Brembate di Sopra, provincia di Bergamo, venerdì 26 Novembre 2010, circa le cinque di pomeriggio. Yara Gambirasio, tredicenne, giovane promessa della ginnastica ritmica lombarda, esce di casa per recarsi in palestra, a settecento metri di distanza. Non ha in programma alcun allenamento: tre giorni dopo ci sarebbe stata una gara, lo stereo si era rotto e l’insegnante aveva chiesto a Yara il suo. Si ferma per qualche decina di minuti a guardare le sue compagne allenarsi, scambia quattro chiacchiere e se ne torna verso casa. Non ci arriverà mai. L’ultima traccia che lascia di sé è un sms inviato in risposta a un’amica. Alle 18,47 il suo cellulare viene agganciato alla cella di Mapello, un comune a circa tre chilometri di distanza. Poi più nulla.
«Il movente sessuale sembra per ora prevalente», afferma il pm Letizia Ruggeri il 1° Dicembre del 2010. Il profilo psicologico è quello di un uomo ossessionato dalla ragazza, dalla sua purezza, desideroso in qualche modo di sporcare quella perfezione. Scrive l’inviato di Repubblica: « A Pesaro, nella manifestazione “Ginnastica in festa”, o a Desio, in Brianza, dove si allena la squadra campione del mondo – giusto per citare alcuni dei luoghi nei quali si era esibita – o semplicemente durante una qualsiasi delle sue prove alla Polisportiva di Brembate, qualcuno, tra gli spettatori, o nella cerchia degli istruttori, tra i genitori che accompagnano le giovani sportive o fra gli avventori occasionali, può esserne rimasto colpito fino a risultarne ossessionato. Maturando poi il progetto del sequestro».
Atto secondo: il cantiere e i cani molecolari
La cella telefonica di Mapello è l’unico indizio nelle mani degli inquirenti. Ed è proprio in questo piccolo comune che gli inquirenti uniscono i primi due pezzi del puzzle. Protagonisti tre bloodhound, cani addestrati a fiutare l’odore e le tracce ematiche delle persone scomparse, anche da giorni, ricostruendone il percorso molecolare. Ognuno dei tre cani punta deciso verso un cantiere edile di Mapello, in cui si sta costruendo il nuovo centro commerciale del paese. In particolare puntano uno stanzino interrato che serve allo smistamento dei cavi elettrici. L’8 gennaio i cronisti dell’Eco di Bergamo, il giornale locale, ricevono la più classica delle lettere anonime, lettere ritagliate incluse: «Yara è nel cantiere, ho paura», recita la missiva. I georadar – strumenti che permettono di rintracciare attraverso un sistema di onde che rimbalzano un oggetto seppellito sotto il cemento fino a 12 metri di profondità – la smentiscono. Forse qualcosa quel cantiere c’entra, ma la ragazza non è sepolta lì.
Atto terzo: il sospettato perfetto è innocente
Mohamed Fikri, ventiduenne marocchino, viene fermato il 5 dicembre 2010 su una nave diretta a Tangeri. Gli indizi sembrano inchiodarlo: ha lavorato nel cantiere di Mapello fino al 26 novembre 2010 per una ditta di subappaltatori padovani sino al giorno della scomparsa di Yara e il giorno dopo si è trasferito a Montebelluna, in provincia di Treviso. Quando al cantiere arrivano i cani molecolari lui non c’è e per questo gli inquirenti mettono il suo telefono sotto controllo. Investigatori in borghese arrivano a Montebelluna, intanto, e scoprono che Fikri sta per lasciare l’Italia. Una telefonata dal porto di Genova – o meglio, quel che Mohamed dice (o meglio: quel che credono abbia detto) prima che il suo interlocutore risponda – fa scattare il blitz: «Perdonami Allah, non l’ho uccisa io». Lo arrestano al largo di Sanremo, mentre la nave già è alla volta di Tangeri. Il ragazzo marocchino nega tutto e, pur essendo i sospetti e le coincidenze numerose, pare non avere il torto dalla sua: il trasferimento a Montebelluna era programmato da tempo, quella in Marocco era effettivamente una vacanza, organizzata insieme al cugino con il biglietto di ritorno prenotato per febbraio. E la frase incriminata sarebbe in realtà il verso di una preghiera. Ci mettono circa due anni, gli inquirenti, ma alla fine hanno l’intelligenza di stralciare la posizione del presunto colpevole.
Il corpo di Yara Gambirasio viene ritrovato il 26 febbraio 2011, a tre mesi esatti dalla scomparsa della ragazza. Ironia della sorte, dopo tre mesi di perlustrazioni tra boschi, montagne, corsi d’acqua, il cadavere è a trecento metri dal quartier generale del centro ricerche. Per la precisione, nascosto nell’erba alta in un grande campo a località Bedeschi, comune di Chignolo d’Isola, 10 km circa di distanza da Brembate di Sopra. È una zona industriale, pure quella piena di cantieri ed edifici in costruzione. A trovarla, un ragazzo che stava provando il suo aeromodello telecomandato. Il corpo è in stato di avanzata decomposizione: supino, con gambe e braccia leggermente allargate. Sul corpo, stando ai primi esami, sarebbero state trovate ferite compatibili con un’arma da taglio al collo e alla schiena. Nei polmoni della ragazza vengono trovate tracce di calce e polvere da cantiere.
Atto quinto: una goccia di sangue
Altri e ben più importanti, tuttavia, sono i particolari che emergono dall’autopsia. In particolare vengono isolati quattro gruppi biologici, tre dei quali scartati quasi subito (due sono probabilmente contaminazioni degli investigatori, immediatamente successivi alla scoperta del corpo e uno è appartenente a una donna che frequenta la palestra di Yara). Il quarto no: pur in assenza di tracce evidenti di violenza sessuale, è una piccola macchia di sangue trovata sugli slip della tredicenne, che probabilmente l’assasino ha perso tagliandosi con un coltellino, nel tentativo di strapparle gli slip: «Dovessimo trovarlo, sarebbe molto difficile per lui spiegare che ci faceva quella traccia lì», afferma un investigatore. È una traccia minuta, insufficiente per ricostruire i tratti somatici del killer, come il colore dei capelli o degli occhi, ma è comunque qualcosa.
Atto sesto: la scelta del test di massa
Gli investigatori si erano portati avanti: nei tre mesi d’indagini precedenti al ritrovamento, avevano isolato almeno 2.500 profili genetici. Purtroppo, nessuno tra quelli si rivela compatibile con quello ritrovato sugli slip della ragazza. Gli inquirenti decidono di seguire la strada – controversa, va detto – del test del dna di massa. Un precedente incoraggia tale decisione: nel 2002 questa procedura permise di risolvere un omicidio a Dobbiaco, in Alto Adige. Inizia la caccia, cui la cittadinanza si sottopone senza ritrosie, desiderosa di incastrare l’assassino: campioni di dna vengono prelevati ai vicini di casa di Yara, ai frequentatori della palestra da cui è sparita quella sera, agli intestatari dei cellulari che hanno agganciato le celle telefoniche di Brembate Sopra e Chignolo d’Isola. L’indagine si spinge fino ai confini con la provincia di Brescia e alla fine saranno oltre 18mila i profili genetici in mano alla procura. Come trovare un ago nel pagliaio, dice qualcuno. Vero: ma qualcosa, alla fine, salta fuori.
Atto settimo: la pista di Gorno
Vicino al campo in cui è stata trovata Yara c’è una discoteca che si chiama Sabbie Mobil. In virtù di quella vicinanza anche ai suoi frequentatori, una sera, viene prelevato un campione di Dna. Tra loro c’è un giovane il cui profilo genetico somiglia a quello del presunto assassino di Yara. Anche i suoi famigliari vengono sottoposti al test e la somiglianza cresce e gli inquirenti decidono di seguire la pista, convinti sia la strada maestra. Si arriva a uno zio del ragazzo, che si è trasferito da anni a Frosinone. Anche lui non c’entra nulla, così come uno dei suoi due fratelli. L’altro, Giuseppe Guerinoni, era un autista d’autobus, è morto nel 1999 a sessantun’anni ed è sepolto nel cimitero di Gorno. Di Guerinoni gli inquirenti recuperano la patente di guida e una cartolina postale, ognuna delle quali affrancate. Sul bollo, presumono gli inquirenti, potrebbero esserci tracce del Dna ancora più somiglianti a quelle dell’assassino (che per forza di cose non può essere Guerinoni). Così è. Viene disposta l’esumazione del corpo dell’autista e ulteriori test confermano le speranze degli inquirenti. Come afferma Giuseppe Novelli, direttore del dipartimento di medicina genetica di Tor Vergata a Roma, che ha condotto le analisi biostatiche sul dna di Guerinoni e non ha alcun dubbio: «Il Dna dell’assassino appartiene con una probabilità di oltre il 99 per cento a una persona imparentata in primo grado con Guerinoni».
La strada maestra sembra tuttavia condurre a un vicolo cieco: Guerinoni ha due figli e il loro Dna risulta incompatibile con quello dell’assassino. Ignoto 1: così viene ribattezzato dagli investigatori, sempre più disorientati. A raccontarne l’intuizione geniale e, a questo punto, probabilmente risolutiva, è ancora il professor Novelli: «Quando si è visto che il Dna dei due figli maschi di Guerinoni non era compatibile, ci si è posti la domanda: di chi è? In teoria si sarebbe potuto pensare a un fratello, ma gli inquirenti lo hanno escluso. L’ipotesi più probabile, scaturita dal calcolo, ha suggerito l’ipotesi di un possibile figlio illegittimo. Quello dell’illegittimità è un fenomeno presente in tutto il mondo. Le statistiche dicono che negli Stati Uniti la percentuale varia fra il 3 e il 5 per cento. Uno studio recente parla per la Svizzera di una percentuale del 10 per cento». Gli inquirenti cominciano così a scavare nella vita di Giuseppe Guerinoni, all’apparenza un tizio tranquillo, senza grilli per la testa. Nessuno è privo di scheletri nell’armadio, tuttavia, e quello dell’autista di Gorno lo confessa un suo ex collega: «Guerinoni mi confidò di aver avuto un figlio fuori dal matrimonio, da una donna della Valle con cui aveva avuto una relazione». La valle è la Val Seriana. L’anno del presunto fattaccio il 1962, o il ’63. La ragazza, la madre di “Ignoto 1”, l’unica persona che sa chi, di qualche anno più giovane di lui.
Ricominciano le danze: gli inquirenti raccolgono il Dna di tutte le donne che potrebbero avere un’età che giustificherebbe una relazione passata con Guerinoni e figli tra i quaranta e i cinquant’anni. Arrivano persino a setacciare l’elenco delle donne bergamasche che hanno frequentato le terme di Salice, in provincia di Pavia, in cui l’autista soleva trascorrere un paio di settimane all’anno, ogni anno. In mezzo a tutti questi test, c’è spazio anche per qualche falsa speranza: ad esempio, quando nell’aprile dello scorso anno viene analizzato il Dna di una donna sulla settantina, madre di un uomo di circa cinquant’anni, che faceva il muratore. Speranza vana, ok: ma in quell’identikit familiare-professionale c’è quella che poi si rivelerà essere, dopo la svolta del 16 giugno 2014, la probabile pista giusta. Le voci di paese portano infatti a una donna il cui Dna risulta compatibile per ben due volte con quello di Ignoto 1. Ha ottant’anni ed è residente a Clusone. I suoi figli, due gemelli, si chiamano Massimo Giuseppe e Laura Letizia Bossetti. Giuseppe come Guerinoni, Laura come sua moglie, la sua rivale in amore.
Atto decimo: avevano ragione i cani?
Quello di Massimo Giuseppe Bossetto, arrestato ieri mattina con l’accusa di omicidio, non è un nome del tutto nuovo, per gli inquirenti. Il suo telefono è uno di quelli che avevano agganciato la cella di Brembate di Sopra la sera in cui Yara è scomparsa. Il fatto che sia muratore, peraltro, lo mette ulteriormente nei guai, per via delle polveri di calce trovate nelle vie respiratorie della ragazza. Con la scusa di un posto di blocco, gli inquirenti riescono a prelevargli un campione di Dna e lo analizzano. Il risultato? Compatibile al 99,99999987% di quel profilo genetico con una macchia di sangue trovata sul corpo della vittima. Massimo Giuseppe ha quarantaquattro anni, tre figli, fa il muratore ed è incensurato. Da anni non vive più a Clusone, bensì a Mapello. Ricordate? Il paese nel cui cantiere i cani molecolari portarono gli inquirenti quando ancora il corpo non era stato trovato. La pista del cantiere di Mapello, dopo il proscioglimento di Fakri, era stata abbandonata. Se Bossetto fosse veramente Ignoto 1, e se questa fosse stata davvero l’indagine perfetta, qualche merito andrebbe riconosciuto anche a quei tre segugi.