WASHINGTON – Nell’America di oggi si sta materializzando uno spettro imprevisto che fa più paura persino del fantasma di Bin Laden tra le rovine dell’Iraq: potremmo chiamarlo europeizzazione, cioè il pericolo di diventare anziani, anchilosati, conservatori come i lontani parenti del Vecchio Continente. È questa l’impressione che ho ricavato da una puntata negli States cominciata con la convinzione di trovare quel che inseguiamo invano in Europa e finita con una sostanziale delusione. Certo, l’aria resta sempre più vivace, ma tutti gli interlocutori di qualsiasi scuola di pensiero o parte politica non parlano altro che di “fatigue”, spossatezza psichica più che fisica, mancanza di entusiasmo.
«Siamo onesti, rimaniamo ancora bloccati nel bel mezzo della Grande Recessione. L’economia è debole e vulnerabile, lo dimostrano i dati sulla domanda aggregata», spiega Steve Hanke, docente alla Johns Hopkins di Baltimora. Dal 1987 la domanda aggregata (consumi più investimenti) si è mossa al ritmo del 4,95% l’anno. Nel punto più basso della crisi ha perso 4 punti, poi è rimbalzata raggiungendo di nuovo il trend storico nel 2011, ma da allora è scesa a un fiacco 2,8 per cento l’anno. Ecco perché, prevede Hanke, la Fed manterrà i tassi a zero fino al 2016.
Prudente e poco loquace, Janet Yellen cammina in punta di piedi su una lastra di ghiaccio. Le borse hanno salutato con un sospiro di sollievo l’annuncio che il tapering, cioè la progressiva riduzione degli acquisti diretti di titoli, andrà avanti piano (con giudizio avrebbe detto don Ferrante). Wall Street ha battuto già tutti i record e gli analisti puntano su un suo progressivo sgonfiamento, però finché i tassi reali restano incollati a zero e i dollari continuano a zampillare copiosi non c’è motivo per attendersi un crollo. Tuttavia, al contrario di quel che accadeva in altri periodi di boom (soprattutto negli anni ’80 e nella seconda metà degli anni ’90) i guadagni realizzati in Borsa non si trasformano in domanda. L’economia americana, così, oggi non corre, piuttosto rincorre. Anche per questo la presidente della Federal Reserve è stata tanto cauta sulle prospettive future. La banca centrale ha sbagliato le previsioni per il primo trimestre (davvero solo colpa del maltempo?) e adesso prevede una crescita più robusta, attorno al 3% di qui a fine anno, ma non si sbilancia. L’inflazione non è un problema e ciò spinge a mantenere i tassi ancora vicini al pavimento nella speranza di dare altra acqua al cavallo che non sembra voler bere.
La teoria (e la pratica del sistema americano) dice che un basso costo del denaro spinge ad accendere mutui per la casa. E i primi ad avvantaggiarsene sono quasi sempre i giovani. Questa volta no. Il mercato immobiliare è anemico e i giovani restano senza tetto. Come mai? «Bella domanda. E la risposta è: non lo sappiamo – ammette candidamente Mark Calabria, economista del Cato Institute -. Ovvero ci sono tante risposte parziali, ma non una spiegazione davvero valida». Uno dei problemi è che gli studenti sono oberati dall’alto costo degli interessi suoi prestiti che le banche concedono, problema diventato politico tanto da richiedere un intervento della Casa Bianca. Gli altri temono per il loro futuro. Perché anche negli Stati Uniti si sta manifestando l’incubo della disoccupazione giovanile. È lontana ancora dai livelli dell’Europa, soprattutto quella meridionale, tuttavia quel che colpisce in modo negativo è il trend. Ci vuole sempre più tempo per trovare un lavoro e si resta disoccupati sempre più a lungo.
Gli anni medi di impiego con un datore di lavoro
Dunque, anche se dopo quasi sette anni di vacche magre la disoccupazione è tornata ai livelli pre crisi e sono stati recuperati 8,7 milioni di posti di lavoro rispetto al 2007, la jobless recovery è in cima alle preoccupazioni della gente e della politica economica, sia fiscale sia monetaria.
Il distacco tra l’aumento della produttività e l’aumento dei salari dei lavoratori
L’economista Mark Calabria: «Nessuno ha una ricetta valida, né i democratici né i repubblicani»
«Nessuno ha una ricetta valida, né i democratici né i repubblicani», sottolinea Calabria. Paul Krugman sostiene che il governo non spende abbastanza e in parte, in piccola parte secondo i liberisti e libertari del Cato, ha ragione. «Ma in realtà non c’è molto che la politica possa fare». E ciò vale anche per la banca centrale la quale, senza dubbio, ha dato un contributo decisivo al salvataggio del sistema dopo il collasso del 2008, ma non è in grado di far ripartire in modo consistente la crescita.
Come mai? Bisogna guardare ai mutamenti strutturali indotti dalla crisi e a una trasformazione psicologica di fondo, perché l’economia è la conseguenza dei comportamenti di una moltitudine di individui. Le masse spesso seguono l’effetto mandria e finiscono nel baratro, o si fanno catturare dallo spirito del tempo, apparentate dagli errori del passato e dalle nebbie del futuro, tuttavia la spiegazione va cercata proprio qui, dentro i giochi dello scambio di esperienze, stati d’animo e pensieri che precedono la compravendita delle merci e il linguaggio dei numeri.
Lo spauracchio dell’immigrazione
Prendiamo l’immigrazione. Al confine tra il Texas e il Messico, s’affollano i disperati che provengono dal Centro America. Ben 33mila minorenni hanno attraversato il Rio Bravo e suona l’allarme. Sulle spiagge della sola Italia meridionale ne sono arrivati 60mila dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Il problema è enorme ovunque, anche nella Nuova Gerusalemme come la chiamavano i quaccheri e i puritani tre secoli fa. Ma adesso sta assumendo gli stessi toni isterici dell’Europa.
Contadini messicani nelle coltivazioni biologiche Grant Family Farms di Wellington, Colorado (John Moore/Getty Images)
Non solo. Gli americani non si muovono come prima. La crisi non ha mostrato più la tradizionale tendenza a spostarsi dalle aree in declino verso quelle in espansione, vere e proprie migrazioni di massa che si sono verificate ad ogni mutamento del ciclo economico. La mobilità geografica del mercato del lavoro è l’emblema della capacità di adattamento del modello americano, citata come esempio in Europa da chi vuole un vero mercato unico per il lavoro come per il capitale. Ebbene, le cose stanno cambiando. La gente tende a reagire chiudendosi a riccio, difendendo quel che ha, magari solo il sussidio di disoccupazione o il misero alloggio nelle periferie delle aree industriali in disfacimento. Non perché siano scomparse le aree di espansione. Anzi.
Servizi vivaci, industria ancora indietro
Washington, la capitale, è una città vibrante. Per le strade si vedono le Smart di Car2Go, le Fiat 500 e le biciclette in affitto, vera novità segno di europeizzazione positiva. La politica tira, nonostante le continue lamentele, ma non solo. L’analisi dei posti di lavoro creati e di quelli distrutti mostra che nella manifattura c’è un deficit ancora di un milione e mezzo rispetto al periodo pre crisi, ma i servizi tirano alla grande a cominciare da quelli alla persona e dalla sanità. La riforma Obama, nel bene e nel male, ha fatto da calamita. Detroit, invece, continua a scivolare in basso (nonostante Sergio Marchionne abbia potenziato la Chrysler puntando ancora sul Michigan) perché il nuovo boom dell’auto favorisce soprattutto gli impianti del sud poco sindacalizzati, dove il costo orario è più basso e soprattutto l’impiego della manodopera più flessibile.
Quanto a Chicago, è sull’orlo del collasso finanziario e questa volta nemmeno Emmanuel Rahm detto Rahmbo, l’ex braccio destro di Barack Obama diventato sindaco, potrà salvarla dai debiti (la bomba a orologeria è nascosta nelle pensioni dei dipendenti pubblici) e dalla scalata dei costi nei sevizi pubblici, perché la popolazione lavorativa si è ridotta, ma non le spese, dunque ci sono meno risorse a disposizione per rispondere a bisogni sempre crescenti. Insomma, anche qui, lo spettro della europeizzazione.
Catena di montaggio dell’auto ibrida Chevrolet Volt (General Motors) ad Hamtramck, Detroit (Bill Pugliano/Getty Images)
Neppure la rivoluzione dello shale gas sembra avere dato una spinta decisiva alla crescita
Neppure la rivoluzione dello shale gas sembra avere dato una spinta decisiva alla crescita. Naturalmente, i costi dell’energia si sono ridotti e l’industria manifatturiera è diventata più competitiva. Ma la forza espansiva di questa grande innovazione è frenata dalle reazioni negative, ecologiche e ideologiche. La California guida la pattuglia di stati che rifiutano il fracking, così si sta creando una mappa a macchie di leopardo, con il Midwest fortemente avvantaggiato (compensando in parte la crisi della manifattura) mentre altre aree non hanno nessun beneficio diretto. Gli ambientalisti di ogni ordine e grado sono una lobby molto forte.
Obama ha cercato di attrarli anche in vista delle elezioni di mid-term con norme più stringenti per la riduzione dell’anidride carbonica; ciò potrebbe sviluppare le fonti rinnovabili, mentre il complesso petrolifero-industriale è sul piede di guerra. Ma l’effetto immediato è congelare tutto in un estenuante conflitto di interessi e di idee. Anche qui, prende corpo lo spettro europeo che incombe sulla stessa politica.
Impianto di estrazione di shale gas con la tecnica del fracking a South Montrose, Pennsylvania (Spencer Platt/Getty Images)
Il rischio è un biennio inconcludente con Obama anatra zoppa prima del previsto
I pochi mesi che separano dal volto per rinnovare parzialmente il Congresso sono tempo perduto dal punto di vista delle scelte di governo. Ma il rischio è che aprano la porta a un intero biennio inconcludente con Obama ridotto prima del previsto alla condizione di anatra zoppa. La chiacchiera del giorno è che Obama è cotto e Hillary è lanciatissima (nonostante resti invisa a tre quarti degli elettori), però bisogna attendere altri due anni prima che la Clinton ottenga la nomination dai democratici. Dice un lobbista del Campidoglio che la strada è segnata, i repubblicani sono divisi più che mai, come dimostra la caduta di Eric Cantor, non hanno figure forti, soprattutto non hanno i voti perché chi decide oggi sono gli immigrati, cioè i latinos perché la grande onda viene dalla frontiera sud superaffollata. Due anni però sono lunghi e intanto esplodono crisi improvvise come quella Ucraina o a lungo evocate come la spartizione dell’Ira per linee “settarie”, cioè etnico-religiose. E l’amministrazione non sa che fare.
Dunque l’economia sarà lasciata ancor più nelle mani della banca centrale. La monetizzazione dei debiti privati avvenuta in questi anni, sia chiaro, non è stata senza conseguenze sull’economia reale. Per esempio ha svalutato il dollaro favorendo le esportazioni. Ma la mancanza di un’ancora rende più volatili i capitali e sempre più difficile l’investimento a lungo termine. Secondo il miliardario Steve Forbes, che ha parlato nel seminario organizzato dal Cato Institute il 19 giugno, «la crisi del 2008 non ci sarebbe stata con un vero gol standard». E sono in molti, non solo tra i conservatori, a chiedere una nuova Bretton Woods, cavallo di battaglia di Paul Volcker il capo della Fed che stroncò l’inflazione negli anni ’80 e che Obama ha usato come profeta inascoltato nel 2009. Un salto in avanti, ma forse in questo clima di abulia c’è bisogno di qualche colpo d’ala.