Secondo i dati della Entertainment Software Association, l’associazione dell’industria del videogioco statunitense, il 55% dei videogiocatori sono maschi e il 45% sono femmine. Le donne di più di 18 anni rappresentano una porzione dei videogiocatori molto più significativa rispetto ai ragazzi di meno di 17 anni. E anche tra i giocatori accaniti, quelli che comprano spesso videogiochi, le percentuali non variano molto: il 54% sono maschi, il 46% sono femmine.
Le videogiocatrici, insomma, non sono una minoranza nel mondo dei videogiochi. Ma lo sono sicuramente dentro ai videogiochi. All’ultimo E3, una delle più grandi fiere dedicate ai videogiochi, oltre alle presentazioni di molti nuovi giochi da budget di centinaia di milioni di dollari, due notizie hanno fatto molto discutere. Da una parte il direttore creativo di uno dei giochi più attesi dell’anno, l’ultimo capitolo della saga di Assassin’s Creed, ha detto che il gioco non avrebbe permesso di interpretare un assassino donna come precedentemente annunciato. Il motivo? La cosa avrebbe richiesto troppo lavoro: «raddoppia le animazioni, raddoppia le voci e tutta quella roba». Il level designer del gioco ha detto a Polygon che «abbiamo iniziato a lavorarci ma abbiamo dovuto abbandonare. Non posso parlare per il futuro della saga ma era qualcosa a cui il team teneva molto, per cui possiamo aspettarci che prima o poi [ci sarà un assassino femmina]». Solo, non questa volta. Praticamente in contemporanea, un altro team di sviluppo di un altro gioco molto atteso, lo sparatutto in prima persona Far-Cry 4, ha detto che «erano a pochissimo dal permettere al giocatore di scegliere un personaggio femmina», ma che alla fine per gli stessi motivi di Assassin’s Creed hanno dovuto abbandonare l’idea.
Questi, va detto, non sono i problemi. Questi sono i sintomi. È l’industria del videogioco, quella che è in grado di investire milioni di dollari su un singolo videogame, che fa delle scelte. Scelte che privilegiano il 55% del proprio pubblico a discapito del 45% e che, fino ad oggi, hanno quasi sempre impedito alle giocatrici femmine di vedere soddisfatta la più basilare delle richieste: poter giocare a un gioco in cui il protagonista sullo schermo ha almeno il loro stesso sesso. La questione, ovviamente, è molto più profonda di così e non riguarda solamente gli avatar dei giocatori e delle giocatrici, ma in generale la rappresentazione delle donne nei videogiochi. Un problema che va avanti dall’alba del medium.
Nel 1981, Nintendo pubblica Donkey Kong, un videogame che in cui fanno la loro prima apparizione due tra i personaggi più famosi dell’azienda giapponese: Donkey Kong, appunto, e Super Mario. In mezzo ai due c’è Pauline, una donna che viene prima rapita dal gorilla e poi salvata dall’idraulico. Una donna che non ha altro ruolo nel gioco se non gridare «aiuto!» tutto il tempo. Da allora le cose non sono cambiate poi molto. L’erede di Pauline, la principessa Peach, viene rapita almeno 10 volte durante tutta la saga di avventure di Super Mario. E tutte le volte Mario — e il giocatore — la salva senza che lei abbia altro ruolo rispetto all’essere rapita e l’essere salvata. E Super Mario è solo una delle centinaia di videogiochi che fanno ricorso a questo espediente narrativo. Lo stesso discorso vale per Zelda, Double Dragon, Final Fight, Crash Bandicoot, Ghosts N Goblins, Dragon’s Lair, Resident Evil, Duke Nukem e anche il già citato Far Cry. La critica Anita Sarkeesian nella sua serie di video Tropes vs Women in Video Games dice che questa rappresentazione delle donne nei videogiochi, e in qualsiasi altra forma di narrazione, ha il ruolo di «scambiare il potere tolto ai personaggi femminili con il potere dato ai personaggi maschili».
Ma i videogiochi con protagonisti personaggi femminili forti ci sono. Che ne diciamo della famosissima protagonista di Tomb Raider Lara Croft, ad esempio? Be’, prima di tutto che è un personaggio creato prima per piacere ai maschi e non alle femmine. È una specie di Indiana Jones al femminile, con un seno completamente e deliberatamente sproporzionato che la rendono prima oggetto sessuale e poi personaggio. Il finale del gioco più famoso della saga, Tomb Raider 2, rende bene l’idea: dopo decine di avventure, salti nel vuoto, uno scontro contro un enorme drago e dopo aver recuperato un artefatto che ha inseguito per tutto il gioco, Lara pensa bene di… spogliarsi e farsi una doccia. Ma prima di togliersi la vestaglia con cui ha corso per tutto l’ultimo livello, Lara solleva il fucile, sfonda la quarta parete e parla direttamente al giocatore dicendogli «ancora qui?» e spara.
L’arrivo di Lara Croft, però, ha anche acceso una discussione all’intero dell’industria dei videogiochi, aprendo di fatto la strada ad altre protagoniste femminili, meno sessualizzate e pensate per le videogiocatrici prima che per i videogiocatori. E l’ultima incarnazione di Lara, nel Tomb Raider uscito nel 2013, ne è la testimonianza. Il personaggio guadagna un’identità e una profondità che nei giochi precedenti mancava completamente e smette di essere un’oggetto sessuale. Nel gioco c’è anche una scena, che ha fatto molto discutere, di tentato stupro in cui Lara è costretta a uccidere per la prima volta per difendersi. La scrittrice del gioco ha detto in un’intervista a Eurogamer che «può essere un po’ scioccante vederla piangere e essere vulnerabile, perché non abbiamo mai visto questa Lara prima d’ora. Ci siamo presi il rischio di farla apparire spaventata e dubbiosa, ma è da lì che arriva il coraggio». Un incredibile salto in avanti, rispetto alla Lara nata nel 1996.
L’industria dei videogiochi, insomma, un pezzetto alla volta sta davvero cambiando. Ma, per ora, in moltissimi videogiochi la principessa continua purtroppo a essere chiusa in un altro castello. Impossibile da giocare per metà dei videogiocatori di tutto il mondo e ancora incapace di salvarsi da sola.