abbandonato le atmosfere punk per spostarvi più verso suoni folk e rock.
Il folk è il nostro genere, è veramente nel nostro sangue da sempre anche se la musica leggera italiana che abbiamo ascoltato da piccoli è entrata dentro di noi. Abbiamo quindi una radice folk-italiana, non l’abbiamo mai abbandonata. È vero che nell’altro disco era meno presente ma nel cammino che stiamo facendo per la ricerca del sound succede che le curve cambino e che un disco venga più rock, uno più folk, l’altro blues.
Mi parlate delle collaborazione che sono finite in questo disco, in particolare del pezzo Aradia in cui ha suonato la chitarra Andrew Douglas Rothbard.
Le collaborazioni di questo disco sono con I Sacri Cuori e come hai detto tu con Andrew Douglas Rothbard. Abbiamo deciso di collaborare con lui perché abbiamo ascoltato i suoi dischi dove abbiamo trovato una psichedelia che non è definibile con un genere preciso. Un ottimo uso delle chitarre distorte che a noi è piaciuto moltissimo. Gli abbiamo scritto, a lui è piaciuto il pezzo e ci ha detto che era felice di collaborare. Con i Sacri Cuori è stato il proseguimento naturale di una lavoro iniziato con il tour precedente, abbiamo scelto Il Domani perché un pezzo cantautoriale italiano con un sound americano.
Avete fatto una data zero ma la prima vera data è questa sera al Miami. Cos’ è il Miami per voi e cosa significa iniziare il vostro tour qui?
Il Miami è un grosso festival di musica italiana e abbiamo un rapporto affettivo con questo evento, inoltre è un ottima occasione per presentare il disco. Siamo uno degli ultimi gruppi a suonare quindi direi che va bene.