Ieri italiana, oggi cinese, domani chissà. L’epopea della Sergio Tacchini è un libro di storia gonfio di attualità, crisi e rimpianti. L’azienda ambasciatrice del Made in Italy nel tennis (e dello sport) ha vestito i vari Jimmy Connors, John Mc Enroe, Martina Navratilova, Pete Sampras, Martina Hingis, Adriano Panatta, Ayrton Senna, Marc Girardelli, Dino Meneghin, Costantino Rocca. Dopo una gloriosa cavalcata imprenditoriale, con i campioni al servizio del brand e la rivoluzione del multicolor che spodestò il bianco, nel 2007 l’ex tennista passò la mano sotto il peso dei debiti: il magnate Billy Ngok con la sua Hembly International, quotata alla Borsa di Hong Kong, si aggiudicava la T cerchiata per 42 milioni di dollari. Scrivendo un pezzo di storia, visto che quello di Tacchini fu uno dei primi casi di imprenditori cinesi che mettevano le mani su un’azienda italiana. Lo stupore e lo scetticismo per la bandiera di Pechino piantata sul distretto tessile novarese lasciavano il posto agli annunci: ecco la “Sergio Tacchini International”. La nuova proprietà prometteva la rinascita con lo sbarco nel mercato orientale, investimenti e nuova linfa al brand. Negli anni però sono arrivati la riduzione del personale, la contrazione sul mercato, gli inciampi coi testimonial e la chiusura dei negozi monomarca per lasciare il passo a una brand company.
Così torna all’arrembaggio la famiglia Tacchini, papà Sergio e il figlio Alessandro. «Negli ultimi tre anni – dichiarano – abbiamo fatto varie proposte al gruppo, ma senza arrivare ad una conclusione». Ad aprile la formalizzazione dell’offerta con la proposta di affitto di ramo d’azienda funzionale all’acquisto del marchio, a fine maggio la conferenza stampa col sindaco di Novara. «Parliamo di 5 milioni, più un pacchetto di altre risorse che investiremo per il rilancio. Sappiamo che la nostra offerta è migliore rispetto ai contratti in essere con la Wintex. Il marchio è valutato dagli esperti 2,3 milioni di euro». I Tacchini presentano un piano industriale per riportare in auge l’ex gioiello di famiglia: «Oggi il marchio, che generava un fatturato di circa 100 milioni di euro, è quasi sparito dal mercato». A onor di cronaca l’ultimo bilancio pubblicato dalla Sergio Tacchini International è del 2012, in cui si evince una perdita d’esercizio pari a 17 milioni di euro e un patrimonio netto negativo per 5 milioni.
Nelle intenzioni della famiglia Tacchini bisogna riportare il coordinamento della produzione a Novara, dove ebbe inizio l’avventura ST. Il piano prevede trenta nuovi negozi, sponsorizzazioni, rilancio del marchio nel tennis, nello sci e nel tempo libero. Sarebbe la favola bella del tennista che si riappropria del suo nome e dell’azienda, «un’operazione di tipo economico e affettivo». Ma la proprietà cinese dice no. «Il marchio è stato affittato fino al 2017 alla Wintex – spiega il gruppo in una nota – la quale corrisponde regolarmente il canone. Stiamo elaborando un piano di ristrutturazione che ha come finalità il risanamento delle perdite provenienti dai periodi precedenti e il rilancio commerciale del marchio». Arrivederci e grazie? Vale la pena fare un passo indietro.
La Sergio Tacchini International, titolare del marchio, è in liquidazione. Naviga tra concordati, creditori in attesa e lavoratori in esubero. La proprietà ha affittato il brand e i contratti di licenza alla Wintex Italia, secondo alcuni emanazione dello stesso gruppo orientale, che ha spostato sede e show-room Tacchini a Milano assorbendo una decina di dipendenti del “vecchio” gruppo. «Il canone di affitto annuale – spiegano dalle retrovie dell’azienda – è pari a un ventitreesimo di quello che i contratti di licenza garantiscono in termini di royalties minime, dunque un vero affare». Linkiesta ha potuto visionare il contratto appurando che il canone di affitto ammonta a 150.000 euro annui, soldi pagati per avere in mano la parte tuttora redditizia dell’azienda. La Tacchini a trazione cinese è infatti una brand company, gestisce le licenze affidate a vari soggetti nel mondo. Prosciugato l’apparato produttivo e distributivo, progressivamente sono stati chiusi tutti i negozi monomarca. «È stato fatto uno spezzatino di tutto – racconta un delegato sindacale – se prima usavamo le licenze per profumi e occhiali, oggi la Tacchini ha trasformato in licenze anche il core business dell’azienda, cioè l’abbigliamento».
Nella nuova sede di via Savona a Milano c’è anche l’ufficio di Cristina Clerici, direttrice della comunicazione di Sergio Tacchini. «Il brand non è scomparso, anzi stiamo facendo grandi passi» dichiara a Linkiesta. «Lavoriamo coi licenziatari in tutto il mondo e stiamo operando affinché il marchio non scompaia, ma perché si espanda. La nostra non è una fase di transizione, abbiamo una strategia precisa di promozione e sviluppo». A Milano i dipendenti sono una decina. Gli altri restano in cassa integrazione o sono finiti in mobilità soprattutto nel novarese, dove la storia di Tacchini ha avuto inizio prima con la sede di Caltignaga e poi con lo stabilimento di Bellinzago. Qui fino a qualche anno fa c’era il quartier generale del brand in cui si costruiva il mondo Tacchini: collezioni, marketing, amministrazione e una parte della produzione (già delocalizzata dall’ex tennista).
Ai tempi d’oro la sede ospitava 260 lavoratori su quattro piani, oggi a Bellinzago restano una decina di addetti che si alternano alla parte amministrativa nel solo piano terra. Una trentina è in cassa integrazione, che scadrà ad ottobre «dopodiché saremo tutti in mezzo a una strada», mentre circa sessanta dipendenti Tacchini dei negozi monomarca sono in mobilità. D’altronde tutti gli shop e gli outlet della griffe hanno abbassato le saracinesche, l’ultimo nel 2013. E ricollocarsi è dura in tempo di crisi: «In due anni ce l’hanno fatta una decina di noi». La conta dei lavoratori ST è un pallottoliere in costante alleggerimento: dai 175 dipendenti di inizio 2011 alle 97 unità di fine 2013, mentre al termine del 2014 saranno una manciata.
Una pubblicità di Sergio Tacchini del 2011
Tra ipotesi di concordato e sogni di rilancio, gli ultimi mesi hanno assunto la forma di un limbo per i lavoratori che, in assenza di risposte, provano con picchetti e mobilitazioni. «Veniva prorogata la cassa integrazione con aiuti striminziti per coloro che perderanno il lavoro mentre fior di quattrini vengono spesi per consulenti che aiuteranno l’azienda a cambiare ogni volta le carte in tavola». Poca chiarezza, nessuna faccia da guardare. Maria Luisa Mauceri è la responsabile provinciale della Uil comparto tessile: «Siamo in attesa – racconta a Linkiesta – l’azienda ci ha detto più volte che ci avrebbe fatto sapere un piano industriale di rilancio o ristrutturazione, ma ogni volta hanno cambiato versione e noi ci sentiamo presi in giro». La proprietà cinese «non l’abbiamo mai vista». Si sono presentati consulenti e liquidatori ma mai Billy Ngok nè la signora Janny Tang, già vicepresidente del cda, direttrice generale e figura chiave di ST.
Nel corso della gestione cinese si sono succeduti diversi manager nella veste di amministratori e direttori, alcuni durati solo pochi giorni, finchè la signora Tang non ha preso in mano la situazione. Ma gli affari non sono mai decollati. Al 30 giugno 2012 i ricavi da vendite, royalties e altro ammontavano a 31 milioni di euro, mentre i costi della produzione segnavano 41 milioni. Nella relazione sulla gestione della società del 2012 si evince una riduzione dei ricavi delle vendite pari a 7 milioni di euro rispetto all’anno precedente attribuibile anche «alle difficoltà finanziarie riscontrate dalla Società in sede di approvvigionamento, con conseguenti ritardi e mancate consegne». Così sono in molti ad avere nostalgia dell’ex tennista riscopertosi imprenditore. Lo stesso che nel 1960 batteva Nicola Pietrangeli conquistando il titolo italiano e che pochi decenni dopo gareggiava con Nike e Adidas sul terreno di contratti milionari. Un esempio? I quasi sei miliardi di lire annui corrisposti dalla casa di Bellinzago all’allora numero uno del tennis Martina Hingis.
Sembrano lontani i tempi d’oro quando dagli stabilimenti del novarese si vendevano annualmente un milione e 800mila capi griffati Tacchini. Polo, tute, pantaloncini, scarpe. Il Made in Italy in grado di combattere i colossi americani. Dal 1966 l’azienda emblema del tennis conobbe decenni di cavalcate e ambizioni, anche al di sopra delle proprie possibilità. Quattrocento dipendenti in Europa, fatturati da trecento miliardi di lire, duecento monomarca nel mondo tra franchising e negozi di proprietà, sponsorizzazioni dallo sci alla vela, dalla Formula 1 al golf fino a vestire la nazionale italiana alle Olimpiadi di Atlanta e Montreal. Il dna era il tennis, sul quale ST ha dettato legge a colpi di collezioni e testimonial. Intorno all’azienda orbitavano alcuni tra gli addetti ai lavori più stimati nel circuito: da Edoardo Artaldi, ieri manager a Bellinzago e oggi agente di Novak Djokovic, a Gianni Clerici, amico personale di Sergio Tacchini a cui suggerì la sponsorizzazione di Pete Sampras.
La Sergio Tacchini giunse a un passo dalla quotazione in Borsa, lo spettro del fallimento, arrivato nel 2007, sembrava impensabile
A un passo dalla quotazione in Borsa, Tacchini pensò pure di rilevare la catena di negozi sportivi Giacomelli. Fioccavano laute offerte dalle multinazionali per comprare l’azienda novarese, tutte rispedite al mittente. Sembrava impensabile lo spettro del fallimento, arrivato nel 2007 con una crisi finanziaria che ha costretto ST al passaggio di mano. L’ascesa di Tacchini era stata una scalata alle stelle, avventura da esportazione. «Nel 2001 la Francia divenne il nostro primo mercato, lì un nostro modello di pantaloni vendeva 200mila pezzi l’anno e la catena di negozi Go Sport ne vendeva 300 a settimana solo di colore nero», racconta a Linkiesta Massimo Rivaroli, ex tennista numero 8 d’Italia, storico direttore commerciale di Sergio Tacchini e amico del fondatore, uno che l’azienda l’ha vista crescere. Oggi Rivaroli si ritrova a fare il delegato sindacale nella crisi della gestione cinese. Manager e rsu allo stesso tempo: «Mai avrei pensato in vita mia di fare il sindacalista, ma i colleghi me l’hanno chiesto e sono stato ripagato dalla loro riconoscenza».
L’arruolamento di Novak Djokovic avrebbe dovuto risollevare le sorti dell’azienda, ma è stato un boomerang
Icona vintage, simbolo del Made in Italy che comandava sulla terra rossa, Tacchini è rimasto un marchio riconosciuto anche dopo le turbolenze del passaggio di proprietà. La domanda cresce grazie all’arruolamento di Novak Djokovic nel gennaio 2010, colpaccio strappato ai rivali di Adidas con un contratto decennale ben costruito: un compenso base relativamente basso rafforzato dai premi per tornei vinti e classifica (il primo posto valeva circa 1 milione di euro), bonus peraltro coperti da polizze assicurative stipulate da ST. Firmato all’inizio della sua ascesa verso il tetto dell’Atp, il fuoriclasse in qualità di brand ambassador avrebbe dovuto risollevare le sorti dell’azienda. Invece una serie di fattori lo rende boomerang. «Pochi investimenti», ritardi nella consegna dei prodotti che fecero infuriare i dealer americani e un contratto impegnativo nel momento in cui il serbo ha cominciato a vincere tutto (4 slam e 161 partite vinte su 190).
Dopo due anni Djokovic viene arruolato dalla giapponese Uniqlo, risposta orientale a Zara e H&M, che lo ricopre d’oro. Prima però le parti si siedono al tavolo per archiviare il contratto decennale con la Sergio Tacchini, che a sua volta incassa circa 3 milioni di euro. E fonti vicine al dossier osservano: «Vista l’entità dell’affare e il calibro del giocatore, ST avrebbe potuto ottenere il doppio». In Italia non fa notizia ma Oltreoceano fioccano le critiche degli addetti ai lavori alla “gestione Djokovic”. Nel portafoglio Tacchini rimane la sponsorizzazione del torneo Master 1000 di Montecarlo e viene rinnovato il parco giocatori con il brand ambassador Tommy Robredo, tennista numero 22 del mondo. Addio invece alla sponsorizzazione degli Internazionali di tennis d’Italia, per i quali Tacchini deve ancora versare i soldi relativi a due anni di sponsorizzazione. La Federtennis, creditrice dei denari, ha opposto un decreto ingiuntivo poi bloccato da un piano di rientro «parzialmente disatteso» a cui avrebbe fatto seguito un avviso di precetto.
«Se le cose devono andare così, meglio chiudere e restare nel mito»
Ieri i fasti, oggi le recriminazioni. I dipendenti non riassorbiti riflettono: «C’è stata un’incapacità imprenditoriale che ha distrutto tutto in poco tempo. L’azienda aveva le carte in regola per essere rilanciata, il brand era forte». E qualcuno butta lì una provocazione: «Se le cose devono andare così, meglio chiudere e restare nel mito». L’ex direttore commerciale Rivaroli parla di «grande dispiacere» perché «eravamo innanzitutto una bella squadra». Ricorda gli anni in cui girava il mondo per seguire le sponsorizzazioni di tennisti, sciatori, piloti di Formula Uno. «Quando pronunciavi il nome Sergio Tacchini si aprivano tutte le porte». Oggi tra riunioni e chiacchiere informali, la sensazione è che la Sergio Tacchini International abbia già scelto la sua ristrutturazione: brand company snella con sede a Milano che si muove nel mondo tramite le licenze, il tutto nella forma dell’affitto di ramo d’azienda a Wintex italia. Secondo le indiscrezioni raccolte dal Sole 24 Ore la Wintex sarebbe pure pronta ad acquistare il marchio Sergio Tacchini, già in affitto da Sergio Tacchini International. Mossa che chiuderebbe le porte al tentativo di Sergio e Alessandro di riappropriarsi dell’azienda.
Dalla nuova sede milanese di via Savona fanno sapere che sull’interessamento del «cavalier Tacchini noi come Wintex Italia non siamo stati interpellati. Sergio è colui che ha creato il brand? Ma è anche quello che l’ha venduto…». Intanto il distretto tessile novarese, dove sono di casa pure Gucci e Versace, non si arrende all’addio della T cerchiata. Il sindaco di Novara Andrea Ballarè ha affiancato Sergio e Alessandro Tacchini nella conferenza stampa per l’annuncio dell’offerta: «La città vede con favore questa ipotesi». Chi conosce bene il fondatore lo descrive «amareggiato». Lui, ex campione di tennis e Cavaliere del Lavoro, «sarebbe pronto a tutto per riavere la sua creatura, che porta pure il suo nome». Il braccio di ferro Italia-Cina continua, il futuro della Sergio Tacchini è tutt’altro che scontato.