La prima volta che ho osservato la città dall’alto era sul tetto della Darat al Funun, la Casa delle arti. Una galleria di arte contemporanea costruita su uno dei sette colli di Amman, Giordania. Mohammed, il responsabile dell’organizzazione, mi aveva spiegato da lì come funzionava la città. “È facile: Est e Ovest. Poveri e ricchi”. Nella parte alta della città, sui colli occidentali – da Jebel al-Qala’a, a Jebel Weibdeh fino al ricco quartiere Shmeisani dove tira il vento e gli alberi dei giardini privati portano il fresco nelle ore calde della giornata, abitano i giordani. Giù in mezzo, invece, nella parte più bassa su cui si affacciano tutti i colli, tra polvere e caos, clacson di macchine, fumo nero degli autobus, ci sono per lo più i profughi palestinesi. Gli ultimi arrivati tra quelli che dal 1948, l’anno di nascita di Israele, non hanno mai smesso di entrare nel Paese di re Abd Allah II e che oggi sono il 40% di una popolazione che conta otto milioni di abitanti circa.
Accadeva quattro estati fa. Se tornassi ad Amman oggi, nella caotica Amman “definibile” solo dall’alto dei colli, un posto andrebbe trovato ai “nuovi” arrivati. I profughi siriani, giunti a fiotti nel regno Hashemita con lo scoppio della guerra civile siriana. Quanti sono? L’Unhcr ne conta nell’intero Paese 600 mila circa, 161 mila solo nel governatorato di Amman.
I siriani stanno prendendo il posto dei palestinesi agli ultimi posti della società giordana. C’è un dato su tutti che lo fa capire. «Il 70% del lavoro minorile in Giordania coinvolge bambini siriani», ha affermato il primo ministro giordano, Abdullah Nsur, durante la conferenza dell’Organizzazione internazionale per il lavoro del 10 giugno a Ginevra. Il Regno Hashemita, ha detto, «attribuisce grande importanza a questo problema umanitario, che rappresenta un attacco ai più elementari diritti dell’uomo e alla dignità dei bambini», ha detto Nsur.
«I rifugiati accettano qualunque paga pur di lavorare»
Ma il ministro ha sottolineato anche il forte impatto sul mercato del lavoro locale dell’ingresso di centinaia di migliaia di profughi siriani in Giordania. La prima conseguenza, ha spiegato il premier, è «l’abbassamento dei salari», poiché i rifugiati «accettano qualunque paga pur di lavorare» e questo ha generato delle «crisi sociali, soprattutto nelle aree in cui la concentrazione di profughi è più alta.
«Il lavoro minorile ha davvero un effetto economico postivo per le famiglie dei bambini e la loro qualità della vita», spiega l’ultimo rapporto dell’International labour organisation (Ilo) dedicato ai governatorati di Amman, Mafraq e Irbid. «Per i siriani che abitano in Giordania lo sviluppo del lavoro minorile è un meccanismo di resistenza di famiglie che non hanno altri mezzi di sostentamento e che hanno finito i risparmi».
Dove sono i rifugiati siriani: la mappa dell’Unhcr aggiornata in tempo reale
La percentuale portata dal Ministro giordano a Ginevra, si riflette nei numeri raccolti dall’Ilo. Nel campione di bambini scelti ad Amman, quattro erano giordani, dieci siriani, e uno palestinese, di Gaza. Dieci siriani su quindici, il 66,6 per cento.
I lavori più duri toccano ai bambini siriani, gli ultimi arrivati
Lavorano negli stand per strada, vendendo cibo e bevande. Altri entrano nei negozi di the, caffe, alimentari per servire i clienti, ordinare la merce o per pulirli. Quando trovano impiego nei ristoranti, servono ai tavoli, puliscono, gestiscono i clienti. I bambini lavoratori trovano impiego nella «informal economy», quella che l’Icls (International conference of labour statisticians) definisce come privata, volta alla vendita o al baratto di prodotti, fatta di attività non agricole e fuori da ogni sistema nazionale di controllo. La «informal economy» cresce in Giordania più di quella «formale». L’80% dei bambini lavoratori ha un impegno a tempo pieno, il 66% di loro ha tra i 16 e 17 anni. Ma c’è anche un 30% tra i 12 e i 15, e un 4% nel gruppo dei 5-11 anni.
Alla domanda: «Che tipo di lavoro fai?» fatta dai ricercatori dell’Ilo, queste sono state le risposte degli intervistati:
I lavori più duri toccano ai siriani, gli ultimi arrivati. Sono loro che lavorano sollevando cose, riparano scarpe, fanno gli idraulici, raccolgono rifiuti riciclabili, come racconta questo grafico:
E sono anche quelli che subiscono più maltrattamenti:
Il 64% di loro lavora tra le quattro e le otto ore al giorno in posti di lavoro non sempre sicuri e igienici, e guadagna tra i 3 e i 5 dinari giordani (4-7 dollari, circa).
Vai a scuola? Chiedono infine i ricercatori ai bambini intervistati. Non sorprende che la maggior parte dei “disertori” sia proprio siriana. Gli stessi che dichiarano di non andare a scuola non perché non siano interessati (come dicono invece molti dei giordani), ma per ragioni finanziarie.
Se tornassi ad Amman oggi dal tetto della Darat al Funun chiedere a Mohammed di indicarmi il posto dei bambini siriani. Lo troverei, ne son certa, nella più polverosa delle strade della città vecchia, giù, a valle dei colli ventilati.